Anche le Eliadi piansero e, vano tributo alla morte, versarono lacrime, e battendosi il petto con le mani, prosternate sul sepolcro, notte e giorno invocarono Fetonte, che udire più non poteva i loro tristi lamenti.
Quattro volte, riunendo le punte della sua falce, era tornata piena la luna, e quelle come di consueto (la ripetizione ne aveva fatto una consuetudine) si stavano per abbandonare al pianto, quando fra di loro Faetusa, la sorella maggiore, nel tentativo di prostrarsi a terra, si dolse che le si erano irrigiditi i piedi, e la candida Lampezie che cercava di avvicinarsi a lei, fu trattenuta da un’improvvisa radice; una terza, che tentava di strapparsi i capelli con le mani, si sorprese a staccare delle foglie. L’una si duole che un ceppo le serri le gambe, l’altra che le braccia si mutino in lunghi rami. E mentre stupite si guardano, una corteccia avvolge loro gli inguini e a poco a poco fascia il ventre, il petto, le spalle e le mani: solo restano scoperte le bocche che invocano la madre.
E che altro può fare la madre, se non correre di qua e di là, dove la trascina l’angoscia, a dispensare baci finché le è possibile? Non basta: tenta di svellere dai tronchi quei corpi, ma con le mani spezza i rami appena spuntati e da questi stillano gocce di sangue, come da una ferita.
«Fermati, madre, ti prego – grida ciascuna di loro per la sofferenza. – Fermati, ti prego! Nell’albero si strazia il nostro corpo. Addio, è la fine…», e la corteccia soffoca le loro ultime parole.
Ne colano lacrime, è ambra che stilla dai nuovi rami e che, induritasi al sole, finisce nel fiume limpido che la trasporta via, per offrirla come ornamento alle donne in fiore del Lazio.
A questo prodigio assistette il figlio di Stenelo, Cicno, che legato a te, Fetonte, per parte materna, ancor di più lo era per vincoli d’amicizia. Lasciato il potere (governava infatti il popolo dei Liguri e le loro grandi città), stava riempiendo di lamenti le correnti dell’Eridano e le sue verdi sponde con le loro selve rese ora più fitte dalle sorelle di Fetonte, quando la voce gli si affievolì e i capelli gli scomparvero sotto candide piume: sporgendo di molto dal petto gli si allungò il collo, una membrana congiunse le dita rossicce, due ali gli fasciarono i fianchi, e al posto della bocca gli spuntò un becco smussato.
Cicno diventa cigno, novello uccello che, memore dei fulmini scagliati con crudeltà da Giove, diffida di lui e di levarsi in cielo: cerca gli stagni, i laghi aperti e, detestando il fuoco, sceglie come dimora i fiumi, che sono l’opposto delle fiamme.
(Ovidio, Metamorfosi, 2: 340-380)
***
Un cigno. Un uccello che non vola.
È tutto ciò che resta (in ciascuno di noi) dopo Fetonte. Resta soltanto un triste «consanguineo» fraterno, solo l’«amico» intimo del bambino che fummo, e che precocemente ci «morì» in illo tempore.
Resta un «diffidente», uno strano uccello: se pure la natura l’ha provvisto di ali, lui non si fida di volare. È un uccello, e dunque è manifestamente un essere «celeste», ma è rimasto talmente stranito dalla catastrofe dei cieli di cui è stato testimone, da arrangiarsi poi a sopravvivere come un qualunque terricolo, nutrendosi solo di uno o due miseri «scarti» della sua «dieta» antica.
In ogni caso, se dobbiamo credere al Racconto, il «sopravvissuto» non è uno di quaggiù, non è di questa «terra» ma, dacché lo spericolato Fetonte del suo essere è «morto», si è accasato timidamente sotto quest’altro cielo, sotto questo cielo «ristrutturato» dalle crudeli forze messe in campo dal «fulmine» di Giove.
Perché è con la «crudeltà» di Thanatos che noi, sopravvissuti, avemmo a che fare! – è con Sua Maestà la Necessità che ci scontrammo, quando Ananke ci buttò in angoscia giù dal Polo.
«Mamma, che dici? È vero che sono figlio di dio? O mi hai detto solo una bugia?».
È con una domanda più o meno come questa, che ha inizio la nostra storia – una domanda, e tutta un’esistenza da esistere in cerca della più improbabile delle risposte.
