Colli – Il gioco violento di Dioniso

L’«espressione» è, secondo Colli, la sostanza – nomen est substantia, si diceva una volta alla Sorbona – l’«espressione», in quanto allusione a qualcosa che le rimane immancabilmente nascosto, a qualcosa «che sta sotto» ogni sua possibile Leon-Dionisorappresentazione, può essere prossima finché si vuole alla soglia dell’«immediatezza», ma sempre è impotente a dire l’«inesprimibile». E ciò perché essa scorre, o meglio ancora: discorre, si fa man mano sempre più discorsiva fino a perdersi nel Discorso ogni volta che, fluendo, si allontana da quella soglia. E, viceversa, quando «rifluisce» alla volta del suo Passato Analfabetico, eccola – come il salmone – risalire controcorrente fino alla sorgente della sua propria «discorsività».

Per quanto «indietro» rifluisca, l’«espressione» però non riuscirà ovviamente mai a passare la soglia da cui ha preso avvio. Non plus ultra – sulla soglia, al limite a cui sconfina nell’«inesprimibile», ogni «espressione» affonda. Il Racconto dice: nessuna nave può navigare più «in là delle Simplegadi», – nessun numero, commenta il Filosofo, è pensabile più «arcaico» della Diade.
La memoria può dunque «retrocedere» fino a figurare un simbolo con cui «rappresentarsi» quel vuoto, quella soglia – che Colli ama chiamare del «contatto». Insomma: fin dove essa fu «contattata» e, insieme, «separata» dalla sua «incoscienza», o come dice l’etologo, dal suo «istinto» di Specie.

Quel «vuoto irrappresentabile», quella Terra bruciata, quella Via Lattea – è il sentiero che l’espressione ha dovuto abbandonare per potersi «esprimere». E perciò neanche la più poetica, la più artistica delle espressioni potrà mai guidarci fin oltre il «muro di fiamme» di un empireo immaginale e/o verbale. E ancor meno utile sarebbe seguire «il cammino del logos»: perché c’è qualcosa di insensato, una pura «insensatezza» alla sorgente della nostra «logica».

E per sapere, per prendere consapevolezza di questa «illogica» premessa del nostro «logos», servirebbe semmai, dice Colli, una «restaurazione artistica» del proprio Passato – un gesto, un atto, o una vaga immagine che, insieme, sia la sintesi e la metafora di tutto il viaggio (flusso e riflusso, andata e ritorno) delle proprie «espressioni» seconde. Servirebbe, insomma, più il delirio d’uno Zarathustra che la dialettica sapienza di un Hegel. Più il romanzo di un filosofo «impazzito» che l’inattaccabile fortezza di uno Spirito Assoluto – di una rappresentazione «assolta» a priori da ogni relazione con la «follia» dell’Uomo.

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Gauguin-Maruru

Il riflusso dell’espressione termina là dove il moto di flusso prende inizio, nel contatto metafisico. Seguendo il riflusso con memoria retrocedente, è possibile figurare un simbolo rappresentativo del contatto, dove la guida sia fornita più da una restaurazione artistica che dal cammino del logos.

Il mondo dell’apparenza viene scoperto allora come la ripercussione di una inadeguatezza nel profondo, di uno sforzo ostacolato. La rappresentazione ha come genere la relazione: ma la relazione suprema ha come fulcro, come nascimento, qualcosa che trascende la rappresentazione.
Dapprima si unificano gli attributi più vibranti, gli ultimi sedimenti della vita primordiale. Questa confusione è una coincidentia oppositorum: qui, parlando con Eraclito, sazietà e manchevolezza sono una cosa sola, e tutto ciò, nella sfera del logos, si riflette come categoria della contingenza.

Più in alto, al vertice del simbolo, sta il fulcro di ogni relazione. Un comando gratuito: l’arbitrio, la casualità, il gioco – di una sferza, di un’autorità, di un vincolo, di una violenza, di una magistratura, di una sovranità, di un primo principio. Ogni dualità si Kay-Sage-fantasmiraccoglie nel termine arkhé, dove «il nascimento comanda».

In vetta il simbolo prende il nome di Dioniso. In lui il simbolo accenna alla casualità e la restaurazione alla necessità.
Dicono i testi orfici: «Efesto fece uno specchio per Dioniso, e il dio, guardandovi dentro e contemplando la propria immagine, si gettò a creare la pluralità»; e ancora: «Dioniso, posta l’immagine nello specchio, a quella tenne dietro e così fu frantumato nel tutto».
Ma il simbolo è manifestato imperfettamente da queste testimonianze neoplatoniche. Lo specchio non soltanto è un’indicazione della natura illusoria del mondo, ma dalla nascita di questo esclude ogni idea di creazione, di volontà, di azione. Tutto è fermo: la vita e il fondo della vita sono un dio che si guarda allo specchio.

Ma Dioniso è un fanciullo. Ancora gli Orfici dicono: «nonostante sia giovane e fanciullo tra gli invitati» e «era fanciullo Iacco». E passatempi di fanciullo sono i suoi attributi, la trottola, la palla, i dadi.
Nell’insondabile c’è un gioco di violenza, che è l’arkhé: in questa è un comando che è una sospensione. Ciò che è godimento di un impulso è anche sofferenza di un’oppressione: questa ambiguità, questa oscurità su di sé è intollerabile, la pena di questa coincidenza stabilisce il comando di chiarificazione, è lo specchio che divide gioia da dolore.
Il fanciullo Dioniso accenna allo stato originario, che nella sua complessità meglio è designato dall’espressione eraclitea «reggimento di un fanciullo».

