Il pellegrinaggio è l’esegesi per eccellenza, l’esodo attraverso cui l’adepto abbandona gradualmente la schiavitù delle credenze testuali.
(H. Corbin)
Immenso come il suo desiderio appare il mondo al fanciullo, che si china sulle mappe a studiare fantastici itinerari, percorsi sconosciuti che hanno, nel nome stesso dei luoghi pronunciato a bassa voce nel cono chiuso della lampada, il sapore di un’infinita avventura.
Ma questo mondo immenso si restringe, si fa piccolo e grigio, nel ricordo delle strade effettivamente percorse. Ed è dunque un amaro sapore quello che si trae dai viaggi.
I paesi visitati, dirà Proust, non sono mai il loro nome, non assomigliano alla segreta luminosità, che sembrava racchiusa in quelle sillabe. E ovunque ci siamo mossi, spinti dalla curiosità che è «un angelo crudele che fa girare anche il sole come una trottola» (Benjamin), ci siamo dapprima illusi di trovare un Eldorado, e abbiamo invece scoperto che tutto il mondo è uguale a un deserto di noia.
Appunto, come il vecchio vagabondo de Le Voyage di Baudelaire, che si trascina nel fango, sognando paradisi di luce, e che, stregato, crede di aver scoperto un luogo di delizie là dove una fioca candela o una lampada vinosa illuminano un oscuro e squallido tugurio.
Eppure, anche in quest’epoca in cui il grande mito del viaggio sembra naufragare nell’oceano della noia, esistono ancora «veri viaggiatori, che partono per partire». Che cercano di rifare grande il mondo, che si è atrofizzato e raggrinzito sotto i nostri sguardi disincantati.
Magari esplorando, come ancora Baudelaire, l’emisfero di una capigliatura. Cercando di scoprire, di rianimare, nell’onda aggrovigliata e splendente dei capelli, le onde del mare, il fuoco del sole al tramonto, lo sciabordio delle acque e il rollio della nave. E l’acuto odore di spezie, che si spande nell’aria, quando sembrava che anche la primavera adorabile avesse perduto il suo aroma.
Questo viaggio nelle profondità di una cosa o di un evento ha un nome: smarrimento. E si svolge in un luogo strano, nel labirinto. Per affrontarlo, e per ritornare sani e salvi, è necessario l’amaro sapere che sappia individuare il passaggio in percorsi che non recano alcuna traccia di sentiero, e che sembrano perdersi nella foresta.
Sono le strade vuote di uomini, le strade della città irreale, che Atget ha fotografato già nel 1900 e che sembrano il luogo in cui è avvenuto un delitto, o in cui un delitto sta per compiersi.
«Non sapersi orientare in una città non vuol dire molto. Ma smarrirsi in essa, come ci si smarrisce in una foresta, è una cosa da imparare». Dostoevskij ha dedicato tutta la sua vita a imparare quest’arte. Che cosa cercava, altrimenti, smarrendosi negli antri più oscuri di Pietroburgo, nei vicoli più impraticabili, nelle prospettive, che una folla, fluttuante e compatta, rendeva impercorribili?
E Aragon e i surrealisti, che si sono immersi nel glauco chiarore abissale dei passaggi, correndo il rischio di essere stregati e distrutti dagli esseri sinuosi e infidi che lì avevano trovato tana e alloggiamento? Perché si sono immersi nell’oscuro delirio notturno del parco di Buttes-Chaumont? Perché Joyce si è piegato, semicieco come un allucinato Tiresia, ad ascoltare la pulsazione più segreta di Dublino, che sembrava poter dilatare quei luoghi in strane e assurde fantasmagorie?
Forse tutti loro, sapendo che «a casa non si arriva mai», hanno sperato, con Hermann Hesse, di giungere là dove confluiscono le vie amiche, e il mondo «sembra per un istante casa nostra».
Benjamin ha sperimentato fanciullo questo smarrimento, e ha cercato poi, per vent’anni della sua vita di adulto, di ricostruirlo attraverso i lavori del Passagen-Werk. In un frammento di Infanzia berlinese, Benjamin racconta di un capodanno ebraico. Egli doveva andare a prendere un lontano parente, per recarsi con lui alla sinagoga per il rito.
Il fanciullo, perché aveva perduto l’indirizzo, o perché non sapeva orientarsi, inizia un andirivieni sempre più incoerente e tortuoso per le vie della città. Nel suo animo si agitano il rifiuto della persona che avrebbe dovuto accompagnarlo, e la noia che egli si attende dalla funzione religiosa.
A un certo punto emerge improvvisa l’angoscia: «Troppo tardi, la sinagoga l’ho perduta!». Ma questa angoscia si mescola subito ad uno strano sentimento, mai prima provato, a una autentica follia che è la cifra e il segnale dello smarrimento: «Tutto vada come vuole. Non me ne importa niente».
Ed ecco, allora, l’inattesa metamorfosi. Angoscia e follia confluiscono «nella prima scoperta sensazione di piacere», in cui «la profanazione del giorno festivo si mescola al lenocinio della strada».
