Andromaca, io penso a voi! Quel fiumiciattolo,
misero e triste specchio dove un tempo rifulse
l’immensa maestà delle vostre pene di vedova,
quel Simoenta mendace ingrossato delle vostre lacrime,
ha d’improvviso fecondato la mia fertile memoria
mentre attraversavo il Carosello nuovo.
La vecchia Parigi non esiste più (l’aspetto di una città
muta più presto, ahimé, che il cuore dell’uomo),
soltanto in spirito vedo tutto il campo di baracche,
il mucchio di capitelli appena sbozzati e di fusti di colonne,
le erbe, i grandi massi inverditi dall’acqua delle pozzanghere
e, nel brillio delle vetrine, la confusione delle cianfrusaglie.
Laggiù stava un tempo un serraglio,
e là io vidi, un mattino, all’ora in cui sotto i cieli
freddi e chiari il Lavoro si sveglia, e gli spazzini
levano un oscuro uragano nell’aria silenziosa,
un cigno evaso dalla sua gabbia:
con i piedi palmati fregava l’arido selciato,
trascinando il bianco piumaggio sul terreno accidentato.
Presso un ruscello secco l’animale, aprendo il becco,
immergeva febbrilmente le ali nella polvere,
e diceva, il cuore tutto memore del suo bel lago natio:
«Quando scenderai, acqua, quando esploderai, fulmine?».
Vedo quel misero, strano e fatale mito,
verso il cielo, talvolta, verso il cielo ironico
e crudelmente azzurro – come l’uomo di Ovidio
sul suo collo convulso innalzando l’avida testa –
in atto di lanciare rimproveri a Dio!
**
Parigi cambia! Ma nulla è mutato nella mia malinconia:
palazzi nuovi, impalcature, massi,
vecchi quartieri, tutto in me diviene allegoria,
e i miei ricordi più cari sono grevi come rocce.
Così, dinanzi al Louvre un’immagine m’opprime.
Penso al mio grande cigno (ai suoi movimenti folli),
ridicolo e sublime come gli esuli,
e divorato da un desiderio senza requie. E penso a voi,
Andromaca, caduta dalle braccia d’un grande sposo,
come un vile capo di bestiame, sotto la mano del superbo Pirro
curva su una tomba vuota, estatica, penso a voi,
vedova di Ettore e sposa di Eleno.
Penso alla negra smagrita e tisica,
scalpicciante nel fango, in atto di cercare, col suo occhio sconvolto,
gli alberi di cocco assenti della superba Africa
dietro il muro immenso della nebbia;
penso a chiunque ha perduto quel che non si ritrova
mai più, a coloro che si saziano di lacrime
succhiando il Dolore come una buona lupa,
ai magri orfanelli che appassiscono come fiori!
Così, nella foresta ove il mio spirito si rifugia,
un vecchio Ricordo suona a perdifiato il suo corno.
E penso ai marinai dimenticati su di un’isola,
ai prigionieri, ai vinti… e a molti altri ancora!
(Baudelaire, I fiori del male)
***
Chi sarà mai questa Andromaca, chi se non Colei per cui gli Uomini si danno battaglia?
Andromaca – un nome del genere non si addice solo a chi, come Elena la Bella, «scatena la guerra», ma anche, e forse – come suggerisce la tradizione omerica – ancor di più a chi, come la fedele e legittima sposa di Ettore, è ridotta a puro «bottino di guerra». Non solo, dunque, a chi è causa, ma anche a chi è effetto (preda, conquista o puro «resto») di una «guerra».
La Donna prima e dopo la guerra – Quella che fu, Bellezza in persona, la Parigi d’un tempo… e poi quest’altra che è la Troia «qui e ora» trattata alla stregua di un «vile capo di bestiame».
La Donna – campo di battaglia, sentiero di guerra.
Augh! dovemmo abbandonarlo, perché troppi erano i morti, e le loro ossa insepolte, e gli echi dei loro innumerevoli rimpianti ci ostruivano il cammino.
