In natura [oltre ai movimenti indotti dalla memoria istintiva] esistono altri due tipi di «movimenti dell’anima» o impulsi istintivi, di cui dovete conoscere la classificazione e le caratteristiche, se volete sperar di capire anche una piccola parte del comportamento delle termiti.
Ci sono anzitutto i «movimenti di gruppo»: negli individui di una data comunità ci sono dei movimenti determinati da qualche scopo utile alla comunità. Definiamo questo fenomeno «psiche o anima di gruppo». Troverete questo fenomeno nelle termiti, nelle formiche, nei babbuini, nelle scimmie antropomorfe e in tutti gli animali che vivono in gruppi, cioè gli animali gregari. E, infine, c’è la psiche della memoria individuale: cioè la psiche del primate, uomo e scimmie antropomorfe, dei babbuini e delle altre scimmie.
Se vi capita di vivere tra i babbuini, vi accorgerete ben presto che è molto più accentuata la differenza tra la psiche del meno evoluto dei babbuini e quella dei mammiferi superiori (per esempio il cane o la lontra), di quanto lo sia la differenza tra la psiche del babbuino e quella dell’uomo.
In che cosa consiste esattamente questa differenza? Noi sappiamo che una differenza c’è, ma dire in parole che cosa sia, risulta piuttosto difficile, all’inizio. Mi ci è voluto molto lavoro e molta pazienza, per riuscire a mettere sulla carta qual è esattamente questa differenza.
Se domandate agli scienziati quale sia la differenza psicologica tra un babbuino e una lontra, nove di loro su dieci vi diranno che il babbuino possiede un’intelligenza e una capacità di ragionare che alla lontra fanno difetto. Altrettanto chiaro sarebbe se ci dicessero che il babbuino è un babbuino e la lontra è una lontra. Nessuna di queste due risposte vi porterà molto lontano. Un altro scienziato dirà forse che un babbuino può imparare nuove abitudini più facilmente di una lontra. Questa risposta è più illuminante, ma non ci aiuta un granché.
Consideriamo ora attentamente la memoria della specie e vediamo quali sono, nella natura, i suoi effetti. Prendiamo un uccello del retroterra, in grado di volare, che sia sotto ogni aspetto molto simile agli altri uccelli terrestri.
Il nostro uccello, a poco a poco, comincia a trovare del cibo sulla spiaggia. Dopo milioni di anni impara a pigliare i pesci in acque piuttosto profonde. Non appena questa diventa un’abitudine fissa, comincia a operare la selezione naturale. Più profondamente l’uccello entra nell’acqua, più probabilità avrà di sopravvivere, nella misura in cui è preparato fisicamente e psicologicamente per questa nuova vita.
Si va avanti così per un altro milione di anni. L’uccello perde le ali, che ora fungono da remi; perde le penne, che diventano piumini; le sue zampe diventano adatte al nuoto, e alla fine abbiamo il pinguino. Tra parentesi, vi sarete accorti che io sostengo le teorie di Darwin: le teorie di De Vries non mi hanno mai convinto molto.
Se osserviamo il pinguino o la lontra, perché ciò che ho detto si applica a entrambi, noteremo molti fatti importanti.
Quando per caso avviene un cambiamento improvviso nel loro ambiente, essi sono completamente perduti. Permettetemi di ricordarvi l’esempio di una lontra alla quale capitò una cosa simile.
Una volta che nel Waterberg, per effetto di una siccità durata quattro anni, tutti i corsi d’acqua erano diventati stagnanti, si potevano trovare delle lontre in tutto il veld intorno ai grandi fiumi. Le pozze d’acqua che erano rimaste non contenevano né pesci né granchi.
Ora, la lontra è una creatura agile e le si può insegnare a cacciare uccelli e altri piccoli animali terrestri, come fanno i gatti, ma non può impararlo da sola. Così, centinaia di lontre selvatiche morirono in mezzo all’abbondanza.
In quel periodo io riuscii a prendere una coppia di lontre appena nate e ne mandai una a Springbokvlakte, che dista circa cinquanta chilometri dal più vicino corso d’acqua. Non aveva mai visto un fiume, appunto perché era stata tolta dal nido appena nata.
