Deleuze – Il triste Precursore e l’eterno ritorno

Non sono le somiglianze, ma le differenze che si somigliano
(Lévi-Strauss)

Secondo l’intuizione di Heidegger, la differenza è – scusate la parola – ontologica. Prima ancora di assoggettarsi alla Rappresentazione e, dunque, alle condizioni di somiglianza, Magritte-prospettiva-amorosaidentità, analogia, o opposizione, la differenza parla sin dai suoi preliminari «muti», seleziona, associa e/o separa differente a differente, articolando il suo linguaggio senza passare per una mediazione con l’identico o il simile, l’analogo o l’opposto, e senza nessun altro scopo che affermare e ribadire Se Stessa.

Quella di cui qui si parla, non è una qualunque differenza. Qui si parla della Madre delle differenze – di quell’«in sé» differenziante, che organizza in serie, in sistemi di somiglianze, le differenze tra i termini che la compongono. Essa, dunque, «connette» (… e… e… e… ) le differenze che seleziona in due o più serie tra loro separate, che si ignorano a vicenda e che sono l’una all’altra «indifferenti» finché (ecco la «folgorazione» di cui più avanti parla Deleuze) una differenza di una serie non colloquia con una di un’altra serie, producendo una «risonanza» – il che avviene sotto l’azione di una forza, nella mischia di un conflitto (quale, se non quello che contro Thanatos sostiene chi al suo strapotere si ribella? e chi altri si ribella, se non Eros il «poeta»?), oppure, dice Deleuze, perché l’«in sé» è congenitamente atto a «pontificare», cioè a costruire da sé (è sottinteso: per il «suo» puro godimento) anche serie più complesse, i cui termini non siano somiglianze tra differenze, ma differenze di differenze, o differenze di secondo grado che riferiscono, intrecciandole in un vasto caotico groviglio «cosmico», le une alle altre le differenze di primo grado.

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L’accoppiamento tra serie eterogenee produce una risonanza interna nel sistema e un movimento forzato la cui ampiezza va al di là delle serie di base. È possibile determinare la natura di questi elementi che fanno sia valere la loro differenza nella serie di cui fanno parte, sia da una serie all’altra la loro differenza di differenza: essi sono delle intensità, in quanto è proprio dell’intensità essere costituita da una differenza che rimanda a sua volta ad altre differenze.
Così, per esempio, il legame psichico (Habitus) opera un accoppiamento di serie di eccitazioni; Eros designa lo stato specifico di risonanza interna che ne deriva; l’istinto di morte si confonde con il movimento forzato la cui ampiezza psichica supera le stesse serie risonanti (donde la differenza di ampiezza tra l’istinto di morte e l’Eros risonante).

Quando la comunicazione viene stabilita tra serie eterogenee, nel sistema si ha ogni sorta di conseguenze. Qualcosa «passa» tra i margini; esplodono avvenimenti, balenano Ernst-mare-solefenomeni, del tipo lampo o folgore. Saturano il sistema dinamismi spazio-temporali, esprimendo a un tempo la risonanza delle serie accoppiate e l’ampiezza del movimento forzato che li trascende.
Soggetti popolano il sistema, soggetti sia larvali che io passivi: io passivi, perché si confondono con la contemplazione degli accoppiamenti e delle risonanze; soggetti larvali perché sono il supporto o l’oggetto dei dinamismi.

In effetti, nella sua partecipazione necessaria al movimento forzato, un puro dinamismo spazio-temporale non può essere provato se non al culmine del vivente, in condizioni fuori delle quali esso comporterebbe la morte di ogni soggetto ben costituito, provvisto d’indipendenza e di attività. L’embriologia, infatti, insegna che ci sono movimenti vitali sistematici, modificazioni, torsioni, che solo l’embrione può sopportare, mentre l’adulto ne uscirebbe dilaniato.
Esistono movimenti di cui non si può essere che i pazienti, ma il cui paziente per giunta può essere solo una larva. L’evoluzione non avviene all’aperto, e solo evolve ciò che è involuto. L’incubo è forse un dinamismo psichico che né l’uomo desto, né il sognatore potrebbero sopportare, ma solo chi dorme di un sonno profondo, di un sonno senza sogno.

