L’ἀλήθεια porta scritta in sé la sua opposizione fondamentale alla λήθη – essa è, alla lettera, il «venir meno», il «mancamento» di quella dimensione, la λήθη, che «in quanto oblio – dice Heidegger – è privo di segni e si sottrae» a ogni memoria o rappresentazione.
L’ἀλήθεια sorge da un «conflitto» interno alla λήθη – come a dire: la coscienza affiora da una «autodistruzione» dell’inconscio (Spielrein). Ma una volta venuta alla luce, dove mai troverà «dimora» l’ἀλήθεια, chi se ne prenderà cura, chi si assumerà il suo destino?
Conosciamo la risposta di Platone, ed è quella da cui Heidegger prende le mosse per le sue lezioni sull’ἀλήθεια: la πόλις è il soggetto che «storicamente» si assume l’onere della «memoria»…
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Che cos’è la polis/πόλις? Seguendo […] l’indicazione che ci è fornita dalla parola stessa: la πόλις è il πόλος – il polo, il luogo attorno al quale ruota in un modo caratteristico tutto ciò che alla grecità appare per quanto concerne l’ente. Il polo è il luogo che catalizza ogni ente, e per la precisione in modo tale che nell’ambito di questo luogo si mostra come vanno e stanno le cose riguardo all’ente.
Il polo, inteso come un simile luogo, fa apparire l’ente nel suo essere di volta in volta nell’insieme della sua condizione. Ciò non significa, però, che il polo faccia o crei l’ente nel suo essere, giacché, in quanto polo, esso è piuttosto il sito in cui l’ente si svela nel suo insieme. La πόλις è l’essenza del luogo, noi diciamo la località del soggiorno storico dell’umanità greca. Proprio perché la πόλις, di volta in volta, fa sì che in un modo o nell’altro l’insieme dell’ente giunga a svelare la sua condizione, perciò essa è essenzialmente riferita [non all’ente, ma] all’essere dell’ente. Tra πόλις ed «essere» vige un riferimento iniziale.
Secondo la sua radice, un termine strettamente affine a πόλις è l’antica parola greca che significa «essere», cioè πέλειν, che traduciamo «sorgendo ergersi nello svelato». La πόλις non è né la città né lo Stato, e tanto meno la fatale mescolanza di queste due determinazioni già in sé inadeguate; non è dunque la tanto citata «città-Stato», quanto piuttosto la località del luogo della storia della grecità. Non è città né Stato, ma è senza dubbio il sito dell’essenza del mondo greco. In questo sito essenziale si raccoglie in modo originario l’unità di tutto ciò che, in quanto svelato, è essenzialmente riferito all’uomo, vale a dire che gli è assegnato come ciò a cui egli rimane consegnato nel suo essere. La πόλις è il sito in sé raccolto della svelatezza dell’ente.
Ora, però, se come dice la parola l’ἀλήθεια ha un’essenza conflittuale, e se tale conflittualità si mostra anche nel carattere contrastante dell’occultamento e dell’oblio [se cioè essa non si mostra mai pienamente, ma sempre è tenuta a «pagare un obolo a Caronte», un pegno a quello stesso Oblio a cui si sottrae], allora nella πόλις intesa quale sito essenziale dell’uomo deve dominare ogni estrema opposizione essenziale […].
Giace qui nascosto il fondamento iniziale di quel fenomeno che Jakob Burckhardt ha descritto per la prima volta in tutta la sua portata e multiformità, e che consiste nella terribilità, nell’orrore e nella sventura propri della πόλις greca. Si tratta dell’ascesa e della caduta dell’uomo nel suo sito storico essenziale: ὕψίπολις – ἄπολις, ovvero «sovrastante il sito» – «privato del sito»: così Sofocle definisce l’uomo nell’Antigone.
Non è un caso che questo riferimento all’uomo compaia nella tragedia greca, giacché la possibilità e la necessità della «tragedia» scaturiscono anch’esse da quell’incomparabile fondamento che è l’essenza conflittuale dell’ἀλήθεια.
C’è solo la tragedia greca e nessun’altra all’infuori di essa. Solamente l’essenza dell’essere esperito in modo greco ha quella qualità iniziale che fa del «tragico» una necessità.
Nell’Introduzione alle sue lezioni sulla storia della civiltà greca, Burckhardt cita scientemente un giudizio che, da studente, aveva sentito pronunciare dal suo docente di filologia classica a Berlino, il professor Böckh, e che dice: «Gli Elleni furono più infelici di quanto in genere si creda».
Su questa convinzione di fondo, che in queste parole è poco più di un presagio, si basa anche la descrizione della grecità che Burckhardt rese pubblica nelle sue lezioni di Basilea, più volte ripetute dal 1872 in poi.
Nietzsche possedeva gli appunti di un frequentatore del corso e custodiva il manoscritto come il suo tesoro più prezioso. Il fatto poi che Nietzsche pensasse comunque l’essenza grecità e della πόλις in un’ottica romana è dovuto in parte allo stesso Burckhardt, che considera il mondo greco nella prospettiva della «storia della civiltà greca», intendendo con ciò «la storia dello spirito greco».
