La volta scorsa vi ho lasciato con una domanda forse un po’ strana, ma in linea con quello che vi dicevo – perché i pianeti non parlano?
Non siamo per niente simili ai pianeti, lo tocchiamo con mano ogni momento, ma ciò non ci impedisce di dimenticarlo. Abbiamo sempre la tendenza a ragionare degli uomini come se si trattasse di lune, calcolando la loro massa, la loro gravitazione.
Non è un’illusione nostra particolare, di noi uomini di cultura – soprattutto seduce molto i politici.
Penso a un’opera dimenticata che non era poi così illeggibile, perché probabilmente non era dell’autore che l’aveva firmata – si intitolava Mein Kampf. Ebbene in quest’opera del sunnominato Hitler, che ha perso molta della sua attualità, si parlava dei rapporti tra gli uomini come di rapporti tra lune. E siamo sempre tentati di fare una psicologia e una psicoanalisi di lune, quando invece basta rifarsi subito all’esperienza per vedere la differenza.
Per esempio, io sono raramente contento. L’ultima volta, non ero contento per niente, perché indubbiamente avevo cercato di volare troppo alto. Se fosse stato tutto ben preparato, non mi sarei trovato in difficoltà nel dirvi quel che vi ho detto. Tuttavia alcune persone benevole, quelle che di solito mi accompagnano all’uscita, mi hanno detto che erano tutti contenti. Cosa, immagino, molto esagerata. Non fa niente, me l’hanno detto. Del resto, sul momento non ero convinto.
Ma andiamo! Ho pensato – se gli altri sono contenti, è quello che conta. Perciò sono diverso da un pianeta.
Non è solo che io pensi che è così, ma che è vero – se voi siete contenti, è la cosa essenziale. Dirò di più – visto che mi si confermava che eravate contenti, ebbene, Dio mio, diventavo contento anch’io. Con un margine, comunque. Non proprio contento-contento. Con uno spazio fra i due. Prima di accorgermi che l’essenziale è che l’altro sia contento, ero rimasto col mio non-contentamento.
Allora, in quale momento, io sono veramente io? Il momento in cui non sono contento, o il momento in cui sono contento perché gli altri sono contenti? Questo rapporto della soddisfazione del soggetto con la soddisfazione dell’altro – capite bene, nella forma più radicale – è sempre in causa quando si tratta dell’uomo.
Vorrei che il fatto che in tal caso si tratta dei miei simili non vi ingannasse. Ho preso questo esempio, perché mi ero giurato di ricorrere al primo esempio che mi venisse in mente dopo la domanda con cui vi ho lasciato l’ultima volta. Spero di farvi oggi vedere che avreste torto a credere che qui si tratta dello stesso altro di quell’altro di cui qualche volta vi parlo, quell’altro che è l’io, o più precisamente la sua immagine. C’è qui una differenza radicale tra la mia non-soddisfazione e la soddisfazione supposta dell’altro. Non c’è immagine di identità, riflessività, ma rapporto di fondamentale alterità.
Ci sono due altri da distinguere, almeno due – un altro con un’A maiuscola, e un altro con una a minuscola, che è l’io. L’Altro, è di lui che si tratta nella funzione della parola.
Ciò che vi dico merita di essere dimostrato. Come al solito, non posso farlo che sul piano della nostra esperienza. A coloro che desiderassero esercitarsi con qualcuno di quei piccoli esercizi mentali destinati a sciogliere i muscoli, non raccomanderò mai abbastanza, a ogni buon fine, la lettura del Parmenide, in cui la questione dell’uno e dell’altro viene affrontata nel modo più vigoroso e organico. Senza dubbio è per questa ragione che è una delle opere più incomprese. Dopotutto, basterebbero le capacità medie – ma non è dir poco – di un decifratore di parole incrociate. Non dimenticate che in un testo vi ho consigliato molto formalmente di fare le parole crociate. La sola cosa essenziale è tener desta l’attenzione fino alla fine dello sviluppo delle nove ipotesi. Si tratta solo di questo – fare attenzione. È la cosa più difficile da ottenere dal lettore medio, per via delle condizioni in cui si pratica lo sport della lettura. Se qualcuno dei miei allievi potesse consacrarsi a un commento psicoanalitico del Parmenide farebbe un’opera veramente utile e permetterebbe alla comunità di orientarsi su parecchi problemi.
Ritorniamo ai nostri pianeti. Perché non parlano? Chi vuole articolare qualcosa?