Ecco perché il pensiero non può essere riferito, come nel cogito cartesiano, a un soggetto sostanziale compiuto, ben costituito (ego): il pensiero appartiene piuttosto a quei movimenti terribili che possono essere sopportati solo nelle condizioni di un soggetto larvale. Il sistema non comporta se non soggetti siffatti, poiché solo essi possono compiere il movimento forzato, divenendo i pazienti dei dinamismi che li esprimono.
Persino il filosofo è il soggetto larvale del proprio sistema. Ecco dunque che il sistema non si definisce soltanto attraverso le serie eterogenee che lo fasciano, né attraverso l’accoppiamento, la risonanza e il movimento forzato che ne costituiscono le dimensioni, ma anche attraverso i soggetti che lo popolano e i dinamismi che lo saturano, e infine attraverso le qualità e i campi che si sviluppano a partire da tali dinamismi. […]

Lundeberg-fantasia

La folgore scoppia dunque tra intensità differenti, ma è preceduta da un triste precursore, invisibile, insensibile, che ne determina in anticipo il cammino capovolto, come incavato. Ogni sistema contiene egualmente il suo triste precursore che assicura la comunicazione delle serie da collegare.
Vedremo che, secondo la varietà dei sistemi, questo ruolo viene svolto da determinazioni molto diverse. Ma si tratta di sapere comunque come il precursore esercita questo ruolo. Non v’è dubbio che c’è un’identità del precursore, e che è una somiglianza delle serie che esso mette in comunicazione. Ma questo «esserci» resta perfettamente indeterminato.

L’identità e la somiglianza, cosa sono qui? condizioni, o viceversa effetti di funzionamento del triste precursore che proietterebbe necessariamente su di sé l’illusione di un’identità fittizia, e sulle serie che mette insieme l’illusione di una somiglianza retrospettiva?
In entrambi i casi, identità e somiglianza non sarebbero altro che illusioni inevitabili, cioè concetti della riflessione che renderebbero conto della nostra abitudine radicata di pensare la differenza a partire dalle categorie della rappresentazione, ma questo perché l’invisibile precursore si celerebbe insieme col suo funzionamento, e celerebbe nello Seligman-polipostesso tempo l’«in sé» come la vera natura della differenza.

Date due serie eterogenee, due serie di differenze, il precursore agisce come il differenziante di tali differenze. E così le mette in rapporto immediatamente, grazie alla propria potenza: egli è l’«in sé» della differenza o il «differentemente differente», cioè la differenza al grado secondo, la differenza da sé, che riferisce il differente al differente per sé.
Poiché il cammino che traccia è invisibile, e non diventerà visibile se non capovolto, in quanto ricoperto e percorso dai fenomeni da lui indotti nel sistema, non avrà altro posto che quello in cui «manca», altra identità che quella a cui «manca»: per l’appunto è l’oggetto = x quello che «manca al suo posto» come alla propria identità.

Cosicché l’identità logica che la riflessione gli attribuisce, e la somiglianza fisica che la riflessione attribuisce alle serie che esso riunisce, esprimono soltanto l’effetto statistico del suo funzionamento sull’insieme del sistema, cioè il modo con cui esso, il «precursore», si sottrae ai propri effetti, in quanto si sposta costantemente in sé e si maschera di continuo nelle serie.
E quindi, non si può considerare l’identità di una terza parte e la somiglianza delle parti come una condizione per l’essere e il pensiero della differenza, [l’identità logica e/o la somiglianza fisica come precondizioni perché la differenza sia e pensi], ma solo una condizione per la sua rappresentazione, la quale esprime uno snaturamento dell’essere e del pensiero, come un effetto ottico che viene a turbare il vero statuto della condizione così come è in sé.

Chiamiamo dispars il triste precursore, la differenza in sé, al secondo grado, che pone in rapporto le stesse serie eterogenee o disparate. In ogni caso il suo spazio di spostamento e il suo processo di mascheramento determinano una grandezza relativa delle differenze poste in rapporto. […]

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Verlinde-zombies

Di questo Precursore, bisogna guardarsi dall’attribuirgli un’identità (logica, verbale, nominale) che esso non ha e non può avere. Esso è puro «differenziante» che, a seconda delle sue possibilità di frazionamento e di mascheramento, non fa altro che spostarsi da una serie all’altra, in cerca di nuove differenze di cui godere «per sé» (dice Deleuze), o meglio ancora: «per sé e per i suoi», per sé e i suoi figli-embrioni.