Una cagna la allevò assieme ai propri cuccioli cosicché la lontra non vide mai, e non le fu mai dato, altro cibo che carne cruda, uccelli e animaletti terrestri, e di acqua vide solo quella che le veniva data in un piatto per dissetarla.
In quello stesso periodo presi un babbuino appena nato; dalla montagna lo portai in pianura e lo allevai con il biberon. In seguito gli feci mangiare dei cibi che non costituivano la sua dieta naturale; esso non ebbe mai occasione di cacciare o di mangiare insetti vivi.
Quando i due animali raggiunsero i tre anni di età, vennero portati, per la prima volta, ciascuno nel suo ambiente naturale, la lontra al fiume Sterk, da dove proveniva, e il babbuino sui monti Dubbele, dove sua madre era stata uccisa da una fucilata. Prima, tuttavia, furono lasciati senza cibo per un certo tempo.
Mi fu offerta così una stupenda opportunità di osservare l’enorme differenza di comportamento tra queste due creature. La lontra esitò solo qualche istante, quindi si tuffò nell’acqua; dopo mezz’ora aveva preso un granchio e una grossa carpa, e li aveva divorati sulle rocce.
Il babbuino, al contrario, era completamente disorientato. Pur trovandosi in mezzo a una grande abbondanza di cibo naturale, nonostante la fame che aveva, non sapeva, evidentemente, che bastava rivoltare le pietre per prendere gli insetti che vi erano nascosti sotto. Se l’avessi lasciato solo, sarebbe senz’altro morto di fame.
Quando sollevai un sasso, il babbuino indietreggiò, dando segni di paura e di orrore, alla vista degli insetti che si contorcevano. Riuscii a convincerlo, con grande difficoltà, ad assaggiare uno scorpione morto, al quale avevo tolto il pungiglione e la ghiandola del veleno; alla fine lo indussi a prenderne uno vivo, con il risultato che fu punto subito a un dito. Decise di mangiare, fra tante altre cose, un frutto selvatico estremamente velenoso, e senza il nostro intervento sarebbe morto.
Ai babbuini selvatici non accadono mai incidenti del genere, perché hanno imparato a evitarli. Con il tempo, anche il nostro babbuino riuscì a capire tutte queste cose, ma dovette impararle attraverso penose esperienze.
Vediamo, quindi, che la natura, nel babbuino, ha fatto due cose: anzitutto, gli ha dato una psiche capace di acquistare memorie causali individuali, e in secondo luogo che ha abolito la sua memoria di specie ereditata. Il babbuino è, nel mondo animale, il punto di transizione. È tanto evoluto che nel cinquanta per cento circa dei casi gli manca l’orientamento ereditario dell’istinto sessuale, che di tutti gli istinti ereditari è il più forte.
Nell’uomo non troviamo mai segni di orientamento ereditario dell’istinto sessuale. Può risvegliarsi in lui il desiderio sessuale, ma l’orientamento deve essere imparato, da entrambi i sessi.
Com’è avvenuto questo straordinario cambiamento del comportamento naturale? Anzitutto, da un tale cambiamento deve provenire qualche vantaggio per la specie. Vi renderete conto che la memoria ereditata ha in genere come risultato quello di legare tirannicamente una specie a un dato ambiente. Il pinguino al mare, l’oreotrago alle montagne, l’antilope alle pianure.
Più perfetta è la memoria di specie, più strettamente un organismo sarà imprigionato nel proprio ambiente. Questo è l’unico risultato della selezione naturale.
L’affermazione o credenza che nella natura la selezione e lo sviluppo tendono a raggiungere uno stato ideale di perfezione è falsa e puerile. In tutti gli animali altamente specializzati, scopriamo sempre un calo di perfezione fisica. Si ha sempre un baratto, e il risultato non è mai perfetto. Quando le ali del pinguino si trasformarono in remi, il pinguino non diventò più perfetto; per la giraffa, avere il collo lungo è uno svantaggio in caso di fuga, e crea chiaramente una disarmonia.
La natura non è un’istituzione di carità: essa è sempre ostile alla vita; se così non fosse, non ci sarebbe selezione naturale. Inoltre è evidente che per una specie il fatto di essere legata troppo strettamente a un determinato ambiente rappresenta un grande svantaggio. Se l’ambiente subisce un cambiamento improvviso, quella specie è perduta. Non può cambiare, per adattarsi a un ambiente diverso, e i singoli membri non possono acquistare nuove memorie, che darebbero loro la possibilità di far fronte ai cambiamenti che avvengono nel loro ambiente.