Ci lasciammo perciò Troia alle spalle, e dopo dieci lunghi interminabili anni di guerra prendemmo il largo verso un nuovo mattino. Ma avevamo la morte nel cuore. Ti ricordi, Andromaca? Eravamo ormai solo avanzi di una guerra, spogli di ogni dignità. Eravamo morti sotto le rovine di Troia. E quel che ci attendeva era una dura migrazione. Scippati alla nostra lingua e alla nostra storia – ti ricordi? dovemmo apprendere un altro cerimoniale, un altro rito nuziale, e offrirci, per sopravvivere, come schiavi o come puttane.
Scippati ai nostri desideri, al nostro «erotismo» di allora, dovemmo sulla riva attendere che un suo minimo «rigurgito» venisse a insaporire un’esistenza ahimé «mortificata».
Quante lacrime hanno ingrossato le «acque auree» del Simoenta! Da monte a valle, da Elena ad Andromaca, esse si sono intorbidite. E se Elena fu l’aureo miraggio, Andromaca ne è la Vedova, l’infelice malinconica macchina celibe sopravvissuta al suo Partner Ideale – noi oggi la chiamiamo Anima, o Memoria.
È la sopravvissuta alla «morte» di Eros. E se Eros non «ritorna», le nuove «notti d’amore» vedranno Andromaca passare da un letto all’altro, «mero fantasma» immemore del suo proprio desiderio.
C’è, a prima vista, un dettaglio strano, e Starobinski (La malinconia allo specchio) lo fa notare: in capo alla memoria di Baudelaire, invece di un personaggio «reale», c’è una vaga Figura Mitica. Baudelaire non principia a ricordare a partire da una persona reale, bensì da una Donna leggendaria. Non una «reale», biografica, Marie o Louise o Annette, bensì la mai incontrata, l’«astratta», Andromaca.
Ma tutto questo non è poi così strano come sembra. Il principio di Anima, l’inizio di Memoria o, altrimenti detto, l’eco della Realtà Inconscia, l’«ultima parola» con cui da noi si congeda il nostro Passato sulla Via Lattea, non è logos, non ancora – ma è mythos. Non è parola di racconto cosciente, ma vago balbettare intorno al «problema» al cui richiamo si desta la nostra prima aurora «in terra».
Attratti dal «Carosello nuovo», sedotti dalla nuova forma della Polis – dalle sue mode, dalla sua ossessione di «modernità» – prendemmo di buon mattino il largo, e ci lasciammo alle spalle la Grande Tragedia.
L’abbiamo dimenticata. Nessuno si ricorda più come, ma alla fine l’abbiamo dimenticata – e non poteva che essere così, dal momento che la Guerra che combattemmo era fatta tutta quanta di λήθη. Non l’abbiamo però annientata, azzerata, ed è per questo che può sempre «ritornare» una memoria ad affliggerci, per caso evocata da questa o quella parola della lingua della Polis. A volte basta sentir dire Troia perché subito riavvolgiamo il filo di chissà quanti ricordi.
Troia non è però più sulla Via Lattea, dacché i Greci la distrussero. Tutti i Popoli si sono dati battaglia per distruggere la loro Città d’Oro. Solo che i Greci se la raccontavano tutti i santi giorni la loro Tragedia. Il loro Libro era il libro della Guerra di Troia. Era la memoria che il mythos custodiva di una «crudeltà» che era stata loro necessaria per chiudere i conti con un certo Passato e, insieme, darsi lo slancio verso un nuovo mattino dell’esistenza. I Greci sapevano che, dopo Elena, dopo la Meraviglia delle meraviglie, c’era poi stata Andromaca, la Vedova delle vedovanze. E che, per sopravvivere a cotale disfatta, essi s’erano dovuti arrangiare alle nuove circostanze «femminili». Questo era quanto avanzava della Donna: un «oggetto di battaglia».
