Freud – Il motivo della scelta degli scrigni

Due scene di Shakespeare, lieta l’una, tragica l’altra, mi hanno di recente fornito lo spunto per impostare e risolvere un piccolo problema.
La scena lieta è quella della scelta fra tre scrigni compiuta dai pretendenti nel Mercante di Venezia. La giovane e avveduta Porzia è vincolata dalla volontà paterna a prendere Porzia-mercante-Venezia-actressper marito tra i suoi pretendenti solo colui che sceglierà, fra i tre scrigni, quello giusto. Gli scrigni sono rispettivamente d’oro, d’argento e di piombo, e quello giusto contiene il ritratto della fanciulla. I due aspiranti che avevano scelto gli scrigni d’oro e d’argento si sono già ritirati a mani vuote. Il terzo, Bassanio, si decide per quello di piombo e con ciò ottiene la mano della sposa, la cui simpatia, già prima del giudizio della sorte, era per lui. Ciascun pretendente aveva esposto il motivo della propria decisione con un discorso, magnificando il metallo preferito e svilendo gli altri due. Il compito più difficile era così toccato al terzo, cioè al concorrente favorito dalla fortuna; ciò ch’egli può dire per esaltare il piombo di fronte all’oro e all’argento è certo ben poca cosa, e si avverte il suo sforzo. Se noi, nella nostra pratica psicoanalitica, ci trovassimo davanti a un discorso simile intuiremmo, dietro le sue insufficienti argomentazioni, la presenza di motivi tenuti nascosti.

Shakespeare non ha inventato questo oracolo della scelta fra tre scrigni, ma lo ha ricavato da un racconto delle Gesta Romanorum, nel quale la medesima scelta è compiuta da una ragazza per conquistarsi il figlio dell’imperatore. Anche qui il terzo metallo, il piombo, è quello che porta fortuna. Non è difficile intuire che si ripresenta così un vecchio motivo il quale ha bisogno di essere interpretato e ricondotto, attraverso le sue derivazioni, al significato originario. Una prima supposizione che la scelta tra oro, argento e piombo possa avere un significato particolare trova intanto convalida in una osservazione di Eduard Stucken, il quale si è occupato di questo stesso argomento inserendolo in un vastissimo contesto. Egli dice: «Chi siano i tre pretendenti alla mano di Porzia risulta chiaro da ciò che essi scelgono: il principe del Marocco sceglie lo scrigno d’oro, perciò egli è il sole; il principe d’Aragona, che sceglie lo scrigno d’argento, è la luna; Bassanio, che sceglie lo scrigno di piombo, è il figlio delle stelle». A sostegno di tale interpretazione l’autore cita un episodio del poema epico popolare estone Kalevipoeg, nel quale i tre pretendenti appaiono senza travisamenti come il sole, la luna e il figlio delle stelle («il primogenito della stella polare»), e dove pure la fanciulla promessa tocca in sorte al terzo concorrente.

Shakespeare-tre-scrigni

Per questa via il nostro piccolo problema condurrebbe a un mito astrale! Peccato, però, che con questa delucidazione non si venga a capo di nulla. Anzi, la questione secondo noi si aggrava, poiché non riteniamo, come del resto alcuni studiosi di mitologia, che i miti siano piovuti giù dal cielo, ma piuttosto, con Otto Rank, che nel cielo essi siano stati proiettati dopo esser sorti altrove in condizioni puramente umane. Appunto a questo contenuto umano si rivolge il nostro interesse.