In quanto alla somiglianza «fisica» (immaginale, visiva), essa non è che un tardivo effetto «illusorio», un prodotto dell’auto-inganno con cui il Precursore «risuscita» dalla morte dell’immaginazione «afrodisiaca», come a dire: dal fallimento e dalle rovine di Narciso, niente di più ma anche niente di meno che un «trucco poetico» (una rima, un’assonanza, una vaga allitterazione). Il Precursore non somiglia a niente e nessuno, ed è solo auto-incantandosi che si arroga un’identità di cui manca. Il Precursore non è riducibile al Miraggio dietro i cui «colori» si maschera. Il Precursore gioca col linguaggio, gioca a farlo trascendere dalle immagini alle parole. Il Precursore inizia al linguaggio simbolico, da dietro le quinte dell’immaginazione.
In quanto ai suoi «trucchi poetici», in quanto cioè ai suoi «problemi erotici», e alle sue tardive «domande afrodisiache»,

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… si prendano taluni esempi tratti da sistemi letterari molto diversi. Nell’opera di Raymond Roussel, ove ci troviamo di fronte a serie verbali, il ruolo del precursore è sostenuto da un omonimo quasi omonimo (billard-pillard [biliardo-predatore]), ma il Kay-Sage-piccolo-ritrattotriste precursore è tanto meno visibile e sensibile in quanto una delle due serie, all’occorrenza, resta celata. Strane storie colmeranno la differenza tra le due serie, in modo da indurre un effetto di somiglianza e d’identità esterne. Ora, il precursore non agisce affatto con la propria identità, fosse anche un’identità nominale o omonimica, come ben si vede nel quasi omonimo che non funziona se non confondendosi interamente con il carattere differenziale di due parole (b e p). Parimenti l’omonimo non appare qui come l’identità nominale di un significante, ma come il differenziante di significati distinti, che produce secondariamente un effetto di somiglianza dei significati, come un effetto d’identità nel significante. Così non basta dire che il sistema si fonda su una certa determinazione negativa, e cioè sul difetto delle parole in rapporto alle cose, e questo perché una parola è condannata a designare più cose, ma è la stessa illusione che ci fa pensare la differenza a partire da una somiglianza e da un’identità supposte precedenti, e che la fa apparire negativa.

In verità, non con la sua povertà di vocabolario, ma con la sua eccessiva ricchezza, con la sua potenza sintattica e semantica più positiva, il linguaggio inventa la forma in cui ricopre il ruolo del triste precursore, vale a dire in cui, parlando di cose differenti, differenzia le differenze riferendole immediatamente le une alle altre, in serie che esso, il precursore, fa risuonare. […]

Il problema di sapere se l’esperienza psichica è strutturata come un linguaggio, o anche se il mondo fisico è assimilabile a un libro, dipende dalla natura dei tristi precursori. Un precursore linguistico, una parola esoterica, non ha di per sé un’identità, sia pure nominale, così come i suoi significati non hanno una somiglianza, magari infinitamente diluita; non è soltanto una parola complessa o una semplice congiunzione di parole, ma una parola sulle parole, che si confonde interamente col «differenziante» delle parole di primo grado, e col «dissomigliante» dei loro significati. Così essa non ha valore se non Mirò-donna-uccellonella misura in cui pretende, non di dire qualcosa, ma di dire il senso di ciò che dice.

Ora la legge del linguaggio così come si esercita nella rappresentazione esclude questa possibilità; il senso di una parola non può essere detto se non da un’altra parola che assume la prima come oggetto. Ne deriva la situazione paradossale di un precursore linguistico che appartiene a una sorta di metalinguaggio, e in quanto non può incarnarsi se non in una parola priva di senso dal punto di vista delle serie di rappresentazioni verbali di primo grado, è per così dire, il loro refrain [il loro «ritornello»].