Ci sono del resto parecchie cose da dire. La cosa strana non è che non ne diciate nessuna, è che non sembriate accorgervi che ce n’è a palate. Se soltanto osaste pensarlo. Non è molto importante sapere qual è l’ultima delle ragioni. Quel che è certo, è che se si cerca di enumerarle – non avevo nessuna idea preconcetta su come si potesse esporre la cosa al momento in cui vi ho fatto la domanda – le ragioni che ci vengono in mente sono strutturate come quelle di cui abbiamo a parecchie riprese già visto il gioco nell’opera di Freud, quelle cioè che egli menziona nel sogno dell’iniezione a Irma a proposito del paiolo bucato. I pianeti non parlano – primo perché non hanno niente da dire – secondo, perché non ne hanno il tempo – terzo, perché sono stati messi a tacere.
Le tre cose sono vere, e potrebbero permetterci di sviluppare relazioni importanti con ciò che si chiama un pianeta, ossia con ciò che ho preso come termine di riferimento per mostrare quello che non siamo.
Ho posto la domanda a un eminente filosofo, uno di quelli che quest’anno sono venuti qui a farci una conferenza. Si è occupato a lungo della storia delle scienze e ha sviluppato sul newtonismo le riflessioni più pertinenti, le più profonde che ci siano. Si rimane sempre delusi quando ci si rivolge a persone che, sembra, siano degli specialisti, ma vedrete che non mi ha deluso in realtà. Non gli è parso che la domanda sollevasse molte difficoltà. Mi ha risposto – Perché non hanno bocca.
Di primo acchito sono rimasto un po’ deluso. Quando si è delusi, si ha sempre torto. Non bisogna mai essere delusi delle risposte che si ricevono, perché se lo si è, è meraviglioso, prova che si tratta di una vera risposta, ossia che non ce la si aspettava proprio.
Questo punto è molto importante per la questione dell’altro. Abbiamo troppa tendenza a farci ipnotizzare dal cosiddetto sistema delle lune, e a modellare la nostra idea della risposta su ciò che ci figuriamo quando parliamo di stimolo-risposta. Se otteniamo la risposta che aspettiamo, si tratta veramente di una risposta? Ecco ancora un nuovo problema, e per ora non mi impegno in questo divertimento.
Dopo tutto la risposta del filosofo non mi ha deluso. Nessuno è costretto a entrare nel labirinto della domanda attraverso le tre ragioni che ho detto, anche se le ritroveremo, perché sono quelle vere. Ci si entra altrettanto bene attraverso qualsiasi risposta, e quella che ho ricevuto è estremamente illuminante, a condizione di saperla intendere. E io ero nelle migliori condizioni per capirla, poiché sono psichiatra.
Non ho bocca, lo sentiamo dire all’inizio della nostra carriera, nei primi servizi di psichiatria a cui arriviamo come degli sbandati. In mezzo a quel mondo miracoloso, incontriamo vecchissime signore, vecchie zitelle, la cui prima dichiarazione a colloquio con noi è – Non ho bocca. Ci informano che non hanno neppure stomaco, e per di più che non moriranno mai. In breve, esse hanno un grandissimo rapporto con il mondo delle lune.
La sola differenza è che per queste vecchie signore, in preda alla cosiddetta sindrome di Cotard, o delirio di negazione, dopo tutto è vero. Si sono identificate a un’immagine cui manca ogni apertura, ogni aspirazione, ogni vuoto del desiderio, ossia ciò che propriamente costituisce la proprietà dell’orifizio boccale. Nella misura in cui si opera l’identificazione dell’essere all’immagine pura e semplice, non c’è posto neppure per il cambiamento, cioè per la morte.
È ciò di cui si tratta nel loro tema – esse sono nello stesso tempo morte e non possono più morire, sono immortali – come il desiderio. Nella misura in cui qui il soggetto si identifica simbolicamente con l’immaginario, realizza in qualche modo il desiderio.
Che anche le stelle si trovino a non avere bocca e a essere immortali è di un altro ordine – non si può dire che sia vero, è reale. Non è in discussione che le stelle abbiano una bocca. E, almeno per noi, il termine immortale è divenuto con il tempo puramente metaforico. È incontestabilmente reale che la stella non abbia bocca, ma nessuno se lo sognerebbe, nel senso proprio del termine sognare, se non ci fossero degli esseri provvisti di un apparato atto a proferire il simbolico, cioè gli uomini, per farlo notare.
