Yates – Giordano Bruno e la memoria ermetica

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Il primo libro sulla memoria che Giordano Bruno pubblicò, il De umbris idearum, fu dedicato a un re francese, Enrico III; le parole di apertura promettono di rivelare un segreto ermetico. Questo libro è il successore del Teatro di Camillo, e Bruno è un altro italiano che porta un «segreto» sulla memoria a un altro re di Francia.

… acquistai nome tale che il re Enrico terzo mi fece chiamare un giorno ricercandomi se la memoria che avevo e che professavo era naturale o pur magica; al quale diedi soddisfazione; e con quello che li dissi e feci provare a lui medesmo conobbe che non era per arte magica ma per scienzia. E dopo questo feci stampare un libro de memoria, sotto titolo De umbris idearum, il quale dedicai a Sua Maestà; e con questa occasione mi fece lettor straordinario e provisionato…

Questa è l’esposizione che Bruno fece circa i suoi rapporti con Enrico III, nella sua dichiarazione agli inquisitori veneziani: ai quali era bastato un semplice sguardo al De de-Umbris-Idearumumbris idearum per riconoscervi immediatamente (essendo meglio versati in questa materia degli ammiratori ottocenteschi di Bruno) che esso conteneva allusioni alle statue magiche dell’Asclepio e una lista di circa centocinquanta immagini magiche delle stelle. Molto chiaramente nell’arte mnemonica di Bruno c’era magia, e una magia di tinta ben più oscura di quella in cui si era avventurato Camillo. […]

All’inizio delle Ombre troviamo una conversazione tra Ermes, Philotimus e Logifer circa il libro di Ermes che si accinge a presentare, il libro sulle Ombre delle idee che contiene l’arte ermetica della memoria. Logifer, il pedante, protesta che opere come questa sono state dichiarate inutili da molti sapienti dottori.

Il teologo dottissimo, il patriarca sottilissimo delle lettere, Maestro Psicoteo, ha dichiarato che nulla di buono può essere ricavato dalle arti di Tullio, Tommaso, Alberto, Lullo ed altri oscuri autori.

Le proteste di Logifer sono ignorate e il libro misterioso offerto da Ermes viene aperto.
Il pedante dottore, «Maestro Psicoteo», ha preso posizione contro l’arte della memoria, che ora sta cadendo in disuso fra gli studiosi umanisti alla moda e gli educatori. Il dialogo che introduce le Ombre si inserisce storicamente nell’età in cui la vecchia arte di memoria è in dissoluzione. Bruno difende appassionatamente l’arte medievale di Tullio, Tommaso e Alberto contro i detrattori moderni, ma la versione dell’arte medievale che egli presenta è passata attraverso la metamorfosi rinascimentale. È diventata un’arte occulta, sotto il patrocinio di Ermete Trismegisto. […]

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La versione bruniana dell’arte di memoria trasformata in senso ermetico sorse indipendentemente da quella di Camillo e in circostanze del tutto diverse.
Quali furono queste circostanze? C’è, in primo luogo, la questione, che dovrò lasciare insoluta, circa quello che può essere o non essere accaduto in relazione con l’arte della memoria nel convento domenicano di Napoli. Nel tardo Cinquecento il convento era in uno stato di grande disordine e irrequietezza, e non è impossibile che un po’ dell’eccitazione fosse dovuto alle modificazioni rinascimentali dell’arte della memoria domenicana.

Le regole mnemoniche di Tommaso d’Aquino sono accuratamente strutturate in modo da escludere la magia, sono accuratamente aristoteliche e razionalizzate. Nessuno, seguendo le regole di Tommaso nello spirito in cui erano state concepite, avrebbe potuto volgere l’arte di memoria in un’arte magica. Era divenuta, sì, un’arte devozionale ed etica, un aspetto, questo, su cui egli aveva posto l’accento, ma l’arte, come egli la raccomandava, non era certo un’arte magica. Tommaso condannava con fermezza l’Ars notoria, l’arte di memoria magica del Medioevo, e la sua adozione delle regole mnemoniche di «Tullio» è esposta con grandissima cautela. […]