Questa duplice condizione della parola esoterica, che dice il proprio senso, ma non lo dice senza rappresentarsi e rappresentarlo come non-senso, esprime chiaramente il perpetuo spostamento del senso e il suo mascheramento nelle serie. Talché la parola esoterica è sì l’oggetto = x propriamente linguistico, ma c’è anche che l’oggetto = x struttura l’esperienza psichica come quella di un linguaggio, purché si tenga conto del perpetuo spostamento invisibile e silenzioso del senso linguistico.
In certo modo, tutte le cose parlano e hanno un senso, a patto che la parola sia nello stesso tempo anche ciò che si tace, o piuttosto il senso, ciò che si tace nella parola.

Nel suo stupendo romanzo Cosmo, Gombrowicz mostra come due serie di differenze eterogenee (quella delle impiccagioni e quella delle bocche) sollecitino la loro messa in comunicazione attraverso diversi segni, sino all’instaurazione di un triste precursore (l’assassinio del gatto), che agisce qui come il differenziante delle loro differenze, come il senso, incarnato tuttavia in una rappresentazione assurda, ma a partire dal quale sono sul punto di scatenarsi dinamismi, di prodursi nel Cosmo avvenimenti che troveranno il loro esito finale in un istinto di morte al di là delle serie. Si manifestano così le condizioni sotto cui un libro è un cosmo, e il cosmo un libro, e si sviluppa attraverso tecniche molto diverse l’identità ultima joyciana, che si ritrova in Borges o in Gombrowicz, caos = cosmo.

Dalì-caos

Ciascuna serie forma una storia: non punti di vista differenti su una stessa storia, come «i punti di vista sulla città» secondo Leibniz, ma storie completamente distinte che si svolgono simultaneamente. Le serie di base sono divergenti, non relativamente, nel senso in cui basterebbe invertire la marcia per trovare un punto di convergenza, ma assolutamente divergenti, nel senso in cui il punto di convergenza, l’orizzonte di convergenza sta in un caos, sempre in esso spostato.
Questo stesso caos è quanto di più positivo, mentre la divergenza è oggetto di affermazione. Esso si confonde con la grande opera, che tiene tutte le serie complicate, che implica e complica tutte le serie simultanee. (Nessuna meraviglia, dunque, che Joyce provasse tanto interesse per Giordano Bruno, il teorico della complicatio).

La triade complicazione-esplicazione-implicazione rende conto dell’insieme del sistema, vale a dire del caos che tutto tiene, delle serie divergenti che ne escono e vi rientrano, e del differenziante che le riferisce le une alle altre. Ciascuna serie si esplica e si sviluppa, ma nella propria differenza con le altre serie che implica e che la implicano, che avvolge e che l’avvolgono, nel caos che tutto complica. L’insieme del sistema, l’unità delle serie divergenti in quanto tali, corrisponde all’oggettività di un «problema»; di qui il metodo dei problemi-domande con cui Joyce sostiene la sua opera, e ancor prima il modo con cui Snead-eclissiLewis Carroll lega le parole polisemiche allo statuto del problematico.

In tutti i casi l’essenziale è la simultaneità, la contemporaneità, la coesistenza tra loro di tutte le serie divergenti. Certamente le serie sono successive, l’una «prima», l’altra «dopo», [se le guardiamo] dal punto di vista dei presenti che passano nella rappresentazione, ed è proprio da questo punto di vista che si dice che la seconda somiglia alla prima. Ma non è più così in rapporto al caos che le comprende, all’oggetto = x che le percorre, al precursore che le pone in comunicazione, al movimento forzato che le supera, in quanto il differenziante le fa sempre coesistere. […]

Se non è più possibile stabilire nel sistema dell’inconscio un ordine di successione tra le serie, e se tutte le serie coesistono, non è più possibile considerare l’una come originaria e l’altra come derivata, la prima come modello e la seconda come copia. Il fatto è che le serie sono colte simultaneamente come coesistenti, al di fuori della condizione di successione nel tempo, e come differenti, al di fuori di ogni condizione secondo cui l’una fruirebbe dell’identità di un modello e l’altra della somiglianza di una copia.
Quando due storie divergenti si svolgono simultaneamente, è impossibile privilegiare l’una rispetto all’altra, ed è il caso di dire che tutto si equivale, ma «il tutto si equivale» si afferma della differenza, si dice soltanto della differenza tra le due. Per piccola che sia la differenza interna tra le due serie, tra le due storie, l’una non riproduce l’altra, così come l’una non serve da modello all’altra, ma somiglianza e identità sono solo gli effetti del funzionamento della differenza, unica originaria nel sistema.

