È credenza che da lei [la vacca Io], fecondata dal seme del grande Giove, sia nato Epafo, che in diverse città ha santuari accanto alla madre. Pari a lui per fierezza ed anni era Fetonte, il figlio del Sole; e un giorno che questi, orgoglioso d’avere Febo come padre, si vantava d’essergli superiore, il nipote d’Inaco non lo tollerò: «Sciocco, – gli disse –, tu credi a tutto quello che ti dice tua madre e vai superbo di un padre immaginario».
Arrossì Fetonte, e pieno di vergogna represse l’ira, e andò a riferire alla madre, Climene, quella calunnia; le disse: «Cosa che più ti addolorerà, madre mia, io che sono così impulsivo, così fiero, ho dovuto tacere: non sopporto il pensiero che qualcuno abbia potuto insultarmi così, senza che io potessi ribattere! Ma tu, se è vero che discendo da stirpe celeste, dammi prova di questi natali illustri e rivendicami al cielo».
Così disse e intorno al collo della madre cinse le braccia, scongiurandola, per il bene suo e quello di Merope, e per le sorelle ancora da maritare, di dargli una prova del suo vero padre.
Non si sa se spinta più dalle preghiere di Fetonte o dall’ira per l’accusa che le era stata rivolta, Climene levò al cielo entrambe le braccia e fissando la luce del Sole: «Per questo fulgore splendido di raggi abbaglianti, – disse –, che ci vede e ci ascolta, io ti giuro, figliolo, che tu sei nato da questo Sole che contempli e che regola la vita in terra. Se ciò che dico è menzogna, mai più mi consenta di guardarlo e sia questa luce l’ultima per i miei occhi! Del resto non ti sarà fatica trovare la casa paterna: la terra in cui risiede confina con la nostra, là dove sorge. Se questo hai in animo, va’ e chiedi a lui stesso».
Balza lieto Fetonte alle parole della madre e, tutto preso dall’idea del cielo, lascia la terra dei suoi Etiopi, attraversa l’India che si stende sotto la vampa del sole, e di slancio arriva là dove sorge il padre. […]
***
È incredibile. Le parole con cui Epafo insinua in Fetonte il dubbio di non essere «figlio del Sole», non sono in realtà che la battuta finale, l’epilogo di quello stesso dramma che nelle Pianure del Nordamerica va sotto il nome di «disputa degli astri».
In breve il Racconto dice che una donna, anzi una bambina, si è avventurata in cielo sulle tracce di un desiderio pungente, pardon: di un porcospino dagli aculei variopinti. E che ha fatto all’amore con Luna, e le è nato un figlio. Ora, questo figlio cresce in cielo, e tutto procede tranquillamente, finché rispetta il divieto che gli è stato imposto, e cioè di dare la caccia a tutti gli uccelli che vuole, tranne agli storni. Il ragazzo disobbedisce, ed ecco che prende a tirare a uno storno, ma lo manca; e l’uccello, per ripicca, gli rivela l’origine umana di sua madre. Allora il ragazzo, preso dal desiderio di conoscere la terra, persuade la madre a scappare dal cielo.
Epafo, dunque, fa nel nostro mito la parte che il Racconto nordamericano assegna allo Storno, la stessa che – se cogli l’allusione – tocca finanche al sindaco di Riva nel racconto del «cacciatore Gracco»: quella di dirgli in faccia chiaro e tondo le terribili parole – Tu non sei di qui.
O anche – Tu, quassù, al Polo non sei che un ospite provvisorio. Nelle tue vene scorre sangue umano. No, tu non puoi dare la caccia a una preda proibita agli umani.
In quanto alla donna, il nostro mito le dà un nome, Climene, che la dice lunga: è Colei che pende, che inclina, che va su e giù, che piega e ripiega, che implica e complica i suoi desideri, e che in una di queste sue libidinose «complicità» ha fatto all’amore con il Sole. D’accordo, non si è congiunta alla Luna come raccontano gli Indiani delle Pianure, ma in ogni caso è con una Potenza Celeste che si è «sposata». È andata su, su fin sopra le nuvole, e là è vissuta, finché un bel giorno di lassù (ἐκεῖ) si è dovuta «piegare» quaggiù (ἐνθαῦτα). Dal Polo, si è «inclinata» a più basse latitudini – per poi di là imbarcarsi nel destino di una Polis.