Questo è tutto ciò che ci resta alla fine dell’Età dell’Oro. La leggenda ci resta, solo questa problematica leggenda: d’essere nati da una mamma «umana» che ha fatto all’amore con un «dio», e perciò d’essere abilitati sì al volo, ma come il Cigno possiamo volare solo a parole – solo sulle ali di un canto, e solo in un cantuccio simbolico della «realtà» a cui morimmo.
Oh, sì che possiamo cantare, a condizione però di comprendere ciò che qui ci attesta Ovidio: e cioè, che non è la sua propria morte che il cigno canta o annuncia, e che anzi, cantando la morte in volo del suo audace «fratello», il cigno nasce a una nuova forma d’esistenza – cantando, il Cigno migra alla volta di un altro mondo, di un nuovo cielo, passando con le sue lamentazioni funebri per quella stessa Morte per cui è già passato (e che disastro!) il Carro del Sole guidato da quel – come si dice a Napoli – «piscitiello di cannuccia» che fu Fetonte.
A condizione, dunque, di comprendere che il canto del Cigno non è una profezia della sua «morte» prossima ventura, ma la memoria (la traccia, il segno, la nota, il fonema o il geroglifico sintetico) della Morte già incontrata: il ricordo, vago ma nondimeno scandaloso, dell’ultima scena dell’ultimo atto della tragedia che segnò la fine dell’Età dell’Oro del suo essere. O come qui direbbe il Filosofo: il suo trapasso dall’essere all’esserci, lo spostamento del suo essere in un’altra «regione» linguistica ed esistenziale.
E dunque: altro che moribondo! se e quando canta, il cigno che, nascendo dal lamento funebre per Fetonte, gli sopravvive – ora puoi anche tu riconoscerlo – è il triste Precursore, l’inconsolabile Precursore del mondo nuovo, di questo nuovo modo d’essere che è la piega («simbolica») presa dalla nostra esistenza una volta sbalzata fuori dalla sua «realtà immediata», ignorante e analfabetica. Il Precursore della nostra vile «inclinazione» alla nostalgia e alla tristezza – da «spiritosi» che eravamo un tempo.
Il Racconto è chiaro. Il Racconto dice che, sebbene dotato d’ali, il cigno non osa più avventurarsi su per l’aureo sentiero su cui corse un tempo Fetonte. E che, se mai un giorno il cigno volerà fino allo zenit, sarà solo nel canto. Sarà, il suo, soltanto un volo intorno al Polo di un nuovo cielo «simbolico» – un volo senza altre ali che quelle del suo canto. Solo le note, dicono i pitagorici, lo restituiranno all’altezza, al grado e alla dignità, della sua «natura» alata. Solo così, se mai un giorno, il cigno arriverà «a piaggia».
«Il cigno – scrive Schneider – è l’impronta mistica del ritmo del sacrificio»: è il segno lasciato da una condoglianza, da uno strazio condiviso tra la vittima del sacrificio e il sacrificante, tra il «defunto» e chi gli sopravvive.
Il cigno è il segno che sopravvive al sacrificato Fetonte – il solo segno, la sola «impronta» che può dare una posterità al «defunto»: la possibilità di una via per cui andare a cercarsi un’altra vita lontano dalla Via Lattea, la chance di un’altra esistenza sbalzata sotto un altro «cielo».
In quanto alle Eliadi – le Figlie del Sole – il Racconto dice che furono loro le prime a dolersi della morte di Fetonte, loro le nostre antiche illuminazioni. E dice che per il dolore finirono per ritrarsi nelle loro proprie «radici». Ovidio conferma: le Figlie del Sole, le nostre primitive visioni e apparizioni, patirono un tale trauma da regredire, nel breve volgere di «quattro lune», allo stato selvatico. Dice che le antiche fantasie si mutarono in «fantasmi», e che questi fantasmi non fecero in tempo a prendere la parola, se non per perderla subito dopo: giusto il tempo di «chiamare» la mamma, dice Ovidio – giusto il tempo di dire «mamma», ed ecco: le «luci» che, per prime, ci stavano svelando i colori del mondo (e la loro gioia d’essere), restarono prigioniere della «selva» (oscura, dirà poi Mastro Dante).