Non v’è nulla di originale ma un eterno scintillio in cui si disperde, nell’esplosione della deviazione e del ritorno, l’assenza originaria.
(Blanchot, Le rire des dieux)

È giusto dire quindi che il sistema esclude l’assegnazione di un originario e di un derivato, come di una prima e di una seconda volta, poiché la differenza è la sola origine, e fa coesistere indipendentemente da ogni somiglianza il differente che riferisce al Labisse-occhio-manodifferente.
Senza dubbio sotto tale aspetto l’eterno ritorno si rivela come la «legge» senza fondo di questo sistema. L’eterno ritorno non fa tornare lo stesso e il simile, ma deriva a sua volta da un mondo della pura differenza. Ogni serie torna, non soltanto nelle altre che la implicano, ma per se stessa, poiché non è implicata dalle altre senza essere a sua volta integralmente restituita come ciò che le implica.

L’eterno ritorno non ha altro senso che questo: l’assenza di origine assegnabile, cioè l’assegnazione dell’origine nei modi della differenza, che riferisce il differente al differente per farlo (o farli) tornare in quanto tale. In questo senso, l’eterno ritorno è proprio la conseguenza di una differenza originaria, pura, sintetica, in sé (che Nietzsche chiama la volontà di potenza). Se la differenza è l’«in sé», la ripetizione nell’eterno ritorno è il «per sé» della differenza. E ciò nonostante, come negare che l’eterno ritorno non sia inseparabile dallo Stesso? Non è a sua volta eterno ritorno dello Stesso? A noi tuttavia spetta d’essere sensibili ai differenti significati, almeno tre, dell’espressione «lo stesso, l’identico, il simile».

O lo Stesso designa un soggetto supposto dell’eterno ritorno, e allora designa l’identità dell’Uno come principio. Ma proprio qui sta il più grande e lungo errore. Nietzsche dice giustamente che se fosse l’Uno a tornare, per prima cosa non sarebbe uscito da se stesso; se dovesse indurre il multiplo a somigliargli, per prima cosa avrebbe cominciato a non perdere la propria identità nella degradazione del simile. La ripetizione non è né la permanenza dell’uno né la somiglianza del multiplo. Il soggetto dell’eterno ritorno non è lo stesso, ma il differente, non il simile, ma il dissimile, non l’Uno, ma il multiplo, non la necessità, ma il caso.

Inoltre la ripetizione nell’eterno ritorno implica la distruzione di tutte le forme che ne impediscono il funzionamento, delle categorie della rappresentazione impersonate nella Egon Schiele-matricecondizione dello Stesso, dell’Uno, dell’Identico e del Simile. Ovvero lo stesso e il simile sono soltanto un effetto del funzionamento dei sistemi sottoposti all’eterno ritorno, e allora un’identità si trova necessariamente proiettata, o piuttosto retroiettata sulla differenza originaria, e una somiglianza interiorizzata nelle serie divergenti. Ora di tale identità, e di tale somiglianza, si deve dire che sono «simulate», in quanto prodotte nel sistema che riferisce il differente al differente attraverso la differenza (onde un tale sistema è a sua volta un simulacro).

Lo stesso, il simile sono finzioni generate dall’eterno ritorno. Si dà in tal caso non più un errore, ma un’illusione: l’inevitabile illusione che è all’origine dell’errore, ma che può esserne separata. O anche lo stesso e il simile non si distinguono dall’eterno ritorno, e non preesistono all’eterno ritorno: lo stesso e il simile non tornano, ma l’eterno ritorno è il solo stesso, e la sola somiglianza di ciò che torna, né più si lasciano astrarre dall’eterno ritorno per reagire sulla causa.
Lo stesso si dice di ciò che differisce e resta differente. L’eterno ritorno è lo stesso del differente, l’uno del multiplo, il somigliante del dissomigliante. Fonte dell’illusione precedente, esso non la genera e non la conserva se non per gioirne, e mirarvisi come nell’effetto della propria ottica, senza mai cadere nell’errore contiguo.

(Deleuze, Differenza e ripetizione)