Sappiamo com’è andata a finire. Ne siamo testimoni oculari, noi «politici» – ciascuno in prima persona. È andata a finire che, nella discesa, lei, la Matrice, è rimasta sospesa tra il cielo e la terra: e da allora, l’Idea, di sé quaggiù non proietta altro che la sua ombra – il «figlio» che le è nato dalle nozze celebrate con un astro al Polo.
È andata a finire che Afrodite, la libido, ci è tuttora Signora Incognita. Di Lei, a noi discesi, come il cacciatore Gracco, «nelle regioni più basse della morte», a noi «defunti», alle nostre «anime morte», nient’altro è dato sapere che quel poco che ambiguamente intravediamo dietro il suo pupillo, Eros. Lui solo, infatti, compie l’intero tragitto che di lassù (ἐκεῖ) – dalle arcaiche «sintesi passive» concepite al Polo – lo vede infine atterrare quaggiù (ἐνθαῦτα), e qui alla cieca aggirarsi fino a smarrirsi nelle nostre dicerie «politiche». (Amore è una di queste).
Ben altra è invece la sorte che tocca a Fetonte. Tutt’altro epilogo è destinato al suo racconto. Un epilogo tragico, di schianto e di morte. Perché Fetonte «non ha saputo guidare il carro» di suo padre! Questa è la sua «colpa»: d’essersi avventurato, inesperto, fuori dal sentiero paterno.
Ma, ciò nonostante, – recita la lapide delle Naiadi d’Occidente – «grande fu comunque la sua impresa». Essa provocò il più grande sconvolgimento che abbia mai turbato i nostri cieli…
***

Quando per un erto sentiero il figlio di Climene giunse alla reggia del Sole, appena entrato nella dimora del padre di cui dubitava, subito si diresse al suo cospetto, fermandosi però a una certa distanza: più vicino non ne avrebbe sostenuto il fulgore. Avvolto in un manto purpureo, il Sole sedeva su un trono scintillante di fulgidi smeraldi: ai suoi lati stavano il Giorno, il Mese e l’Anno, i Secoli e le Ore disposte a uguale distanza l’una dall’altra; e stava la Primavera incoronata di fiori, stava l’Estate, nuda, che portava ghirlande di spighe, stava l’Autunno imbrattato di mosto, e l’Inverno gelido con i bianchi capelli increspati.
Seduto al centro, con quegli occhi che scorgono tutto, il Sole vide il giovane intimorito da tutte quelle meraviglie e: «Perché sei venuto? – gli disse. – Cosa cerchi su questa rocca, Fetonte, figliolo mio che mai potrei rinnegare?».
E quello: «O luce, che a tutto l’universo appartieni, Febo, padre mio, se mi concedi d’usare questo nome, e se Climene non cela una colpa sotto una menzogna, dammi una prova, o genitore, che mi rassicuri d’essere tuo figlio, e strappami questa incertezza dal cuore».
A queste parole il genitore depose i raggi che gli sfolgoravano intorno al capo, l’invitò ad avvicinarsi e abbracciandolo gli disse: «Non c’è ragione per negare che tu sia mio e che il vero riferì Climene sulla tua nascita. E perché tu non abbia dubbi, chiedimi quello che vuoi: da me l’avrai; e alla mia promessa sia testimone quella palude misteriosa su cui giurano gli dèi».
Non appena tacque, il figlio gli chiese il cocchio, col permesso di guidare per tutto un giorno i cavalli dai piedi alati.