In Africa succede spesso che intere specie di animali vengano sterminate da questi cambiamenti della natura, come per esempio la siccità, le cavallette, o l’arrivo di altri nemici sconosciuti. Per dare a una specie il grande vantaggio di poter cambiare ambiente all’improvviso, la selezione naturale deve produrre un cambiamento nella psiche stessa. Un solo cambiamento somatico, sia pure ripetuto, non è sufficiente. Deve esserci anche un cambiamento psicologico.
Per prima cosa è necessario cancellare la memoria ereditata o di specie, altrimenti la specie non può sopportare alcun cambiamento nell’ambiente. Non solo deve essere distrutta la memoria di specie, ma deve anche scomparire dalla psiche la possibilità che questa memoria venga trasmessa ereditariamente; altrimenti il cambiamento sarebbe inutile. Invece della memoria di specie, si deve sviluppare una psiche che renda ogni singolo individuo capace di acquistare la propria memoria causale del nuovo ambiente. Chi conosce bene i babbuini non potrà negare i vantaggi che essi hanno tratto da questo cambiamento.
La conseguenza immediata del cambiamento in questione è stata quella di fare del babbuino un cittadino del mondo. Esso può adattarsi a qualsiasi ambiente: e per questa ragione troviamo i nostri babbuini sudafricani nei luoghi più diversi. Li troviamo nelle fertili montagne presso Città del Capo, nelle grandi foreste, nelle vallate dell’interno, e nei deserti senz’acqua del Kalahari.
In ognuno di questi ambienti ha acquistato abitudini nuove. In molte regioni del Sudafrica ha imparato a rubare agnellini di latte e a squartarli per bere il latte che hanno dentro la pancia. Nel Transvaal del Nord, invece, non ha ancora imparato questa abitudine. In una località del Waterberg ha imparato a spaccare con un sasso i frutti duri, posandoli sopra una roccia; e, con ciò, esso usa uno strumento per la prima volta. Nella natura queste cose non succedono mai; si vedono soltanto tra i babbuini e tra le scimmie antropomorfe.
Da tutta questa indagine ricaviamo due fatti, chiari come la luce del giorno.
Anzitutto, che c’è un grande abisso psicologico tra la psiche del babbuino e la psiche dei mammiferi superiori immediatamente al di sotto dei primati; e in secondo luogo, che la psiche dell’uomo e la psiche del babbuino sono identiche per qualità. La differenza è solo nella quantità.
Nel caso del babbuino, è come se guardassimo un fiume vicino alla sua sorgente sulla montagna. Nel caso dell’uomo, è come se vedessimo lo stesso fiume appena prima di scomparire nell’Oceano.
L’uomo è quello che ha fatto più strada in questa direzione; ed è per questo che ha conquistato i deserti più vasti e più aridi, il Gobi e il Sahara, le montagne più alte, le vallate più profonde, i tropici, i Poli ghiacciati, e nonostante ciò è sopravvissuto.
Ma la natura chiede uno scotto per tutto quello che ci dà. Come abbiamo indicato, c’è sempre un baratto. Il babbuino e l’uomo hanno pagato un prezzo esorbitante per il loro nuovo tipo di psiche, un prezzo forse destinato a provocare, in modo lento ma sicuro, il loro sterminio naturale.
Ancora qualche parola sulla psiche della memoria causale individuale.
L’antica psiche animale della memoria di specie, non viene in realtà distrutta, ma rimane paralizzata da una specie di inibizione permanente. Tuttavia sussiste, e può essere artificialmente stimolata e rimessa in funzione.
Credo che questa sia la più grande scoperta che ho fatto nel corso di uno studio, durato circa tre anni, sul babbuino selvatico. Secondo me, non c’è alcun dubbio che la cosiddetta psiche subconscia dell’uomo non è una meravigliosa creazione della selezione naturale, che conduce all’ideale perfezione: in realtà si tratta soltanto della vecchia psiche animale, in stato di inibizione; e che riesce, in circostanze anormali, a liberarsi, provocando seri disordini psicologici.