Le stelle sono reali, integralmente reali, in linea di principio, non c’è in loro assolutamente nulla che sia dell’ordine di un’alterità da se stesse, sono puramente e semplicemente ciò che sono. Che si trovino sempre al medesimo posto, è uno dei motivi per cui non parlano.
Avete notato che oscillo di tanto in tanto tra i pianeti e le stelle. Non per niente. Il sempre allo stesso posto, non sono stati i pianeti a mostrarcelo all’inizio, ma le stelle. Il movimento perfettamente regolare del giorno siderale è certamente ciò che ha dato per la prima volta agli uomini l’occasione di provare la stabilità del mutevole mondo che li circonda, e di cominciare a stabilire la dialettica del simbolico e del reale, in cui apparentemente il simbolico scaturisce dal reale, il che naturalmente non ha maggior fondamento che pensare che le cosiddette stelle fisse girino realmente intorno alla Terra.
Allo stesso modo, non si dovrebbe credere che i simboli siano effettivamente venuti dal reale. Ma non per questo è meno sorprendente vedere fino a che punto siano state attraenti queste forme singolari, e il cui raggruppamento, dopotutto, non si fonda su nulla.
Perché gli umani hanno visto l’Orsa Maggiore così? Perché le Pleiadi sono così evidenti? Perché Orione è visto così? Non saprei proprio dirvelo. Non credo che siano mai stati raggruppati in modo diverso questi punti luminosi – è una domanda che vi faccio. Questo fatto non ha mancato di avere un ruolo agli albori dell’umanità, che d’altronde mal distinguiamo. Questi segni sono stati tenacemente tramandati fino ai giorni nostri, il che dà un esempio molto singolare del modo in cui il simbolico fa presa. Le famose proprietà della forma non sembrano assolutamente convincenti come spiegazione del modo con cui sono state raggruppate le costellazioni.
Detto questo, rimarremmo con tanto di naso, visto che non c’è nulla di fondato nell’apparente stabilità delle stelle che si ritrovano sempre al medesimo posto. Abbiamo evidentemente fatto un progresso sostanziale quando ci siamo accorti che invece c’erano delle cose che lo erano realmente, allo stesso posto, che all’inizio erano state viste come pianeti erranti, e ci siamo accorti che non era solamente in funzione della nostra rotazione, ma realmente, che una parte degli astri che popolano il cielo si muovono e si ritrovano sempre al medesimo posto.
Questa realtà costituisce un primo motivo per cui i pianeti non parlano. Nondimeno, si avrebbe torto a credere che siano così muti. Lo sono così poco che sono stati a lungo confusi con i simboli naturali. Li abbiamo fatti parlare, e sarebbe un errore non chiederci come mai la cosa continui. Molto a lungo, e fino a un’epoca molto tarda, hanno infatti conservato un resto di esistenza soggettiva. Copernico, che tuttavia aveva fatto fare un passo decisivo nell’individuazione della perfetta regolarità del movimento degli astri, continuava ancora a pensare che un corpo della Terra che si trovasse sulla Luna non avrebbe mancato di fare ogni sforzo per tornare a casa, cioè sulla Terra, e che, inversamente, un corpo lunare non si sarebbe dato pace finché non avesse ripreso il volo verso la terra materna. Per dirvi come a lungo si sono conservate queste nozioni, e come sia difficile non fare degli esseri con delle realtà.
Finalmente venne Newton. Era già da un po’ che la cosa si preparava – non c’è esempio migliore della storia delle scienze per mostrare fino a che punto il discorso umano sia universale. Newton ha finito per dare la formula definitiva intorno a cui tutti si accanivano da un secolo. Farli tacere, Newton c’è definitivamente riuscito. L’eterno silenzio degli spazi infiniti, di cui si spaventava Pascal, è una cosa acquisita dopo Newton – le stelle non parlano, i pianeti sono muti, per il fatto che sono stati messi a tacere, che è la sola vera ragione, perché infine non si sa mai cosa può capitare con una realtà.
Perché i pianeti non parlano? È una vera domanda. Non si sa mai che cosa può capitare con una realtà, fino a che non la si è ridotta definitivamente a iscriversi in un linguaggio. Si è definitivamente sicuri che i pianeti non parlano solo da dopo che si è loro tappata la bocca, cioè da dopo che la teoria newtoniana ha formulato la teoria del campo unificato, in una forma che è stata successivamente completata, ma che era già perfettamente soddisfacente per ogni mente umana.