Si pentì il padre di aver giurato, e scuotendo più volte il capo luminoso, esclamò: «Folle fu la mia proposta, se questo hai in mente. Oh, si potesse non mantenere le promesse! Credimi, figliolo, questa è l’unica cosa che vorrei rifiutarti. Dissuadere invece è permesso: rischiosa assai è la tua richiesta. Grande cosa chiedi, Fetonte, una cosa che non s’addice né alle tue forze né alla tua tenera età. Il tuo destino è d’essere mortale, e non è da mortale ciò che desideri. Senza saperlo pretendi più di quanto sia lecito concedere ai celesti. Presuma ognuno ciò che gli piace, ma nessuno, tranne me, saprebbe reggersi su quel carro di fuoco. Neppure il signore del vasto Olimpo, che con mano tremenda scaglia micidiali fulmini, saprebbe guidare quel cocchio. E chi c’è più grande di Giove? Ripida all’inizio è la via, tanto che a fatica s’inerpicano i cavalli freschi al mattino; a metà altissima è nel cielo e molte volte io stesso mi spavento a guardare di lassù il mare e la terra, col cuore che batte di paura e sgomento; l’ultimo tratto è una china a strapiombo, che richiede mano ferma: allora perfino Teti, che mi accoglie in fondo alle onde, teme sempre ch’io possa giù a picco precipitare. Aggiungi poi che senza sosta il cielo ruota vorticosamente, trascinando con sé le alte stelle e facendole rapidamente turbinare. Io avanzo contro il turbine, senza lasciarmi travolgere dal suo impeto a cui nessun altro resiste, e corro in senso contrario alla corrente del suo moto. Immagina di avere il cocchio: che farai? saprai avanzare contro il roteare dei poli, senza che il flusso del cielo ti trascini via? Pensi forse che lì ci siano boschi sacri, città di dèi o sacrari ricchi di offerte? Il sentiero passa per insidie e figure di mostri, e per quanto tu segua la via giusta senza mai sbagliare, pure dovrai avventurarti tra le corna del Toro che hai di fronte, contro l’arciere di Emonia, tra le fauci violente del Leone, e attraverso lo Scorpione che inarca in un gran cerchio le sue chele velenose e il Cancro che in altra direzione le richiude. Facile non ti sarà reggere cavalli così focosi per le fiamme che hanno in petto e che soffiano fuori dalla bocca e dalle froge: a stento obbediscono a me, quando i loro animi indomiti si sono riscaldati, e il collo si ribella alle briglie. Sta’ dunque attento che non sia proprio io, figliolo, a farti un dono così funesto e, finché siamo in tempo, muta la tua richiesta. Vuoi una prova certa che ti convinca d’essere nato dal mio sangue? Io te la do col mio timore: lo sgomento di un padre attesta che lo sono. Guarda, guarda il mio volto: potessi tu figgermi gli occhi nel cuore e cogliervi tutta l’ansia che solo un padre ha in petto! Infine, guarda di quante cose è ricco il mondo intorno, e di tanti e così grandi beni di cielo, terra e mare, chiedi ciò che vuoi: nulla, nulla ti rifiuterò! Questo solo ti scongiuro di non domandarmi, che in verità è piuttosto un castigo che un tributo d’affetto: un castigo, Fetonte mio, mi chiedi in dono. Perché, insensato, mi getti le braccia al collo per blandirmi? Non dubitare, avrai (l’ho giurato sulla palude stigia) qualunque cosa desideri, ma esprimi un desiderio più saggio».
L’aveva ammonito, ma quello non vuol sentire ragioni e insiste nella sua idea e smania dalla voglia di guidare il carro. E allora, dopo avere indugiato tutto il possibile, il genitore conduce il giovane all’alto cocchio, dono di Vulcano. D’oro era l’asse, d’oro il timone, d’oro il cerchione delle ruote e d’argento la serie dei raggi; lungo i gioghi, topazi e gemme poste in fila per il riflesso del Sole emanavano sfavillanti bagliori.
E mentre l’audace Fetonte contemplava stupito in tutti i suoi particolari queste cose, ecco che all’erta dal lucore di levante puntuale l’Aurora spalancò le sue porte purpuree e l’atrio pieno di rose: fuggono le stelle, e Lucifero [il pianeta Venere], radunandole in schiere, lascia per ultimo il campo celeste.
Come vide Lucifero avviarsi verso terra e il mondo tingersi di rosso, e la falce sfocata della luna quasi svanire, il Titano ordinò alle Ore veloci di aggiogare i cavalli. Rapide le dee eseguirono l’ordine e dal fondo delle stalle trassero i destrieri sazi di succo d’ambrosia, che sbuffavano fuoco, e adattarono loro i morsi tintinnanti.