Riprendiamo ora in considerazione il nostro materiale. Nel poema estone, come nel racconto delle Gesta Romanorum, si tratta della scelta di una ragazza fra tre pretendenti; nella scena del Mercante di Venezia, che apparentemente verte sullo stesso motivo, subentra al medesimo tempo una specie di inversione, essendo un uomo a scegliere fra tre scrigni. Se avessimo qui a che fare con un sogno, penseremmo lì per lì che gli scrigni siano donne, simboli cioè – come i barattoli, gli astucci, le scatole, le ceste ecc. – di ciò ch’è essenziale nella donna e perciò della donna stessa. Ora, se ci permettiamo di accogliere anche nel mito tale sostituzione simbolica, la scena degli scrigni del Mercante di Venezia diventa veramente espressione di quella inversione che avevamo supposto. D’un colpo, proprio come accade solo nelle fiabe, siamo riusciti a spogliare il nostro soggetto del suo paludamento astrale e vediamo ora che esso tratta un motivo umano, cioè la scelta che Herbert-Cordelia-re-Learun uomo compie fra tre donne.

Identico allora è il contenuto di un’altra scena in una delle più commoventi tragedie di Shakespeare. Anche se qui non si tratta di scegliere la sposa, il legame con la scelta degli scrigni nel Mercante di Venezia è reso tuttavia evidente da troppe segrete somiglianze. Il vecchio re Lear si decide a spartire da vivo il suo regno fra le sue tre figlie, in ragione dell’amore che ciascuna di esse gli dimostrerà. Le due maggiori, Gonerilla e Regana, si affannano a protestare il loro amore magnificandolo; la terza, Cordelia, ricusa invece di farlo. Egli dovrebbe riconoscere e premiare l’amore della terza, silenzioso e spoglio di manifestazioni appariscenti, ma non lo discerne; respinge Cordelia e divide il suo regno tra le altre due, facendo così la propria e l’altrui sventura. Non è forse anche questa una scena della scelta fra tre donne, la più giovane delle quali è la migliore, quella che vale di più?

Altre scene tratte da miti, fiabe e poemi, che hanno per tema la medesima situazione, ci vengono subito in mente. Il pastore Paride è chiamato a scegliere fra tre dee, ed egli dichiara che la terza è la più bella. Cenerentola è anch’essa la più giovane delle sorelle, che il figlio del re preferisce alle due maggiori. Nella favola di Apuleio Psiche, la più giovane e la più bella di tre sorelle, è da un lato venerata come incarnazione d’Afrodite, dall’altro trattata da quest’ultima come Cenerentola dalla matrigna; anch’essa porta a termine il compito di assortire dei granellini sceverandoli da un mucchio in cui sono mescolati con altri, grazie all’aiuto di uno stuolo di animaletti (colombi nella favola di Cenerentola, formiche in quella di Psiche). Chi volesse esplorare ulteriormente questa materia, potrebbe certamente scoprire altre configurazioni nelle quali lo stesso motivo è conservato nelle sue linee essenziali.

Accontentiamoci qui di Cordelia, di Afrodite, di Cenerentola e di Psiche! Le tre donne, delle quali la più giovane è la più perfetta, devono essere considerate in qualche modo affini dal momento che sono presentate come tre sorelle. Non ci deve indurre in errore la circostanza che nel Re Lear le tre donne sono figlie dell’uomo che opera la scelta; probabilmente ciò significa soltanto che Lear doveva essere raffigurato come uomo d’età avanzata. Non sarebbe facile permettere che un vecchio scelga fra tre donne in altro modo; ecco perché esse diventano sue figlie.

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Ma chi sono queste tre sorelle, e perché la scelta deve cadere sulla terza? Se potessimo dare una risposta a questo interrogativo saremmo in possesso dell’interpretazione cercata. Ci siamo già valsi una volta dei criteri della tecnica psicoanalitica, allorché abbiamo spiegato che i tre scrigni rappresentavano simbolicamente tre donne. Armiamoci dunque del coraggio necessario e insistiamo in questo modo di procedere; forse troveremo una via che attraverso un cammino errabondo, a tutta prima imprevisto e incomprensibile, ci condurrà alla meta.