Le «sorelle» di Fetonte, le prime «testimoni» della sua morte, una volta che furono ridotte a pure «presenze vegetali», poterono a stento abbozzare un lamento – mi fai male! Solo questo riuscirono a dire – come Pinocchio a Mastro Ciliegia, o Polidoro a Enea, o Pier delle Vigne a Dante, arrivarono a dire a malapena questo alla loro Mamma – mi fai male!
Poi Thanatos le ammutolì per sempre.
«Mamma, come fai a dire che sono figlio di dio, tu che se solo le tocchi, fai sanguinare le sorelle della mia sventura? Mamma, perché mi hai detto questa grossa bugia?».
Fetonte è morto, ma questa sua domanda, il suo problema, insiste – al di là della breve stagione che gli fu concessa di esistere. Fetonte non esiste più. Fetonte è morto eppure qualcosa della Forza che lo «uccise» insiste ancora: insiste, per esempio, nelle lacrime d’ambra delle sue «sorelle», in quelle piccole scosse «elettriche» che sono i «resti erotici» (noi ancora li chiamiamo «colpi») di quello stesso «fulmine» che la Morte scaricò in illo tempore sull’improvvisato auriga del Carro del Sole.
Fetonte non è più, Fetonte è morto, ma l’«elettricità» con cui il Fulmine l’ha «morto» e spazzato via dall’antico Sentiero del Sole, ancora insiste. Ancora agisce, in noi sopravvissuti, lo stesso «istinto di morte» che ci distrusse il mondo. Solo che, con la metamorfosi delle Eliadi, la sua potenza è diminuita, la corrente s’è abbassata e, così ridotta, può adesso alimentare quelle piccole intensità «nervose», tremori e timori, di cui si pasce il nostro erotismo più infantile, quello il cui linguaggio non giunse a verbalizzare altro che la parola «mamma».
Fetonte è morto, e a fare i conti, non è granché quello che dopo di lui ci resta: un uccello che non si fida di volare «realmente», e delle silenti gocce d’ambra appese al collo o al polso delle fanciulle latine. L’uccello che s’alza in volo solo sulle ali della sua Musa, e lo splendore del corpo femminile capace di fungere da magnete «erotico» solo da quando fu investito dalla Forza di Thanatos.
Amore e Morte. Ci restano solo queste due «anticaglie» a cui poter chiedere conto e racconto della nostra «riduzione» esistenziale.
È poco, troppo poco – quasi niente, nient’altro che un «non-nulla» d’un antico problema irrisolto. Può essere infatti che noi non siamo quel che dice la Mamma. Forse, davvero non è vero che siamo «figli (minorati) di un dio». Ma per continuare a domandarcelo, tutto ciò a cui possiamo aggrapparci sono i resti avanzati alla catastrofica prepotenza di Thanatos. Quei due «resti erotici» della Forza di Thanatos che, umanamente ridotti, ancora ci eccitano al canto e alla reciproca e, quanto più possibile, fulminea seduzione.
Ah, sì, certo – invece del racconto di un ragazzo «arso» dal fulmine di Zeus, piuttosto che l’inverosimile leggenda di un cielo andato in fiamme, potremmo prendere a prestito i concetti del Filosofo. E allora, invece di dire «Età dell’Oro» e «Via Lattea», diremmo «immediatezza» e «realtà» perdute.
Ma se per caso fosse chiesto a noi di dare un suggerimento «narrativo» al Filosofo, gli consiglieremmo di tornare a Parmenide e di comparare l’ouverture del suo «poema» con la Sceneggiatura di Ovidio:
a) un ragazzo alla guida del Carro, un ragazzo in viaggio nell’ardore delle sue proprie fiamme immaginali, un ragazzo portato a spasso dalle cavalle delle sue «passioni» più spericolate, più ignoranti e analfabetiche;
b) e a lui d’intorno, di nuovo – come in Parmenide! – le Figlie del Sole che gli fanno corona, sue liete e gioiose compagne di viaggio, fino al giorno in cui improvvisa una catastrofe stravolge e mette sottosopra il mondo, facendo girare alla rovescia le Porte del Giorno e della Notte;
c) e poi – da ultimo – un canto, quello del Cigno; da ultimo, il triste sconsolato Precursore di un nuovo linguaggio, che affida al «dire» che verrà, e alla magia dei suoi futuri incantesimi, le «false» memorie di quando, spensierato e incosciente, il Guaglione pazziava a rincorrere le Spose promesse alla sua libido.