Allora il padre unse il viso del figlio con un medicamento magico, per renderlo immune all’aggressione delle fiamme, gli pose fra i capelli i raggi e, rinnovando i suoi sospiri presaghi di sventura, col cuore inquieto gli disse: «Se almeno riesci a seguire i consigli di tuo padre, evita la frusta, figliolo, e serviti piuttosto delle briglie. Già tendono a correre di suo: il difficile è frenare la loro foga. E non scegliere la via che taglia tutte le cinque zone: c’è una pista che con ampia curva si snoda obliquamente, ristretta nello spazio limitato di tre zone, senza toccare né il polo australe, né l’Orsa legata dalla parte di Aquilone. Tu, passa di là: vedrai con chiarezza i solchi delle ruote. E perché il cielo e la terra ricevano pari e giusto calore, in basso non spingere il cocchio e non lanciarlo troppo in alto nell’etere: spostandoti troppo in alto bruceresti le dimore celesti, in basso la terra: a mezza via puoi passare senza alcun rischio. Bada poi che sterzando troppo a destra le ruote non ti conducano nelle spire del Serpente, o troppo a sinistra nei recessi dell’Altare: tienti fra l’uno e l’altro. Per tutto il resto m’affido alla Fortuna, che ti aiuti e pensi a te, spero, meglio di quanto tu sappia fare. Mentre parlo, la notte umida ha raggiunto la meta posta sulle coste di Esperia. Non ci sono concessi indugi: siamo attesi; disperse le tenebre, l’Aurora risplende. Afferra le briglie! Ma se puoi mutare intenzione, serviti dei miei consigli, non del mio cocchio, finché lo puoi e ancora qui sei su terreno solido, finché alla cieca sul carro che purtroppo hai scelto non hai posto piede. Lascia che sia io a fare luce sulla terra, mentre tu guardi al sicuro!».
Balza il figlio col suo giovane corpo sul cocchio volante, ritto in piedi, felice di stringere finalmente nelle mani le briglie, e di lassù ringrazia il genitore che malvolentieri gliel’ha concesso. Intanto Piroente ed Eoo ed Etone, gli alati cavalli del Sole, e quarto, Flegonte, riempiono l’aria di fiammeggianti nitriti, scalpitando di fronte ai cancelli. Non appena Teti, che non sa quale destino attenda il nipote, li apre, schiudendo loro gli spazi del cielo immenso, quelli si slanciano fuori e, agitando le zampe per l’aria, squarciano la cortina di nebbie e sollevandosi sulle ali superano gli Euri che nascono da quelle parti.
Ma leggero è il carico, non quello a cui sono abituati i cavalli del Sole, e il giogo manca del piglio solito; così, come la chiglia delle navi senza la giusta zavorra ondeggia e per eccessiva leggerezza sbanda sul mare, il cocchio, privo del peso consueto, sobbalza nell’aria con scossoni immani, quasi fosse vuoto del tutto.
Appena se ne accorgono, i quattro destrieri si scatenano, lasciano la pista battuta e più non corrono ordinati. Lui si spaventa e non sa da che parte tirare le briglie in mano, non sa dov’è la strada e, se anche lo sapesse, come tenerli sotto controllo.
Per la prima volta allora ai raggi solari si scaldò la gelida Orsa, che invano tentò di bagnarsi nel mare che le è interdetto; e il Serpente, sospeso in prossimità degli algidi poli, che prima intorpidito dal freddo non spaventava alcuno, s’infiammò e a quel fuoco fu preso da una furia mai vista. E anche tu, Boote, raccontano che fuggisti sconvolto, benché fossi lento e impacciato dal tuo carro.
Quando poi dall’alto del cielo l’infelice Fetonte si volse a guardare in basso la terra lontana, così lontana, impallidì, e di fulmineo sgomento gli tremarono i ginocchi e pur fra tanta luce un velo di tenebra gli calò sugli occhi. Ora mai vorrebbe aver toccato i cavalli di suo padre, ora si pente d’aver saputo di chi era figlio e di averlo chiesto con tanta insistenza; ora figlio di Merope vorrebbe che lo dicessero, e intanto è trascinato via come dalle raffiche di Borea una nave, che il pilota abbia rinunciato a governare rimettendosi agli dèi e alle preghiere.

Che fare? Alle spalle s’è lasciato buona parte del cielo, ma più ve n’è davanti. Mentalmente misura i due tratti: ora scruta dinanzi l’occidente che il destino gli vieta di raggiungere, ora si volta indietro a guardare l’oriente. Incapace di una decisione, resta impietrito, non molla le redini ma insieme non ha la forza di tirarle, e per giunta ignora i nomi dei cavalli. In più, dispersi nel cielo screziato, in ogni luogo vede prodigi e, inorridito, figure d’animali mostruosi.