Ci sorprenderà forse che spesso la terza fanciulla, quella che eccelle sulle altre, possiede, oltre alla bellezza, altre particolari caratteristiche. Si tratta di qualità che sembrano confluire in una certa direzione, anche se non dobbiamo attenderci di ritrovarle con lo stesso rilievo in tutti gli esempi. Cordelia si rende irriconoscibile, senza lustro come il piombo; essa rimane muta, «ama e sta zitta» (cfr. Atto 1, Scena 1). Cenerentola si nasconde perché nessuno possa trovarla. Possiamo, forse, assimilare il nascondersi all’ammutolire. Questi sarebbero soltanto due casi dei cinque che abbiamo trascelto; tuttavia, un’allusione del genere si trova, ed è tale da sorprendere, in altri due casi.

Per il suo atteggiamento di ostinata ritrosia, ci siamo risolti a paragonare Cordelia al piombo. Ora appunto del piombo, nel breve discorso di Bassanio durante la scelta degli scrigni (Atto 3, Scena 2), si dice inopinatamente:

te, la cui pallidezza
mi commuove più d’ogni bel discorso,
te io scelgo

cioè: «La tua semplicità mi si confà meglio della chiassosa natura degli altri due». L’oro e l’argento sono «rumorosi» mentre il piombo è muto, proprio come Cordelia che «ama e sta zitta».

Negretti-giudizio-Paride

Nei racconti sul giudizio di Paride, quali ci sono stati tramandati dalla Grecia antica, non vi è traccia di una simile riservatezza da parte di Afrodite. Ciascuna delle tre dee parla al giovane e tenta di conquistarselo con promesse. Ma una versione modernissima della stessa scena mette in luce in maniera singolare quell’atteggiamento che ci ha molto colpito nella terza donna. Nel libretto de La belle Hélène, Paride, dopo aver parlato delle sollecitazioni delle altre due divinità, racconta come si era comportata Afrodite nella gara per il premio di bellezza (Atto 1, Scena 6):

La terza, la terza…
La terza non disse niente.
Ebbe il premio proprio lei…

Se ci decidiamo a riconoscere che le peculiarità della terza si concentrano nel suo «mutismo», la psicoanalisi ci può dare una spiegazione: il mutismo nel sogno è un modo consueto di raffigurare la morte. […]

Che il mutismo figuri nel sogno quale rappresentazione della morte non sembra si possa mettere in dubbio. Parimenti il nascondersi, il rendersi irreperibile, come Cenerentola fa Cenerentola-scaletre volte nei confronti del principe della favola, è nel sogno un inequivocabile simbolo di morte; e lo è anche l’accentuato pallore che richiama alla mente la «pallidezza» del piombo del testo di Shakespeare. Il trasferimento di questa interpretazione, dal linguaggio del sogno alla terminologia del nostro mito, sarà particolarmente facile se riusciamo a rendere verosimile il fatto che il mutismo anche in altre produzioni, diverse dai sogni, debba essere interpretato come segno di morte.

Scelgo a tal proposito la nona delle fiabe popolari raccolte dai fratelli Grimm, quella intitolata I dodici fratelli. Un re e una regina avevano dodici figli tutti maschi. Un giorno il re dichiara che se il tredicesimo figlio sarà una femmina, i maschi dovranno morire. Nell’attesa della nascita egli fa costruire dodici bare. I dodici figli, con l’aiuto della madre, si rifugiano in una foresta ben riparata, giurando di mandare a morte tutte le femmine che incontreranno. Viene alla luce una bimba. Costei, crescendo, apprende un bel giorno dalla madre di aver avuto dodici fratelli. Decide allora di rintracciarli e ritrova nella foresta il più giovane, il quale la riconosce ma, memore del giuramento dei fratelli, vorrebbe tenerla nascosta. Allora ella dice: «Morirò volentieri, se in tal modo posso liberare i miei dodici fratelli». Ma i fratelli l’accolgono calorosamente ed ella rimane con loro e provvede alle faccende domestiche. In un giardinetto accanto alla casa crescono dodici gigli; la giovinetta li recide e pensa di regalarli, uno per ciascuno, ai fratelli. In quello stesso momento i fratelli si trasformano in corvi e spariscono con casa e giardino. (I corvi sono uccelli-anime. L’eccidio dei dodici fratelli ad opera della sorella è qui raffigurato dall’atto in cui ella coglie i fiori, come all’inizio dalle bare e dalla scomparsa dei giovani). La fanciulla, che è sempre pronta a operare il riscatto dei fratelli dalla morte, apprende ora che lo potrà ottenere a una condizione, quella del suo mutismo per sette anni, durante i quali non dovrà pronunciare una sola parola. Essa si sottomette a questa prova che la espone a pericolo di morte; in altri termini, essa muore per i suoi fratelli come già aveva solennemente fiaba-sei-cignipromesso prima di incontrarli. Mercé l’osservanza del mutismo le riesce finalmente il riscatto dei corvi.

