Puech – Significazione e Rappresentazione

Il solo compito che – perlopiù a sua insaputa – tocca al filosofo, è forse di tradurre secondo un’impostazione logica e di coordinare in un insieme le esigenze che emergono da quanto vi è di più profondo e originale nella sua epoca, di far emergere la visione che Hamori-madonna-bambinoquell’epoca ha del mondo, con le domande – e le risposte implicite in tali domande – che una tale visione comporta.

Si può sostenere – quanto meno per il nostro tempo [1934] – che in tale espressione la pittura sopravanza la metafisica. Un privilegio, questo, dovuto indubbiamente alla maggiore facilità che ha il pittore di trasmettere e imporre immediatamente e globalmente la sua percezione delle cose, e consentito dalla purezza della materia di cui dispone, in quanto il colore non trascina con sé, come la parola, quel carico di comprensioni tradizionali e miscellanee che si richiamano a «sistemi universali» imprecisi o superati e danno adito ai peggiori malintesi fra scrittore e lettore. La parola, svantaggiata dalla sua storia, è uno strumento incrostato, mentre il colore è restituito ogni volta alla sua dignità primitiva, alla sua nettezza originaria.

La pittura moderna, dal cubismo in poi, pone la questione fondamentale della rappresentazione, e questo in modo tanto più clamoroso in quanto la pittura è appunto l’unico ambito in cui tale questione pareva che non dovesse porsi.
La domanda: «Che cosa rappresenta questa tela?» presuppone infatti nello scandalizzato visitatore delle esposizioni un’esigenza più ampia: «Perché io capisca, occorre che io mi rappresenti». E questo può significare soltanto: «Non desidero che ritrovare qualcosa di abituale, poiché l’uso e la familiarità mi danno l’illusione della comprensione, neppure anzi mi richiedono alcuno sforzo di comprensione», o in conclusione: «Credo che qualsiasi realtà, che la Realtà sia suscettibile di essere rappresentata, di offrirsi al mio sguardo, su scala più o meno grande, come un quadro o uno spettacolo analogo a quello che mi offre la mia percezione normale». Il quadro deve rappresentare una realtà e, inversamente, la realtà potrà essere rappresentata alla maniera di un quadro di dimensioni più o meno ampie.

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Questo postulato è sembrato legittimo fintantoché si ritrovava alla base della scienza e della metafisica. La realtà che si cercava di raggiungere si presentava sempre come un quadro visibile in fondo ai telescopi o ai microscopi. L’atomo stesso era un punto che, per quanto risultasse minimo o evanescente all’immaginazione, si prestava tuttavia a una concezione figurata.
L’universo in tutta la sua ampiezza si stagliava come uno spazio puro che fungeva da tela o da schermo, e l’Essere assoluto del metafisico stesso – per quanto sottile sia la pellicola che lo separa dal Nulla – continuava a essere quel biancore più o meno evanescente che fa da sfondo allo svolgimento o all’osservazione degli spettacoli più astratti.

D’altra parte spiegare o comprendere equivaleva a rappresentarsi le cose come sistemi di vari pezzi, come combinazioni di elementi immaginate in ultima analisi sotto forma di complessi organici o meccanici, sul familiare modello del corpo vivente o della macchina artificiale.
In tal modo si attuava la coordinazione dell’uomo al reale e del reale all’uomo: donde il sentimento di fiducia, l’ottimismo razionalistico.

Non era infatti soltanto «l’universo a misura dell’uomo», ma anche «l’universo, misura dell’uomo»: l’uomo, cioè, per un bisogno elementare di salvezza, cercava di situarsi in un insieme che lo comprendesse e che fosse da lui compreso, e non riusciva a rappresentarsi Gris-bicchiere-birraa se stesso che nella misura in cui si rappresentava l’universo.
In ogni modo, non vi era divorzio tra la realtà e l’uomo, bensì vi era corrispondenza fra un macrocosmo e un microcosmo, ovvero identità dell’Essere e della Rappresentazione, comunione del mondo oggettivo e del soggetto in seno a un qualche cosa che in definitiva si sarebbe rivelato come suscettibile di essere rappresentato.

