Intorno a questo artista ingenuo qualche informazione ci è data dall’analogia del sogno. Se ci raffiguriamo colui che sogna come chi, in mezzo all’illusione del mondo onirico e senza turbarla, dice a sé: «È un sogno, voglio continuare a sognarlo», se dobbiamo quindi dedurre un profondo, intimo piacere nella visione del sogno, se d’altra parte, per poter comunque sognare con questo intimo piacere della visione, dobbiamo aver completamente dimenticato il giorno e la sua terribile invadenza, allora possiamo, sotto la guida di Apollo interprete dei sogni, comprendere tutti questi fenomeni nel seguente modo.
Sebbene delle due metà della vita, quella della veglia e quella del sogno, la prima ci appaia senza paragone come la preferibile, la più importante e degna, quella maggiormente meritevole di essere vissuta, anzi la sola vissuta, io vorrei però, nonostante qualsiasi sospetto di paradosso, sostenere proprio l’opposta valutazione del sogno, in rapporto a quel misterioso fondo della nostra essenza, del quale noi siamo l’apparenza.
Quanto più scorgo infatti nella natura quegli onnipotenti impulsi artistici e in essi un ardente anelito verso l’apparenza, verso la redenzione attraverso l’apparenza, tanto più mi sento spinto alla metafisica congettura che ciò che veramente è, l’uno originario, in quanto eterno sofferente e pieno di contraddizioni, ha contemporaneamente bisogno per la sua continua redenzione della visione estatica, della gioiosa apparenza: apparenza che noi, completamente presi in essa e da essa costituiti, siamo costretti a sentire come ciò che veramente non è, ossia come il continuo divenire nel tempo, nello spazio e nella causalità, in altre parole come realtà empirica.
Se dunque prescindiamo per un attimo dalla nostra propria «realtà», se afferriamo la nostra esistenza empirica e quella del mondo in generale come una rappresentazione prodotta ad ogni istante dell’uno originario, allora il sogno dovrà essere da noi considerato come l’apparenza dell’apparenza, quindi come un ancor più alto appagamento dell’originario desiderio d’apparenza.
Per questa stessa ragione l’intimo nucleo della natura trae quell’indescrivibile piacere dall’artista ingenuo e dall’opera d’arte ingenua, che parimenti è solo «apparenza dell’apparenza».
Raffaello, proprio uno di quegli immortali «ingenui», ci ha rappresentato in un dipinto allegorico quel depotenziarsi dell’apparenza nell’apparenza, il processo originario dell’artista ingenuo e insieme della cultura apollinea.
Nella sua Trasfigurazione la metà inferiore con il ragazzo ossesso, con gli uomini disperati che lo sostengono, con gli smarriti e angosciati discepoli, ci mostra il rispecchiarsi dell’eterno dolore originario, dell’unico fondamento del mondo: qui «l’apparenza» è il riflesso dell’eterno contrasto, del padre delle cose. Da questa apparenza si leva poi, come un’esalazione d’ambrosia, un nuovo mondo dell’apparenza, simile a una visione, di cui quelli avvolti nella prima apparenza non vedono niente – un luminoso librarsi in purissima delizia e in una contemplazione priva di dolore, raggiante da occhi lontani.
Qui abbiamo davanti agli occhi, nel supremo simbolismo artistico, la terribile saggezza di Sileno, e comprendiamo, attraverso l’intuizione, la loro reciproca necessità.
Ma Apollo ci viene di nuovo incontro come la divinizzazione del principium individuationis, nel quale soltanto si compie il fine eternamente raggiunto dell’uno originario, la sua liberazione attraverso l’apparenza: con gesti sublimi egli ci mostra come tutto il mondo dell’affanno sia necessario perché l’individuo possa da esso venir spinto alla creazione della visione liberatrice e poi, sprofondato nella contemplazione di essa, possa tranquillamente sedere nella sua oscillante barca in mezzo al mare.