Similmente nel racconto dei Sei cigni i fratelli, trasformati in uccelli, sono riscattati dal mutismo della sorella e così restituiti alla vita. La giovinetta è fermamente decisa a salvare i fratelli «anche a costo della vita» e, quando diventa sposa del re, mette anch’essa a repentaglio la propria esistenza pur di non rinunciare al suo mutismo neppure di fronte a oltraggiose accuse.

Potremmo certamente addurre, sulla scorta di altre favole, ulteriori prove del fatto che il mutismo debba essere inteso come una raffigurazione simbolica della morte. Se dobbiamo attenerci a tali indizi, la terza delle nostre sorelle, tra le quali la scelta ha luogo, sarebbe una morta. Ma essa può anche essere qualcos’altro e cioè la Morte in persona, la Dea della Morte. Grazie a uno spostamento tutt’altro che raro, le qualità che una divinità dispensa agli uomini vengono attribuite a lei stessa. Tale spostamento non ci sorprenderà affatto nel caso della Dea della Morte, sol che consideriamo come nelle versioni e rappresentazioni moderne, che qui sarebbero state anticipate, la Morte stessa figuri sempre come un morto.

Ma se la terza è la Dea della Morte, possiamo dire di conoscere le tre sorelle. Esse sono i simboli del Destino, le Moire o Parche o Norne, la terza delle quali ha nome Atropo: l’Inesorabile. […]
L’inevitabile severità della legge, il rapporto con la morte e con la distruzione, si imprime profondamente nella raffigurazione delle Moire, quasi che l’uomo intenda tutta la serietà delle leggi naturali solo quando deve sottomettere ad esse la propria persona.
Ai nomi delle tre filatrici è stato assegnato un particolare significato anche dagli studiosi di mitologia. Lachesi, la seconda, sembra indicare «gli elementi accidentali che intervengono nel corso regolare del Destino» – noi diremmo: il fatto stesso del vivere –; mentre Atropo rappresenta l’Ineluttabile, la Morte; non resterebbe allora a Cloto che significare la fatalità delle disposizioni congenite.

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È ormai tempo di ritornare al significato del motivo che la scelta fra le tre sorelle sottende. Rileveremo subito con profondo disappunto quanto diventino inintelligibili le situazioni considerate allorché tentiamo di inserirvi la nostra interpretazione, e quali contraddizioni ne scaturiscano con riferimento al loro contenuto apparente. La terza sorella dovrebbe essere la Dea della Morte, cioè la Morte stessa, e invece, nel giudizio di Paride, essa è la Dea dell’Amore, nella favola di Apuleio una beltà paragonabile a quella dea, nel Mercante la più bella e la più accorta delle donne, nel Lear la sola figlia fedele. Potrebbe immaginarsi una contraddizione più flagrante? Forse sì: per quanto possa parere inverosimile, il paradosso maggiore è ancora un altro. Quello per cui nel nostro tema si ha ogni volta una libera scelta fra donne e la scelta va invece a finire sulla morte, che pur nessuno sceglie e di cui si diviene vittima per volontà del destino.