Il comando giocondo, arbitrario, casuale si biforca nell’espressione attraverso le categorie del necessario e del contingente. Nell’arkhé dev’essere presente anche la sospensione, il librarsi, il lasciare indeciso, perché quella coincidenza non può mai essere superata.
Quindi la legge suprema che traduce nella sfera delle espressioni seconde questa natura distaccata dell’arkhé dovrà essere un comando alternativo, poiché l’alternativa è l’unica forma in cui la dualità di gioco e violenza può essere sottoposta a un comando.

Carrington-strega

Nell’alternativa il gioco continua appunto a sussistere nell’incertezza della decisione, e c’è anche il comando nella violenza di escludere altre possibilità. Fuori del logos gioco e violenza sono inscindibilmente commisti, ed è proprio il radicale specchio di Dioniso che, riflettendo questo contenuto magmatico, lascia scorgere nella sua superficie le immagini chiarificate dell’apparenza, rette dal dominio alternativo tra il necessario e il casuale.

Di contro a Dioniso, ancora è una divinità orfica il simbolo dell’espressione: Phanes il manifestante, l’apparente, il rifulgente. Il mondo inteso come splendore di ciò che è nascosto.
A ciò si aggiunga il vocabolo magico aión, che corre nella tradizione greca dalle origini al tramonto. Dice Plotino: «L’aión è il dio che manifesta e rivela se stesso quale è, è l’essere in quanto privo di tremore», e quest’ultimo è un aggettivo parmenideo.

(Colli, La filosofia dell’espressione)

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È, dunque, nel moto di riflusso – è nel ritornello che riconduce il salmone alle acque del suo «nascimento» – è nel ritorno del Rimosso, nel «moto retrogrado» alla Sorgente (non nel battere, ma nel levare, dice il musicista; non nella percussione, ma nella Dalì-cabaretripercussione della sua eco) che l’espressione riscopre il fondo nascosto dell’Apparente – Dioniso sotto Apollo, Dioniso «sostanza», insieme ludica e crudele, di ogni apollinea illusione di Bellezza.
Dioniso smaschera, svela – l’antefatto oscuro che prelude a ogni partorizione di miraggi «narcisistici»: rivisti dalla visuale «dionisiaca», essi infatti si rivelano per quel che realmente sono: nient’altro che tardivi «riflussi» di una libido morta assieme all’incoscienza di Narciso, nient’altro che avanzi di una lussuria ormai «desessualizzata» e ridotta a sopravvivere nelle modeste proporzioni e ambizioni dei nostri «genitali».

C’è, nel nostro profondo, una «inadeguatezza», un sentirci «impari» al nostro proprio essere, una «insufficienza» – Colli l’aveva già detto ma adesso lo ribadisce – c’è, laggiù, sul fondo, una «contrazione» del nostro essere: ebbene, è questa «infermità» che ci spinge come smarriti a chiedere asilo ai miraggi dell’Apparente. Uno «sforzo ostacolato», una via impedita, uno «scacco matto» patito al tempo dell’«immediatezza» (penso al filo l’erba che l’etologo mette di traverso sulla strada delle formiche), ed eccoci… costretti a fare i conti con la Madre di tutte le relazioni – con la Relazione che ci «devia» dalla Via Lattea: quella tra Eros e Thanatos.

La prima relazione (quella «narcisistica» con la propria immagine), il primo «tra due» – è questo il limite, il non plus ultra di ogni rappresentazione.
Due rocce cozzanti, minimo numero – due «serie di immaginazioni» distinte ma casualmente convergenti, due tra le corde più vibranti – dicono: il Bisonte e il Cavallo, o anche il Diavolo e l’Acqua Santa – ciascuna dalla sua distanza risuonò nell’eco dell’altra, Eros svuotato della sua vitalità rifluì nell’onda periodica di Thanatos, e Fame e Sazietà, Ricchezza e Povertà, si confusero in un solo gioco: in una pazziella in cui perfino la Necessità si lasciasse tirare a sorte. M’ama… non m’ama…?

Solo a parole, la cavallina (storna?) alla fine «s’innamora» delle corna del bisonte. Sembra un colpo di fulmine, una pura fortuita vincita al gioco degli inganni e delle seduzioni, ma se così sembra è solo nei limiti del linguaggio della rappresentazione: Tanguy-estinzione-luci-inutiliinadeguata com’è, essa infatti sa rappresentarsi la Necessità, ma solo oscurata dall’apparizione di un’altra Potenza – la Bellezza del contingente, la Sorpresa del casuale, lo Splendore dell’Insolito.
Ma l’Apparenza che la rappresentazione mette in scena, e il fascino che ne promana, non è che il termine manifesto di una relazione «d’amore» postuma a Narciso, di una tardiva relazione sopravvissuta alle rovine di Eros, di una relazione smemorata e tenuta «sotto scacco» da Thanatos.

Dioniso è appena nato – dice il Racconto – e intorno alla sua culla già i Titani complottano per la sua «morte». È da subito che Thanatos s’aggira nel mondo delle sue contemplazioni inconsce. Al suo sguardo «infantile» la morte si confonde coi suoi giocattoli.
Venite a giocare da noi! – dicono i Signori di Xibalbá a tutti i bambini del mondo. I Signori della Morte li chiamano al Gioco.

La Bellezza «nasconde» la Morte, finge di non «vedere» la Realtà nuda e cruda. Si scorda del suo «terribile» Passato. Apollo omette Dioniso. Apollo promette Amore. Apollo rimette tutti i suoi Amati al destino di morte. Apollo li ama di un amore già morto, già «desessualizzato». Di un amore già fallito al tempo dello specchio