Questo divinizzare l’individuazione, quando viene pensato come generalmente imperativo e prescrittivo, conosce solo una legge, l’individuo, cioè l’osservanza dei suoi limiti, la misura nel senso ellenico.
Apollo, come divinità etica, esige dai suoi la misura e, per poterla osservare, la conoscenza di sé. E così accanto alla necessità estetica della bellezza si pone l’esigenza del «conosci te stesso» e del «non troppo», mentre la presunzione e l’eccesso furono considerati i veri demoni ostili della sfera non apollinea, e quindi come qualità dell’epoca preapollinea, dell’età titanica, e del mondo extraapollineo, ossia del mondo barbarico.
A causa del suo amore titanico per gli uomini, Prometeo dovette essere lacerato dagli avvoltoi; per la sua straordinaria saggezza, che sciolse l’enigma della Sfinge, Edipo dovette precipitare in un vortice sconvolgente di misfatti: così il dio delfico interpretava il passato greco.
«Titanico» e «barbarico» appariva al Greco apollineo anche l’effetto prodotto dal dionisiaco, senza comunque che potesse misconoscere di essere egli stesso intimamente affine a quei Titani ed a quegli eroi precipitati. Anzi, egli doveva sentire qualcosa di più: tutta la sua esistenza, con ogni bellezza e moderazione, si basava su un fondamento nascosto di dolore e di conoscenza che gli veniva di nuovo svelato dal dionisiaco.
E vedi! Apollo non poteva vivere senza Dioniso! Il «titanico» e il «barbarico» erano infine una necessità come l’apollineo!
E ora immaginiamo come in questo mondo costruito sull’apparenza e la moderazione ed arginato ad arte, il suono estatico delle feste di Dioniso risuonasse con melodie incantate e sempre più allettanti, come in queste tutto l’eccesso della natura si articolasse in gioia, dolore e conoscenza, fino al grido lacerante: immaginiamo che cosa potesse significare, di fronte a questo demonico canto popolare, il salmodiante artista di Apollo con il suono spettrale della sua arpa!
Le muse dell’arte dell’«apparenza» impallidirono dinanzi ad un’arte che nella sua ebbrezza diceva la verità, la saggezza di Sileno gridò la sua pena ai sereni dèi olimpici. L’eccesso si svelò come verità, la contraddizione, l’estasi nata dal dolore, parlò di sé dal cuore della natura. E così, ovunque il dionisiaco penetrò, l’apollineo fu catturato e annientato.
Ma è altrettanto certo che là dove il primo assalto venne sostenuto, l’autorità e la maestà del dio delfico si mostrarono più rigidamente e minacciosamente che mai. Posso infatti spiegarmi lo Stato dorico e l’arte dorica solo come un campo di continua battaglia dell’apollineo: soltanto in una ininterrotta opposizione alla natura titanico-barbarica del dionisiaco potevano durare a lungo un’arte così fieramente sdegnosa, circondata da bastioni, una educazione così guerresca e aspra, uno Stato così crudele e privo di scrupoli.
Fino a questo punto è stato svolto ciò che notavo all’inizio di questa trattazione: come cioè il dionisiaco e l’apollineo, in sempre nuove e successive creazioni, rafforzandosi a vicenda, hanno dominato la natura ellenica: come dall’età «del bronzo» con le sue titanomachie e la sua aspra filosofia popolare, si sviluppò sotto il dominio dell’apollineo impulso alla bellezza, il mondo omerico; come questa «ingenua» magnificenza venne nuovamente inghiottita dal fiume irrompente del dionisiaco, e come di fronte a questa nuova potenza l’apollineo si elevò alla inflessibile maestà dell’arte dorica e della visione dorica del mondo.