Dobbiamo ricordare però che Bruno, benché ammirasse Tommaso d’Aquino, lo ammirava come mago, probabilmente riflettendo una tendenza del tomismo Ombra-Ideerinascimentale, sviluppata in seguito da Campanella, che è, a sua volta, un campo di studio ancora non lavorato. E ancora più fondato è il sospetto che nutrisse un’ammirazione intensa per Alberto Magno come mago, perché Alberto tende verso questa direzione. Quando Bruno fu arrestato, si difese dall’accusa di possedere un’opera sulle immagini magiche capace di incriminarlo, osservando che essa era raccomandata da Alberto Magno. […]

Il lettore delle Ombre avverte subito il gran numero di volte in cui è ripetuta la figura di un cerchio segnato con trenta lettere. In alcune di queste figure appaiono cerchi concentrici, segnati con le trenta lettere. Parigi, nel Cinquecento, era il più importante centro del lullismo in Europa e nessun parigino poteva mancare di riconoscere questi cerchi come le famose ruote combinatorie dell’arte lulliana.

Gli sforzi rivolti a trovare una via di conciliazione fra l’arte classica della memoria, con i suoi luoghi e le sue immagini, e il lullismo con le sue figure e le sue lettere mobili, avevano continuato a crescere d’intensità nel tardo Cinquecento. Il problema deve aver suscitato parecchio interesse generale, paragonabile all’interesse oggi diffuso per i cervelli elettronici.
Garzoni nella sua popolare opera, la Piazza universale (1578), manifesta la sua ambizione di formare un sistema di memoria universale, che combini Rosselli e Lullo. Se un outsider, un laico come Garzoni, coltivava una simile speranza utilizzando il manuale sulla memoria pubblicato dal domenicano Rosselli, quanto più doveva aspettarsi di saper produrre la macchina della memoria universale un uomo ben addentro come Giordano Bruno. Educato come domenicano, esperto come lullista, era senza dubbio il grande specialista in grado di risolvere finalmente il problema.

Dobbiamo aspettarci di trovare che il Lullo di Bruno è il Lullo del Rinascimento, non quello medievale. Il suo cerchio lulliano porta impresso un maggior numero di lettere ruote-lullianeche in qualsiasi genuina arte lulliana, e un certo numero di lettere in greco e in ebraico, che non sono mai usate nel lullismo genuino. La sua ruota è più vicina a quelle che si possono vedere nei diagrammi alchemici pseudo-lulliani, i quali a loro volta fanno uso di alcune lettere che non appartengono all’alfabeto latino. E Bruno, appunto, quando elenca le opere di Lullo, vi include come autentico il De auditu kabbalistico.

Queste indicazioni suggeriscono che nell’idea bruniana del lullismo confluiscono un Lullo alchimista e un Lullo cabalista. Ma il Lullo di Bruno è ancora più singolare e più remoto dal Lullo medievale di quel che appare nel normale lullismo rinascimentale. Egli asseriva, con il bibliotecario dell’abbazia di San Vittore, di capire il lullismo meglio ancora dello stesso Lullo, e certamente nell’uso che Bruno fa dell’arte, ce n’è più che a sufficienza per sgomentare un lullista genuino.

Perché Bruno divide in trenta segmenti le sue ruote lulliane? Egli pensava certamente secondo filze di nomi o di attributi, perché tenne lezioni a Parigi (lezioni che non ci sono state conservate) sui «trenta attributi divini». Bruno era ossessionato dal numero trenta. Non solo tale è il numero basilare nelle Ombre, ma nei Sigilli ci sono trenta sigilli, nelle Statue trenta statue, e trenta «vincoli» nel suo lavoro sul modo di stabilire rapporti coi demoni.
L’unico passo nei suoi libri (per quel che ne so), in cui discute il proprio uso dei «trenta» è nel De compendiosa architectura artis Lullii, edito a Parigi nello stesso anno delle Ombre e della Circe. Qui, dopo avere elencato alcune delle dignità lulliane, Bontà, Grandezza, Verità, e così via, Bruno le assimila alle Sefirot della Cabala: «Tutte queste [cioè, le dignità lulliane] i cabalisti ebrei le riportano a dieci Sefirot e noi a trenta…» (De vinculis in genere).ruote-bruniane