Fortunatamente certe contraddizioni di natura particolare, certe sostituzioni di un contenuto con un altro diametralmente opposto, non presentano alcuna seria difficoltà all’indagine psicoanalitica. Non invocheremo qui il fatto che gli opposti, nel linguaggio dell’inconscio, nel sogno ad esempio, trovano assai frequentemente espressione in un identico e solo elemento. Rammenteremo invece che nella vita psichica esistono motivi capaci di determinare la conversione nell’opposto mediante la cosiddetta formazione Vandervenne-danza-mortereattiva, e che proprio nella scoperta di questi motivi tenuti celati identifichiamo la più pregevole acquisizione del nostro lavoro. La creazione delle Moire è il prodotto di una intuizione che rende l’uomo consapevole di essere anch’egli parte della natura, e come tale soggetto alla legge inesorabile della morte.

Contro l’assoggettamento a questa legge qualcosa nell’uomo doveva ribellarsi, poiché soltanto con grande rammarico egli rinuncia alla sua posizione di privilegio. Sappiamo già come l’uomo impieghi l’attività della sua fantasia per soddisfare quei desideri che non trovano appagamento nella realtà. Così la sua fantasia si ribellò all’intuizione calatasi nel mito delle Moire e creò l’altro mito – che deriva dal primo – nel quale la Dea della Morte fu sostituita dalla Dea dell’Amore e dalle raffigurazioni umane che ad essa possono essere equiparate. La terza delle sorelle non soltanto non è più la Morte, ma è addirittura la più bella tra le donne, la più buona, la più desiderabile, la più degna d’essere amata. Questa sostituzione non era tecnicamente affatto difficile: era predisposta da un’antica ambivalenza, e si realizzò attraverso antichissime connessioni che non potevano esser state dimenticate da troppo tempo. La stessa Dea dell’Amore, che adesso prendeva il posto della Dea della Morte, in origine si era già identificata con lei. Persino la greca Afrodite non si era completamente disgiunta dai suoi rapporti con l’Averno, benché da lungo tempo avesse ceduto il suo ruolo ctonio ad altre figure divine, quali Persefone e Artemide-Ecate triforme. Le grandi divinità-madri dei popoli orientali sembra fossero generatrici e annientatrici insieme, dee della vita e della fecondità nello stesso tempo che dee della morte. Detto questo, la sostituzione nel nostro tema dell’oggetto del desiderio col suo opposto si rifà a una identità che ha origini remotissime.

Queste considerazioni soddisfano anche alla domanda circa l’origine di quel particolare elemento che nel mito delle tre sorelle è dato dalla scelta. Si tratta anche qui di un surreal-palloncinidesiderio che si esprime mediante un’inversione. La libertà della scelta sta al posto della necessità, dell’inesorabilità del destino. In tal modo l’uomo vince la morte che ha dovuto riconoscere con l’intelletto. Non si può immaginare trionfo maggiore dell’appagamento di desiderio. Là dove nella realtà si è costretti a ubbidire per forza, qui si sceglie; e colei che viene scelta non è la terribile ma la più bella, la più desiderabile delle creature.
Esaminandole più da vicino, rileviamo come le deformazioni del mito primitivo non siano poi tanto profonde da non tradirsi per qualche segno superstite. La scelta fra le tre sorelle non è in realtà una libera scelta poiché, se non si vuole che da essa scaturiscano come nel Lear ogni sorta di sventure, occorre per forza farla cadere sulla terza donna. Altro segno è che la più bella e la più buona, presentatasi al posto della Dea della Morte, ha conservato nei lineamenti un’allusione a qualcosa di inquietante, al punto che da essi siamo potuti risalire agli elementi tenuti celati. (Anche la Psiche di Apuleio ha conservato copiosi tratti che ne ricordano la relazione con la morte. Il suo matrimonio è allestito come cerimonia funebre; ella deve poi discendere nell’Averno e quindi cade in un sonno mortale).