Se in questo modo l’antica storia greca si divide, nella lotta di quei princìpi contrapposti in quattro grandi periodi artistici, allora noi siamo spinti a interrogarci ulteriormente circa il disegno supremo di questo divenire ed operare, nel caso in cui l’ultimo periodo raggiunto, quello dell’arte dorica, non possa essere da noi considerato come il vertice e il fine di quegli impulsi artistici: e qui si offre ai nostri sguardi la sublime e esaltata opera d’arte della tragedia attica e del ditirambo drammatico, come la meta comune di entrambi gli impulsi, il cui misterioso connubio si è glorificato, dopo una lunga lotta precedente, in una tale creatura – che è insieme Antigone e Cassandra.
(Nietzsche, La nascita della tragedia: 4)
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… eterno sofferente e pieno di contraddizioni – è così che Nietzsche «sente» l’Essere, l’«uno originario», quello non ancora diventato «doppio», non ancora scisso tra sonno e veglia, non ancora a tempo con l’alternanza del giorno e della notte… eterno sofferente e pieno di contraddizioni, «agitato» nelle sue stesse oniriche acque, «oppresso» e smanioso di «redenzione», di apertura e di esibizione al mondo, smanioso di uscire alla luce, di prostituirsi all’Apparente, di pretendere riscatto da ciò che lo vincola e lo incuba.
Non l’Uno quieto, pacifico, che se ne «sta» beato in un paradisiaco regno dei cieli – immobile, catatonico, imperturbabile deus otiosus – ma l’Inquieto, problematico, movimentato Sconosciuto che s’interroga e si esplora dal fondo del nostro essere, fin da quando «nostro» non lo era ancora, da quando era Lui, solo Lui tutto, «essere» senza essere ancora né questo né quello.
Ma il grande dio Pan, Lui tutto, ahinoi è morto!
Morto all’oblio e all’incoscienza, morto all’onirica divina indifferenza del suo sguardo sul mondo – e da morto incamminatosi a nuova vita, e sulle rovine del vecchio trasmodato a nuovo linguaggio, da morto capace di sorridere all’Apparente, di alienarsi in un’identità auto-ingannevole, di specchiarsi nella propria sonnambolica insistenza: «È un sogno, e voglio ancora sognarlo. Sono morto al sogno – ripete tra sé e sé il divino Pan – e voglio a ogni costo sopravvivergli».
È la sua stessa «natura» che lo pretende. Pretende di sottrarsi alle sue morti, di «redimerle» dalle catene della Necessità, di giocare a dare loro un futuro. E a dettare le regole di questo gioco di morte e risurrezione, sono gli «impulsi» che la stessa natura porta inscritti nel suo essere: impulsi a sradicare l’Uno dal suo ferreo «barbarismo» e a scatenare tutte le forze simboliche che in lui sono già all’opera, e lo agitano, e lo cogitano – per spingerlo in una avventura «artistica».
È ascoltando il richiamo di queste «voci» simboliche, notturne, invisibili – che si certifica, non solo, la «morte» di Pan all’oblio e all’immediatezza, ma anche la sua «artistica» risurrezione in un altro mondo, in un altro modo di esistere, in un altro linguaggio, in cui le «ultime volontà» del defunto possano confondersi con le prime sillabe balbettate dal «risorto», tanto più «artistiche» quanto più capaci di rima baciata – labbra a labbra «tra i due» idiomi.
L’insorgenza delle forze simboliche, la si può dunque «datare» al tempo del cosiddetto «contatto»… tra il vivo e il morto, tra il vecchio e il nuovo, tra due «apparenze», perché – come qui nota Nietzsche – oltre all’«apparenza» c’è anche «l’apparenza nell’apparenza». Il simbolo dissolve l’una nell’altra, il simbolo gode ad anagrammarle, e porta con sé il piacere di questa dissolvenza – perché con essa risolve la cieca «ossessione» del basso mondo nella gioiosa visione «al di là del dolore» che si apre nell’alto dei cieli della Trasfigurazione di Raffaello. Il simbolo «congiunge» i due piani – il giorno e la notte dello sguardo, – i due tempi, il vivo e il morto – in una «reciproca» necessità. Il simbolo scopre – e questa è tutta la chiave della sua Arte – la «reciprocità» della morte per la nuova vita, del dolore per il nuovo piacere, come «necessità estetica» dell’Essere.