C’è un punto dove lo Scorpione incurva le sue chele in due archi e dalla coda alle branche stende le sue membra per lo spazio di due costellazioni. Quando il ragazzo lo vede che, asperso tutto di nero veleno, minaccia di colpirlo con la punta dell’aculeo, sconvolto da un gelido terrore lascia andare le briglie; e appena queste, allentandosi, sfiorano la loro groppa, i cavalli smarriscono la strada e senza freno alcuno vagano per l’aria di regioni sconosciute e, dove li spinge la foga, lì in disordine rovinano, cozzano contro le stelle infisse nella volta del cielo, trascinando il carro in zone inesplorate.
Ora si slanciano in alto, ora si gettano giù a capofitto per sentieri scoscesi in spazi troppo vicini alla terra. Con stupore la Luna guarda i cavalli del fratello passare sotto i suoi e le nuvole che ribollendo fumano. Nei punti più alti la terra comincia a prendere fuoco, si screpola in fenditure e, seccandosi gli umori, inaridisce; si sbiancano i pascoli, con tutte le fronde bruciano le piante e le messi riarse danno esca al flagello che le divora. Ma questo è niente: con le loro mura crollano città immense e gli incendi riducono in cenere coi loro abitanti regioni intere. […]
E così, ovunque guardi, Fetonte vede la terra in fiamme e più non resiste a tutto quel calore: respira folate infuocate, che sembrano uscire dalla gola d’una fornace e s’accorge che il suo cocchio si fa incandescente. Non riesce più a sopportare le ceneri e le faville che si sprigionano, un fumo afoso tutto l’avvolge e, immerso in quella caligine di pece, non sa più dove sia o dove vada, trascinato com’è in balia dei cavalli alati.
Fu allora, così dicono, che il popolo degli Etiopi divenne, per l’afflusso del sangue a fior di pelle, nero di colore; fu allora che la Libia, privata d’ogni umore, divenne un deserto; fu allora che le ninfe, i capelli al vento, rimpiansero fonti e laghi […].
Neppure i fiumi si salvano […]: fugge atterrito il Nilo ai margini del mondo e nasconde il capo dove ancora è celato; in polvere seccano e inaridiscono le sue sette foci: sette letti senza una goccia d’acqua. Uguale sorte in Tracia prosciuga l’Ebro e lo Strimone, e in Occidente i fiumi Po, Rodano, Reno e il Tevere a cui pure era promesso il dominio del mondo. In ogni luogo il suolo si spacca e attraverso gli squarci la luce penetra nel Tartaro, atterrendo il re e la regina degli Inferi.
Il mare si contrae e dove c’era l’acqua, ora vi sono distese d’arida sabbia; e i monti, dissimulati nei fondali, ora affiorano moltiplicando l’arcipelago delle Cicladi. I pesci si rifugiano negli abissi, e i delfini, che di solito s’inarcano in aria, non s’azzardano più a balzare sull’acqua; corpi esanimi di foche galleggiano riversi sull’onda; e si racconta che persino Doride e Nereo con le figlie cercarono rifugio nel tepore delle grotte; tre volte Nettuno, torvo in volto, cercò di sollevare dall’acqua le braccia e tre volte non resse all’aria infuocata.

Alla fine la madre Terra, intorno alla quale s’erano strette tutte le acque, sia quelle del mare, sia le fonti prosciugate, che da ogni parte cercavano di rintanarsi nelle sue viscere oscure, riarsa sollevò a fatica il volto sino al collo, si portò una mano alla fronte e con un gran sussulto, che fece tremare ogni cosa, si assestò un poco più in basso del solito, e con voce roca disse: «Se così è deciso e se l’ho meritato, perché ritardano i tuoi fulmini, o sommo fra gli dèi? Se di fuoco devo perire, concedimi di perire del fuoco tuo: più lieve sarà la mia sventura. Posso a malapena aprire la bocca per articolare queste parole – (la soffocava il fumo). – Ecco, guarda i miei capelli in fiamme, e quanta cenere negli occhi, quanta sul mio viso! Questo il mio premio? così ricompensi la fertilità e i miei servigi, dopo che sopporto le ferite infertemi da aratri e rastrelli e per tutto l’anno m’affatico? dopo che al bestiame procuro foglie, al genere umano alimenti e frutti teneri, e a voi persino incenso? Ma ammesso ch’io meriti questa fine, che colpa hanno le acque, che colpa tuo fratello? perché il mare, che gli fu affidato in sorte, sempre più si contrae e sempre più dal cielo si discosta? E se non ti commuovi per tuo fratello o per me, abbi almeno pietà del cielo che è tuo! Guardati intorno: fumano entrambi i poli; e se il fuoco li intaccherà, le vostre regge crolleranno. Atlante stesso non ce la fa più a sostenere sulle spalle l’asse celeste ormai incandescente. Se scompare il mare, se finisce la terra e crolla la reggia del cielo, ci confonderemo nell’antico caos. Salva dalle fiamme quel poco che ancora resta: abbi a cuore l’universo!».