Abbiamo fin qui seguito il mito e la sua trasformazione e speriamo di avere indicato le oscure ragioni di tale trasformazione. Possiamo ora bene interessarci dell’impiego che ne ha fatto il poeta. La nostra impressione è che il poeta abbia compiuto la riduzione del motivo al mito primitivo, che in tal modo è da noi nuovamente avvertito nel suo toccante significato che era stato smorzato dalla deformazione. Grazie a questa attenuazione della deformazione, cioè al parziale ritorno all’elemento primitivo, il poeta riesce a suscitare in noi un effetto più profondo.

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A scanso di equivoci, tengo a dichiarare che non mi propongo affatto di negare che la vicenda di re Lear esprima il duplice saggio precetto secondo cui da un lato non bisogna rinunciare in vita ai propri beni e ai propri diritti, e dall’altro ci si deve guardare dal prendere le lusinghe per moneta sonante. Questi e altri ammonimenti si traggono in effetti dal dramma; ma mi pare che non si possa assolutamente spiegare l’effetto straordinario suscitato dal Re Lear in base al suo contenuto concettuale, o supporre che i motivi personali del poeta si siano esauriti nel proposito di illustrare quei precetti. Neppure la spiegazione secondo la quale il poeta si sarebbe proposto di rappresentarci la tragedia dell’ingratitudine (della quale egli stesso aveva provato il morso in prima persona), per cui l’effetto del dramma riposerebbe sul puro momento formale della trasfigurazione artistica, mi sembra possa equivalere al chiarimento al quale siamo giunti sviscerando il motivo della scelta fra le tre sorelle.

Lear è un vecchio. Per questo, come già dicemmo, le tre sorelle sono presentate come sue figlie. Il rapporto paterno, dal quale si sarebbero potuti trarre copiosi e fecondi spunti drammatici, non viene nel corso del dramma ulteriormente sfruttato. Lear non è però soltanto un vecchio, egli è anche un uomo che sta per morire. La tanto strana premessa della divisione ereditaria perde, quindi, il suo carattere bizzarro. Tuttavia quest’uomo Cordelia-morta-Learvotato alla morte non vuole ancora rinunciare all’amore della donna, vuole sentirsi dire fino a qual punto è amato. Si pensi ora alla straziante scena finale, ove il senso tragico raggiunge uno dei culmini della letteratura drammatica moderna: la scena di Lear che porta sul palcoscenico il corpo esanime di Cordelia. Cordelia è la Morte. Se si capovolge la situazione, la cosa ci appare comprensibile e familiare. È la Dea della Morte la quale porta via dal campo di battaglia l’eroe caduto, come la Valchiria nella mitologia germanica. La saggezza eterna, rivestita dei panni di un mito antichissimo, consiglia al vecchio di dire no all’amore, di scegliere la morte, di familiarizzarsi con la necessità del morire.

Il poeta ci avvicina all’antico motivo allorché assegna a un uomo ormai vecchio e prossimo alla morte il compito della scelta fra le tre sorelle. L’elaborazione regressiva, che egli ha così compiuto sul mito – deformato dal capovolgimento dei desideri umani – ne lascia trasparire il significato primitivo a tal segno da consentirci, forse, anche una piatta interpretazione allegorica delle tre figure femminili del tema. Si potrebbe affermare che ciò che è qui raffigurato sono le tre relazioni inevitabili dell’uomo nei confronti della donna: verso colei che lo genera, verso colei che gli è compagna, e verso colei che lo annienta; o anche le tre forme nelle quali variamente si atteggia per l’uomo, nel corso della vita, l’immagine materna: la madre vera, la donna amata che egli sceglie secondo l’immagine della madre e, infine, la madre-terra che lo riprende nel suo seno. Ma quando un uomo è ormai vecchio, il suo anelito all’amore di una donna, a quell’amore che a suo tempo aveva ottenuto dalla madre, è vano. Solo la terza delle creature fatali, la silenziosa Dea della Morte, lo accoglierà tra le sue braccia.

(Freud, Il motivo della scelta degli scrigni)