Il fanciullo si è perduto. È entrato nel labirinto. E di lì inizia, in questo viaggio, la scoperta dell’infinita ricchezza delle strade, il vertiginoso rimescolio delle sue apparenze.
Benjamin adulto, che scrive queste pagine, scopre in esse, nel momento stesso in cui le scrive, nuovi e attuali percorsi. Il «testa a testa» del fanciullo con la città, il suo smarrimento, sono il segno di un nuovo e più terribile smarrimento.
Qui inizia un nuovo percorso. Qui hanno inizio «le spedizioni nella profondità del ricordo». Qui ha inizio «il gioco mortale della memoria».
Il viaggio dell’adulto verso il bambino è un viaggio nel tempo passato, ma anche verso pericoli che possono, in ogni istante, sopraggiungere.
Anche la memoria è dunque smarrimento. Anche perdersi nella memoria è una cosa da imparare. Infatti, come dice Montale, il ricordo ignora gerarchie e susseguenze, abbuia ciò che ci parve importante, e non garantisce che gli eventi, che faticosamente andiamo scoprendo, siano effettivamente quali essi furono.
Ma chi non impara l’amaro sapere della memoria, sperimenterà soltanto gli effetti riduttivi del ricordo. Gli effetti che, di fronte a una chiesa, a un quadro, a una strada, a un paesaggio, a un volto, costringono tutti questi tratti all’interno del «già visto». L’arte della memoria, al contrario, è quella che scopre come nuovo ciò che è già stato per noi.
È un’esperienza terribile e spaesante. Ma essa, e l’arte che permette di afferrarla, hanno un maestro ineguagliabile, che ha saputo superare i confini di una stanza chiusa, imbottita di sughero, scura per l’addensarsi delle nebbie dei vapori medicinali, per dar vita a uno dei viaggi più straordinari che siano mai stati descritti.
Luoghi, paesi, città, itinerari, viaggi. Queste parole, come scrigni segreti, celano frammenti di memoria, relitti di passate esperienze. La loro eco mi richiama sempre il nome del grande maestro del gioco della memoria. Il nome di Proust, La ricerca del tempo perduto.
Frammenti di nomi, sillabe, paesi sognati. Cattedrali, e una fila d’alberi, che si perde nell’orizzonte. Il rumore sordo delle ruote del treno. L’angoscia svegliandosi in una stanza sconosciuta. E, infine, i passi nella città spettrale, oscurata per impedire i bombardamenti, in cui si muovono strane figure, ombre più scure nell’ombra, e sullo sfondo una strana luminosità notturna, che sembra aver cancellato ogni orizzonte. Si procede nell’ombra, urtandosi con figure che non hanno volto, presenze di opaca corporeità, in cui sembra aver sede una molteplicità di innominati piaceri, di oscuri dolori, di segni di morte.
È l’ultimo tratto del viaggio, nel Tempo ritrovato, prima di scoprire, accanto ai segni che il tempo ha crudelmente inciso, nella sua fuga, sui volti degli invitati alla matinée dei Guermantes, come su delle maschere terribili e grottesche, una possibile redenzione del tempo, che intreccia, in un’opera che narra le grandi peripezie di una esistenza, illuminazioni e frammenti, che sono stati strappati al corpo del tempo, alla penombra che è stata attraversata.
La morte e la vita si uniscono in una inquietante mescolanza, che rende possibile pensare, al di là del passato, oltre il tempo ritrovato, anche il futuro, anche al tempo in cui non si sarà più, ma rimarrà il ricordo, che sarà come l’erba frusciante su cui potranno sostare i nipoti, coloro che verranno. […]
Qui è il fascino di un grande scrittore come Simenon e della sua immensa sequenza narrativa dedicata a Maigret. Maigret gira nelle piccole città che sono racchiuse nella grande città, in Parigi. La sua mente indaga, accorda, disunisce. Tutto rimane inerte. A un certo punto interviene la noia, opacità, inerzia. I suoi occhi non vedono più nulla. Il suo animo si riempie di tetraggine.
Ma poi inizia uno strano rovesciamento. Ora è il luogo che entra dentro di lui, con i suoi segreti e con le sue ragioni. E tutto diventa chiaro – modi e moventi – agli occhi di questo straordinario esploratore della metropoli, che la sera torna sempre nella tana delle sue abitudini, che sembrano costituire per gli ingenui l’antitesi del viaggio, ma che sono invece ciò che nel viaggio rende disponibili alla scoperta.
Forse non sa viaggiare chi non sa stare fermo. Forse non sa scoprire nuovi percorsi chi non ha sperimentato il delirio di immobilità. Forse non sa andare avanti chi non sa guardare all’indietro, verso il passato.
Ulisse viaggia attraverso paesi sconosciuti, strani e meravigliosi, spinto dalla nostalgia e dal ricordo. Il nostos è il viaggio che ha come meta il luogo da cui si è partiti. Raggiungere questa meta significa aprirsi alla scoperta del nuovo, di ciò che non è stato ancora veduto, che è ciò che trasforma ogni strada in un percorso, ogni luogo in un’avventura. E l’avventura si rivela allora come l’ethos, il luogo proprio dell’uomo.
(Rella, Metamorfosi)