Pensava dunque ai «trenta» su cui basava le sue arti come dignità lulliane, ma cabalizzate in Sefirot. In questo passo, Bruno respinge l’uso cristiano e trinitario che Lullo ha fatto della sua arte. Le dignità divine, dice, rappresentano realmente il nome in quattro lettere di Dio – il tetragramma – che i cabalisti assimilano ai quattro punti cardinali del mondo e poi, attraverso una moltiplicazione successiva, a tutto l’universo.

Certo, non è chiaro come, da questo, egli arrivi a trenta, benché, a quanto pare, questo numero fosse particolarmente associato alla magia. Un papiro magico greco del secolo IV dà un nome di Dio di trenta lettere. Ireneo, quando tuona contro le eresie gnostiche, ricorda che si pensava che Giovanni Battista avesse avuto trenta discepoli, un numero che suggerisce i trenta eoni degli gnostici. Anche più suggestivo di profonda magia è il fatto che il numero trenta fosse associato a Simon Mago.

Per parte mia sono incline a pensare che la fonte immediata di Bruno fosse probabilmente la Stenographia di Tritemio, in cui sono elencati trentuno spiriti con le formule per evocarli. In un estratto di quest’opera fatto più tardi per Bruno, l’elenco diventa di trenta.
Fra i contemporanei di Bruno fu interessato al valore magico di trenta John Dee. La Clavis angelica di Dee fu pubblicata a Cracovia nel 1584 (due anni dopo le Ombre di Bruno, da cui, quindi, l’opera potrebbe essere stata influenzata). La Clavis angelica descrive il modo di evocare «trenta ordini buoni di principi dell’aria», che dominano su ruota-trentatutte le parti del mondo. Dee dispone trenta nomi magici su trenta cerchi concentrici e si impegna nella magia rivolta a evocare angeli o demoni.

Più volte, nelle Ombre, Bruno ricorda una sua opera chiamata Clavis magna, che o non è esistita, o non ci è giunta. La Clavis magna potrebbe aver spiegato il modo di usare le ruote lulliane come scongiuro per radunare gli spiriti dell’aria. Perché è questo, credo, uno dei segreti dell’uso delle ruote lulliane nelle Ombre. Proprio come trasforma le immagini dell’arte classica della memoria in immagini magiche delle stelle, da utilizzare per raggiungere il mondo celeste, così le ruote lulliane sono trasformate in «Cabala pratica», cioè in scongiuri per raggiungere, di là dalle stelle, demoni o angeli.

Il brillante successo di Bruno nel reperire una via per combinare l’arte classica della memoria con il lullismo si fondava, quindi, su una «occultizzazione» spinta agli estremi, sia di arte classica sia di lullismo. Egli pone le immagini dell’arte classica sulle ruote combinative di Lullo, ma le immagini sono immagini magiche e le ruote sono ruote per gli scongiuri.

Nel mondo in cui apparvero per la prima volta, le Ombre devono essersi inserite in certi schemi ben noti. Ma non consegue da ciò che esse non abbiano suscitato sorpresa. Al contrario, proprio perché il lettore contemporaneo aveva chiaro il senso delle operazioni che Bruno stava tentando, doveva anche rilevare subito la sua fiera rinuncia a ogni salvaguardia e cautela.
Ecco un uomo che non si arrestava davanti a niente, che avrebbe usato ogni procedimento magico, per quanto pericoloso e vietato, pur di raggiungere l’organizzazione della psiche dall’alto, per mezzo di contatti con i poteri cosmici. Questo era stato il sogno del decoroso e ordinato Camillo; ora Giordano Bruno lo perseguiva con audacia ben più allarmante e con metodi infinitamente più complessi.