Perciò, l’apollineo ha bisogno del dionisiaco per nutrire il suo «bello», e l’estasi ha bisogno del tormento delle forze più oscure per spingersi in un anelito alla sua piena «liberazione». L’apollineo ha bisogno di «misurarsi» col dionisiaco. Il «bello» col «brutto», l’assonanza con le dissonanze a cui si è miracolosamente «sottratta». Apollo, insomma, deve contraddire Dioniso, fargli la guerra e insieme provare a «contenerlo» nella metrica della sua arpa – perché solo così Apollo «risponde», solo così ha una «sofferenza» a cui e di cui rispondere, una «eterna sofferenza» a cui dare il tempo delle sue scale musicali.
Apollo contro Dioniso – due «divine» forze che agitano e cogitano il fondo del nostro essere. Apollo e Dioniso, i nomi «greci» di queste due Potenze che si spartiscono quel che resta dell’Uno originario, dopo la «scissione». I nomi di due Antagonisti che «si contattano» sulla scena del mondo – così come i Greci, secondo Nietzsche, se lo rappresentavano. La tensione artistica alla Luce del Giorno, a mettersi al servizio dell’Apparente, e a elevare a «principio» il piacere di risolvere la «crudele nullità» della propria esistenza nella gioia di «apparire bello» – e di contro l’ostinato rifiuto di ogni «abbellimento», di ogni «armonia», di ogni «concordia», di ogni «patto» a cui artificiosamente sacrificare il «reale».
Apollo contro Dioniso – i due «fanciulli divini» non hanno mai cessato di farsi i dispetti. Alternandosi alla guida dello spirito greco, hanno però finito solo per «rafforzarsi a vicenda»: Apollo, dal canto suo, ha appreso a elevare l’«apparenza ingenua» dell’età omerica al grado dell’«inflessibile maestà» dell’arte dorica, divenuta impermeabile a ogni intrusione dionisiaca accogliendone la hybris, l’«eccesso», ma per delegarne il potere solo allo Stato, ossia all’unico Titano che l’apollineo si consente: il Socio, la Macchina Etica, il Metro «politico».
Ma pure Dioniso si è aggiornato, e non è più l’incolto, il barbaro refrattario a ogni «cultura», il selvaggio indifferente a ogni «bellezza», il Titano cannibale, l’Orco che si mangia i bambini, il Mammone che li spaventa come ai tempi dell’«età del bronzo». No, Dioniso è diventato un altro Dioniso: dalla tragedia reale è migrato nella tragedia teatrale. Anche Dioniso è stato raggiunto dal richiamo dell’Arte. Anche lui ha sentito il fascino dell’Apparente, e ha finito per riconoscere che la Natura stessa è Arte – che l’Arte non è un’aggiunta, un ornamento o una semplice addizionale apollinea all’esistenza. Dioniso, e con lui ogni «moderno» dionisiaco, ha imparato che gli «impulsi artistici» sono voci della Natura stessa, istigazioni a creare, non meno «reali» e «istintive» dei suoi appelli a distruggere ogni fede nel tempo e nella durata.
Il Dioniso della tragedia attica (nota: attica, e non genericamente «greca») è, dunque, un Dioniso reso più forte dalla contaminazione dell’apollineo. E se l’apollineo si è murato vivo dietro la terribile maestà della Porta dei leoni di Micene, il dionisiaco si è dato, contro il suo Passato, alle scene di Atene. Si è lasciato «rappresentare», e in qualche modo «addomesticare» al gioco della finzione simbolica, per dare voce, la sua voce, a ciò che un tempo era solo un grido barbarico, un evoè analfabetico e disperato.
Il grande dio Pan è morto! – adesso, anche Dioniso ha da dolersi di un lutto, pure lui ha una lingua morta da vivificare. E anche nel suo caso è una città, una πόλις, non dorica ma attica, a farsi garante e testimone oculare della sua metamorfosi «estetica».