(Marais, L’anima della formica bianca)
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Marais parla di impulsi «istintivi», Nietzsche di impulsi «artistici», e l’uno e l’altro ci tengono a precisare: si tratta di impulsi presenti in natura, di impulsi «scritti» dalla stessa natura. Arcaiche scritture incise, ormai, «nella carne» del nostro essere. Memorie di specie, dice l’etologo. Sintesi passive, le chiama il filosofo. Più indietro, al di là del loro orizzonte, il nostro sguardo non vede che nebbie. E così si rassegna a pensare come «iniziali» quelli che non sono che i «debiti» contratti al termine di plurimillenarie ripetizioni.
Non è dunque per caso se tra il babbuino e la lontra, o più in generale tra la tale o talaltra specie, a fare la differenza è l’abitudine, e non il supposto tasso della loro «intelligenza» naturale (sic).
È la ripetizione che deposita un comportamento «istintivo». E perciò, se quella di Nietzsche non è solo una frase a effetto, dev’essere una vecchia abitudine propria della nostra specie quella che da noi pretende che ci comportiamo da «artisti». Un’abitudine che, come tutte le altre, è «legata» all’ambiente in cui è praticata e che da esso a tal punto dipende – qui l’etologo ci dà una mano – che, mutando l’ambiente, l’abitudine deve scadere (ma com’è difficile togliersi i «vizi»!) oppure ne va della stessa sopravvivenza dell’«abitudinario».
Lo strato più profondo di queste «ripetizioni» è quello che l’etologo chiama della «memoria istintiva» o di specie – che riguarda tutti gli animali: ogni specie ha contratto una sua propria «abitudine», e anche, ovviamente, il linguaggio di questa sua «specialità».
Su questo strato si sono poi soprascritte altre, nuove «ripetizioni», memorie di «greggi» locali, e ovviamente i loro rispettivi «dialetti».
A differenza dell’altra, questa seconda memoria è all’opera solo negli animali «gregari», solo in quelli che vivono in branco, sciame o comunità. Per quel che ci riguarda, questa è la nostra memoria «politica». Per intenderci, è il nostro alfabeto «mitologico».
Una volta appreso il quale, è sui miti di gruppo, sulle abitudini linguistiche, sulle favole e sui proverbi di una comunità che noi, primi fra tutti i primati, veniamo infine a scrivere la terza e ultima memoria, quella «individuale».
Non è un dettaglio da poco: la nostra «storia» personale, ciascuno di noi l’improvvisa e la scrive sul foglio delle ripetizioni della sua propria πόλις, la fonda cioè su una «credenza» di gruppo, la soprascrive alla lingua di un gruppo che crede in una certa «apparenza», alla quale deve, o crede di dovere, la sua sopravvivenza.
Come a dire: Apollo non scrive il principium individuationis su una tabula rasa. Apollo non ci guida all’io, Apollo non ci inizia a una memoria e a una storia individuale, se non sovrascrivendola a una «credenza» di tutta una πόλις, e per nessun altro scopo che quello di «depotenziarla», ovvero: solo per liberarci dal miraggio di gruppo attraverso il nostro singolare miraggio – liberarci dall’apparenza attraverso l’apparenza, dice Nietzsche: liberarci dalla memoria «politica» per liberare l’Essere dall’essere questo o quello. Liberarlo da tutti i suoi attributi – per metterne a nudo il fondo, e «leggere» il Conflitto che laggiù è inscritto nella «memoria di specie».
Laggiù, all’orizzonte del nostro sguardo, tra le nebbie a stento distinguiamo i resti di arcaici graffiti. Li sappiamo a memoria, ma per riconoscerli dobbiamo lasciarci incantare da Apollo, perché ci disincanti dal miraggio «collettivo». Perché, mitizzando noi stessi, Apollo ci guidi fino alla dissolvenza del Mito e della «memoria politica» – fino a farci scoprire che ogni «io» con la sua storia e la sua memoria individuale non è che un grumo di «apparenza nell’Apparenza» o, per dirla con Lacan, nient’altro che una a minuscola che orbita intorno al grande A, l’Altro, dalla cui Parola dipende… come ogni animale dal suo «ambiente».