Perciò, è alla Vedova Leggendaria che ogni «malinconia», non solo quella di Baudelaire, attinge il pretesto per «rifluire» verso il suo tragico Passato, non fin dentro però alla Tragedia.
Ecco, per esempio: La vecchia Parigi non esiste più. È questo il ritornello «malinconico» del Cigno: quel che fu non si ritrova mai più. È dunque fino a questo Passato avvolto nelle nebbie di un nostalgico «mai più» che la «malinconia» riconduce. La «malinconia» è l’ultima stazione prima della tragedia greca. Essa ha del Tempo, e in particolare del Passato, un’idea non greca.
Baudelaire si sbaglia, la «malinconia» lo fa sbagliare: il Vecchio, il Più Vecchio, il Passato Remoto, esiste ancora. Eccome se esiste! È semmai il Presente che non fa neanche in tempo a presentarsi, che già non si ritrova più. Il Passato invece ci coesiste. Sepolto sotto il velo della nostalgia, ridotto a «tomba vuota» d’ogni memoria, e presso questa «tomba» una Vedova Leggendaria a montare la guardia, il Passato è ancora qua, il Passato «non passa» mai. E basta, a volte, sentire evocato il nome della Vedova per rivivere la Tragedia rimossa. Riviverla alla greca.
Da Andromaca al cigno «esule» (non libero, ma «espatriato», una volta uscito dalla sua «gabbia»), e da questo al «folle» cigno, al cigno «ridicolo e sublime come gli esuli» della seconda parte (quello che è divenuto il «mio» cigno), e da questo di nuovo ad Andromaca «curva su una tomba vuota»: questo è – andata e ritorno – tutto il tragitto della «malinconia» che Baudelaire riesce a percorrere. Appena un tratto di via.
Ma perché il cigno? perché il cigno e non il… Capro? perché il «maschio» Zeus e non l’ambiguo «ambigenere» Dioniso? Perché, di fronte ad Andromaca, all’altro capo del filo dei «ricordi», c’è il cigno che ingravida Leda del seme da cui nascerà Elena la Bella, e non il Capro selvaggio come le Baccanti che, sfrenate, gli danzano intorno? Perché l’«olimpico» padreterno che vince tutte «le battaglie per il possesso della Donna», e non il «dionisiaco» che, almeno una volta ogni due anni, le Donne le scioglie da ogni legame «di parentela», e le fa insorgere contro le Istituzioni e, in particolare, quella che riduce la Donna a mero «oggetto di contesa» tra i Maschi?
Da Andromaca al «seme» di Elena la Bella… andata e ritorno, dal circolo vizioso, dal Vizio del Maschio di scatenare la guerra per la predazione della Donna, la «malinconia» non esce, pardon: non vuole uscire.
La «malinconia» non vuole e non sa rinunciare alla sua vecchia abitudine di versare lacrime nel «mendace Simoenta», di piangere e rimpiangere un «falso» Passato, un Passato che essa sa «introvabile», un Passato «leggendario» che le nasconda la Tragedia «reale».
La Realtà è che il Passato – anzi, solo il Passato – è ancora qua a esigere e riscuotere il «nostro» Tempo / rimetti a noi i nostri debiti / o a dire: la Realtà è il Debito Universale da cui l’inclinazione alla «malinconia» ci assolve, rendendoci a uno a uno smemorati al nostro proprio Passato, per consegnarci al Mito, alla Leggenda, al Racconto e al Sentimento Popolare.
Così, per venire a capo di uno smarrimento, la «malinconia» ci smarrisce lontano dalla tragica Realtà da cui veniamo. Lontano dalla Via Lattea del nostro essere. Per caso, un mattino, per le strade della vecchia Parigi finisce che non sappiamo più nulla di noi stessi. Siamo diventati francesi, e nelle vene della nostra poesia non scorre più sangue greco.