(Yates, L’arte della memoria)

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Giordano-Bruno-fiamme

Sappiamo, per averlo egli stesso confessato nei suoi Eroici furori, quale fu il grande, e tardivo, pentimento di Giordano Bruno: di aver consumato invano nei labirinti delle scienze la sua «dote di poesia». Di essersi cioè sprecato a parlare la «lingua dei filosofi» anziché assecondare la sua musa.
Tutta la vita, Giordano Bruno la passò sui libri. La sua unica grande passione fu la lingua dei libri. Il suo ambizioso sogno: trovare la chiave della Lingua Universale. Giordano Bruno era «domenicano» e questa «folle» cerca era il suo modo di «contattare», se non direttamente Dio, quantomeno gli «spiriti» da Lui inviati alla porta della sua anima. Questa fu la sua «eresia» poetica. Che peccato, essersi ridotto a renderla in prosa, e a farla competere con i dogmi di santa romana chiesa degli Inquisitori!

È come quando uno ci sta molto vicino alla sua meta. A volte perfino la passa e va oltre, senza però riconoscerla.
Qualcosa del genere capitò anche a Giordano Bruno: egli era così dentro il problema della Lingua (oggi diremmo: il Problema dei problemi inconsci), che l’ultima sciocchezza che avrebbe dovuto fare era di illudersi di poterla padroneggiare – era la sciocchezza che tardivamente lui stesso non si perdonava d’aver fatto: quella cioè di non aver visto d’essere a tal punto «posseduto» dalla Lingua, da credere alle sue promesse «magiche», alle magie dei suoi «concetti», a tal punto «chiacchierone» – possiamo aggiungere noi – da finire nelle mani di Quelli che della Chiacchiera Teologica pretendono di essere già i Duchamp-grande-vetropadroni, in quanto delegati del padreterno!

La sciocchezza di credere nientemeno in un’«arte della Memoria Universale», quando invece, lui stesso lo confessa, non era questo il richiamo con cui la Lingua l’aveva adescato. Non c’era niente di «concettuale» in quel richiamo, niente di «logico» nel suo suono, niente di «significativo» o di «volontario» nel suo ascolto.
Avrebbe dunque dovuto concedersi al piacere d’essere posseduto dalle magie di Circe, ecco quale fu il tardivo rimpianto di Giordano Bruno – magari si fosse lasciato andare solo al richiamo dei «poeti» della Lingua, solo dei suoi «maghi ingenui», anziché domenicana mente addottrinarsi di filosofemi e catechismi vari, nel tentativo di padroneggiarli!

Ma padroneggiare, in fondo, che cosa? Solo dei «concetti»? Al più, delle «dignità», dei «gradi», dei «cieli», nonché certi «climi» promessi alla contemplazione: ma di lassù, poi, per contemplare chi, che cosa? Solo, nel migliore dei casi, la propria irriducibile differenza… che brucia sul rogo acceso, e con che fervore, dai Proprietari di turno dei concetti e delle idee legali?
No, se non avesse abdicato alla sua vena poetica, Giordano Bruno non si sarebbe disperso in tanti libri di magia. Non si sarebbe confuso con tanti stregoni e fattucchieri. Fu il suo sbaglio – non concedere uno sfogo «poetico» al suo furore: la Poesia era il solo «eroismo» che aveva avuto a portata di mano. Avrebbe potuto attraversare eroicamente la Lingua… solfeggiandola. Sarebbe stata tutt’altra cosa che dover rispondere dei fatti suoi, delle sue «verità», davanti al tribunale delle «autorità».

Che importa al Poeta se dio è uno e trino? Se è o no di dio la Voce a cui vorrebbe consacrare la sua?
Guai a infatuarsi della Lingua, senza saper distinguere il Suono, e i Toni, e i Modi «musicali», dal Significato, dal Concetto, dal Nome e dall’Attributo.
Come Raimondo Lullo, e più di lui, Giordano Bruno affondò nell’errore della sua, come di ogni altra, «prosa»: quello di pensarsi intelligente, spirituale, e capace di memoria – piuttosto che erotica, spiritosa, e capace di «eroico furore».