La teoria del campo unificato si riassume nella legge di gravitazione, che consiste essenzialmente nel fatto che c’è una formula che tiene insieme tutto, in un linguaggio ultrasemplice di tre lettere.
Gli spiriti contemporanei hanno fatto ogni tipo di obiezione – la gravitazione, è impensabile, non si è mai visto una cosa simile, un’azione a distanza, attraverso il vuoto, ogni specie di azione è per definizione un’azione gomito a gomito. Sapeste fino a che punto il moto newtoniano è una cosa difficile da capire quando lo si guarda da vicino! Vedreste che non è un privilegio della psicoanalisi operare su nozioni contraddittorie.
Il moto newtoniano utilizza il tempo, ma del tempo della fisica nessuno se ne preoccupa, perché si tratta di qualcosa che non concerne delle realtà – si tratta del giusto linguaggio, e non si può considerare il campo unificato altrimenti che come un linguaggio ben costruito, come una sintassi.
Su questo versante siamo tranquilli – tutto ciò che entra nel campo unificato non parlerà mai più, perché si tratta di realtà completamente ridotte al linguaggio. Credo che qui si veda l’opposizione che c’è tra parola e linguaggio.
Non crediate che la nostra posizione nei confronti di tutte le realtà sia giunta a questo punto di riduzione definitiva, benché sia già molto soddisfacente – se i pianeti, e altre cose del medesimo ordine, parlassero, sarebbe una discussione davvero divertente, e lo spavento di Pascal si trasformerebbe forse in terrore.
Infatti, ogni volta che abbiamo a che fare con un residuo di azione, di vera azione, autentica, a un qualcosa di nuovo che sorge da un soggetto – e non c’è bisogno che sia un soggetto animato – ci troviamo di fronte a qualcosa di cui è solo il nostro inconscio a non spaventarsi. Al punto a cui attualmente vanno avanti i progressi della fisica, si avrebbe torto a figurarsi che il più sia fatto, e che si sia già loro chiuso il becco, all’atomo, all’elettrone. Assolutamente no. Ed è evidente che non siamo qui per andar dietro alla chimera, a cui le persone non mancano di abbandonarsi, della libertà.
Non è di questo che si tratta. È chiaro che è dalla parte del linguaggio che si produce qualcosa di curioso. È a questo che si riduce il principio di Heisenberg. Quando si può precisare uno dei punti del sistema, non si possono formulare gli altri. Quando si parla del posto degli elettroni, quando si dice loro di restare lì, di rimanere sempre al medesimo posto, non si sa più dove va a finire ciò che comunemente chiamiamo la loro velocità. Inversamente, se si dice loro – va bene, d’accordo, vi spostate continuamente nel medesimo modo –, non si sa più assolutamente dove sono.
Non dico che si resterà sempre in questa posizione eminentemente da presa in giro. Ma fino a nuovo ordine, posiamo dire che gli elementi non rispondono là dove li si interroga. Più esattamente, se li si interroga da qualche parte, è impossibile coglierli nell’insieme.
Di chiedersi se parlano non la si fa finita per il solo fatto che non rispondono. Non si sta tranquilli – un bel giorno, qualcosa può sorprenderci. Non cadiamo nel misticismo – non vi sto dicendo che gli atomi e gli elettroni parlino. Ma perché no? Tutto accade come se. In ogni caso, la cosa sarebbe dimostrata a partire dal momento in cui incominciassero a mentirci. Se gli atomi ci mentissero, se giocassero con noi a fare i furbi, saremmo giustamente convinti. Toccate qui con mano di che cosa si tratta – degli altri in quanto tali, e non semplicemente in quanto rispecchiano le nostre categorie a priori e le forme più o meno trascendentali della nostra intuizione.
Sono cose a cui preferiamo non pensare – se un giorno iniziassero a imbrogliarci, guardate dove si andrebbe a finire. Non si saprebbe più dove si è, è il caso di dirlo, ed è proprio a questo che pensava continuamente Einstein, senza smettere di meravigliarsene.
Ricordava ogni momento che l’Onnipotente è un furbacchione, ma non è certo disonesto. D’altra parte è l’unica cosa che permetta, poiché qui si tratta dell’Onnipotente non-fisico, di fare la scienza, cioè alla fin fine di ridurlo al silenzio, l’Onnipotente.
(Lacan, Il Seminario: 2)