Ma per quanto li si possa circostanziare, i concetti di «spirito» e di «civiltà» sono rappresentazioni del pensiero moderno. Burckhardt ha dato loro una impronta particolare, che risente dell’influenza del «Rinascimento italiano» da lui scoperto, sicché nel suo pensiero storico si infiltrano concetti essenzialmente romani, romanici e moderni.
(Heidegger, Parmenide)
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Heidegger ci invita a pensare la πόλις in modo greco, senza cadere in qualche trappola «moderna», sia essa «romana, romanica», o anche «neoplatonica» e/o «rinascimentale»: pensarla in modo greco richiede in primo luogo che la si pensi in lingua greca, che la si pensi «alla radice».
Ora, il verbo pélein /πέλειν/ dalla cui radice / πελ-πολ / provengono, oltre a polis, anche parole come polo, popolo, polemico, plurale, plus ecc., allude a qualcosa come il sorgere, il venire a essere, il diventare, l’aver luogo, il situarsi in un certo «giro» (la radice ha anche il senso di «ruotare»), dando così un «qui» (ἐνθαῦτα) al proprio essere… facendolo «gravitare» intorno a un Polo che è «l’aldilà» (ἐκεῖ) a cui tutto un Popolo, tutta una πόλις «orienta» il destino che a ciascuno tocca della sua ἀλήθεια. Il destino di quell’esperienza individuale che ciascuno fa, tragicamente, allorché in lui l’Oblio «viene meno».
Questa perdita dello stato d’incoscienza, questo «mancamento» di libertà, questa «privazione» di λήθη, questo fallimento dell’immediatezza «reale», ci getta… in bocca al Lupo, ci dà in pasto all’Orco – a meno che, dice Platone, non ci rimettiamo alla «dialettica» della πόλις. Se, dice, la nostra ἀλήθεια non la rileggiamo alla luce del Racconto, e in virtù della potenza linguistica, della πόλις – restiamo prigionieri della Caverna e degli inganni delle sue Ombre.
La πόλις è perciò il «sito storico», lo «spazio» che «storicizza», e che dunque dà un tempo – il Tempo scandito dalle ore del suo «dicere» – all’ἀλήθεια. Le dà un «tempo» perché le dà una «lingua». Un tempo e una lingua, a cui le conviene aggrapparsi per non «impazzire» nella sua irrappresentabile (tragica scoperta della propria) singolarità.
In quanto «ospizio» degli «smarriti», la πόλις non può che essere, essa, la Smarrita che, per non perdersi nel Vuoto, si aggrappa al Polo Ideale tracciato nelle mappe della Sapienza Antica: perché la πόλις è la cassa di risonanza di tutti i conflitti, di tutti gli antagonismi la cui matrice «è scritta» sul fondo, alla radice, nella preistoria di ciascuna ἀλήθεια, e dunque nella contrapposizione essenziale che la vede «sorgere» dalla λήθη – da uno squarcio nell’Oblio e nell’Incoscienza – vagando, come le stelle dell’Orsa, intorno al Polo «perduto».
Guai a quel «greco», dice Sofocle, che si trova a essere «apolide»: a vivere cioè senza poter salire sulla «giostra» di un Popolo. Beato invece colui che ha la fortuna, la πόλις, di vederla «dall’alto». Solo contemplandola «di là», gli sarà facile riconoscerla: è Lei la Smarrita. Il Racconto dello smarrimento «politico» è il solo, Dante docet, che può dirci a che punto del Cammino «qui e ora» ci troviamo.
Non c’è storia fuori dallo spazio della πόλις. Non c’è un uomo, un «qui e ora», un «io» prima dell’adunanza, prima del «noi», prima del popolo, prima dello «stare insieme» in uno spazio condiviso, prima del SI che, di questo spazio, è il sovrano dittatore.
Non sarà dunque alla luce di vaghe nozioni, quali «spirito» e «civiltà», che verremo a capo della «politica» dei Greci, e tanto meno comprenderemo la differenza della loro Tragedia. Il «tragico» è, per il Greco, una necessità – questa, dice Heidegger, è la differenza rispetto a ogni altro Teatro. Una necessità che il Greco sente congenita alla sua stessa nascita «politica» all’esistenza. Una necessità (Ananke assisa al Polo a far «ruotare» l’Essere del Mondo) che «raduna» una pluralità di «fuoriusciti» dalla Realtà Immediata, ciascuno in seguito al «fallimento» del suo stato di λήθη.
Dioniso, il bambino, avrebbe dormito volentieri altri cent’anni se intorno alla sua culla non si fossero dati appuntamento certi «malintenzionati». La Tragedia è iniziale, è l’Inizio stesso della nostra avventura nella memoria e nella coscienza. La Tragedia è che siamo stati «assaliti» nel nostro Essere, cioè agitati e cogitati fino a smarrirci «fuori di noi». E qui, tragicamente, abbiamo scoperto che fuori del NOI, fuori della πόλις non è dato nessun futuro a nessuna ἀλήθεια. Se non quello di una privata «pazzia» linguistica.