Questo disse la Terra; né più infatti avrebbe potuto resistere al calore o dire altro: e ritirò il volto in se stessa, negli antri più vicini al regno delle ombre.
Allora il padre onnipotente, chiamati a testimoni gli dèi (compreso chi aveva prestato il carro) che se non fosse intervenuto, tutto si sarebbe fatalmente estinto, salì in cima alla rocca da cui suole stendere le nubi sulla terra, da cui fa rimbombare i tuoni e scaglia in un guizzo le folgori. Ma in quel momento non ebbe né nubi per coprire la terra, né pioggia da far cadere dal cielo: tuonò, e librato un fulmine alto sulla destra, lo lanciò contro l’auriga, sbalzandolo via dal carro e dalla vita, e così con una furiosa fiammata arrestò l’incendio.
Atterriti s’impennano i cavalli e con un balzo sciolgono il collo dal giogo, spezzano i finimenti e fuggono. Qui cadono i morsi, più in là l’asse divelto del timone, e sparsi qua e là i raggi delle ruote fracassate e i resti del carro in frantumi si disperdono in ogni direzione.
Fetonte, con le fiamme che gli divorano i rossi capelli, precipita vorticando su se stesso e lascia per l’aria una lunga scia, come a volte una stella che sembra cadere, anche se in verità non cade, dal cielo sereno. Lontano dalla patria, in un’altra parte del mondo, l’accoglie l’immenso Eridano, che gli deterge il viso fumante. Le Naiadi d’Occidente seppelliscono il corpo incenerito dal fulmine a tre punte e sulla lapide incidono questi versi:
«Qui giace Fetonte, auriga del cocchio di suo padre;
se pure non seppe guidarlo e cadde, grande fu comunque la sua impresa».
Affranto, il padre aveva intanto nascosto il volto contratto dal dolore e, se dobbiamo crederlo, dicono che tutto un giorno trascorse senza sole: luce offrivano i bagliori degli incendi e almeno a questo servì quella catastrofe.
Quanto a Climene invece, dopo aver maledetto tutto ciò che è possibile in una così grande disgrazia, impazzita di dolore, straziandosi il petto, vagò per tutto l’universo cercando all’inizio il corpo senza vita, poi le ossa, e solo queste ritrovò, sepolte in un lido straniero: si accasciò sul tumulo e inondò di lacrime il nome che lesse sul marmo, scaldandolo col seno nudo. […]
Frattanto il padre di Fetonte, desolato e privo ormai del suo splendore, come suole essere quando si eclissa, ha in odio la luce, se stesso e il chiarore del giorno, si abbandona al dolore e a questo aggiunge l’ira, rifiutandosi di servire il mondo. «Fin dal tempo dei tempi – dice – il mio destino è stato senza requie. Basta. Sono stanco di affannarmi senza fine, senza nessuna ricompensa. Che sia qualcun altro a guidare il carro che porta la luce! E se non v’è nessuno o fra gli dèi chi ammetta di saperlo fare, lo guidi lui: così almeno, mentre combatte con le mie redini, lascerà stare i fulmini che i genitori privano dei figli! Allora, provata la furia dei cavalli dai piedi di fuoco, capirà che non meritava la morte chi non seppe guidarli».
Così dice il Sole, e tutti gli dèi gli si stringono intorno, pregandolo con voce supplichevole di non immergere il mondo nelle tenebre. Anche Giove si scusa d’aver scagliato il fulmine e come un despota alle preghiere aggiunge le minacce. Febo raduna i cavalli impazziti e ancora folli di terrore, e pieno di dolore li sprona inferocito a colpi di sferza e, furioso, li accusa d’aver causato la morte del figlio.
(Ovidio, Metamorfosi, 1: 748-779; 2: 19-213; 227-237; 254-339; 381-400)