Le cose hanno cominciato a guastarsi allorché la filosofia e la scienza moderne si sono arrischiate a collegare il tempo allo spazio, implicandoli essenzialmente fra loro e non più in quanto due dimensioni simmetriche.
Primo scacco dell’ideale di rappresentazione: è difficile rappresentarsi un evento, se non respingendolo nel passato o – che è lo stesso – astraendo dalla sua sostanza temporale, stendendolo invece su uno sfondo di spazio e considerando in esso soltanto la sua trama spaziale. Soprattutto, se l’intera realtà è racchiusa in quel nodo dello spazio e del tempo che è l’evento, diventa illegittimo cercare d’immaginare tutto ciò che può apparire o ciò che può costituire il reale in funzione di uno sfondo immutabile che, bloccando la visione e formando uno schermo, permetterebbe la rappresentazione. In un «universo-evento», gli eventi non possono svolgersi all’interno di una sfera di universo stabile tale da assicurare al di là del fenomeno, e in qualità di contenente, un sistema di riferimenti invariabili.

Secondo scacco più grave e che si approssima al fallimento: i recentissimi avanzamenti della fisica sembra che non consentano alla rappresentazione di trovare un «invariante» al di qua della realtà apparente, nell’elemento del contenuto. Il solido si dissolve e si risolve in liquido, la materia in radiazione, l’atomo in pacchetti d’onde. L’esatta definizione dei confini del reale lascia il posto a una più vaga considerazione d’insiemi più o meno arbitrariamente circoscritti: il determinismo rigoroso, confrontato con un conteggio di probabilità che si sforza di venire a patti col caso, svanisce.
Ormai, al di qua dei punti di riferimento – adesso aboliti – che l’atomo offriva alla rappresentazione ultima delle cose, non c’è più – e questo significa ancora aggrapparsi a un immaginario brandello d’immagine – nient’altro che la mareggiata lenta e indeterminata delle ondulazioni dello spazio o di qualcosa che potrebbe ancora rassomigliare allo spazio puro, all’estrema espressione del reale.

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Da parte sua, la psicoanalisi esclude ogni speranza di una rappresentazione dell’uomo in ragione di categorie eterne, di un uomo la cui anatomia interiore potrebbe essere smontata e rimontata da una «psicologia generale».
Ciò che nell’uomo è reale, è ciascun uomo, cioè il complesso di eventi, di accidenti, di singole associazioni che si trascina appresso. L’individuo è una storia presente in lui, e che non è che per lui stesso; essa esiste soltanto secondo modalità proprie di ciascuno e che agiscono come forze, escludendo dal loro «contenuto latente» qualsiasi rappresentazione.

D’altronde, le filosofie realiste o «esistenziali» sostituiscono alla rappresentazione, fondata sulla contrapposizione di un oggetto-spettacolo e di un soggetto-spettatore, l’idea – se ancora di un’idea si tratta – di una presentazione reciproca del reale e dell’uomo, di una presenza avvertita, ma ribelle a qualsiasi proiezione obiettiva, distaccata da chi la sperimenta.

Questa convergenza di diverse speculazioni – e che si potrebbe illustrare con altri esempi tratti appunto dalla pittura e dalla poesia contemporanee – non si può ritenere superficiale: al contrario, in una delle sue posizioni fondamentali essa definisce l’attuale più puro – quell’attuale che è quanto può esservi di eterno nella nozione di moderno.
Il reale nella sua realtà non può essere oggetto di rappresentazione.
Non lo si può maneggiare se non con mezzi estremamente complicati, esprimerlo se non con simboli tecnici sempre più astratti, eppure quando questo avviene è una fuga Alromeadheen-spazioindefinita dalla realtà che si pone come prospettiva, ogni volta al di là del provvisorio punto d’arrivo dello studioso.

In altri termini, pare che vi sia uno scacco fra l’uomo vivente e l’uomo sapiente, fra la rappresentazione che l’uomo si costruisce quotidianamente di se stesso e dell’universo, pratico e familiare, che lo circonda e, d’altra parte, la realtà in cui perviene tutt’al più a immaginare di essere qualche cosa e in cui la scienza gli procura soltanto più una gloria astratta o l’agevole possibilità di un procedimento tecnico.

Proprio questa scissione ci obbliga, penso, a riformulare le esigenze che usiamo raccogliere sotto i termini di comprensione o di spiegazione.
Di qui deriva il singolare interesse dell’arte contemporanea. La rappresentazione si svincola dalla servitù alla realtà apparente che sarebbe tenuta a riprodurre: parole, immagini, associazioni, linee, colori, ecc., sono in libertà, ovvero la loro sovrapposizione e la loro successione traggono legge e significato unicamente dal complesso in cui si inseriscono – impressione globale del componimento poetico, totalità chiusa su se stessa del quadro – senza necessariamente fare riferimento a qualcosa di esterno.

Ma anche il reale è svincolato dalla rappresentazione. Il quadro e la poesia, se tendono ad esprimere il reale, possono farlo uscendo dall’universo ristretto e convenzionale della pratica e sotto un aspetto non riducibile al rappresentabile.
L’oggetto artistico sarà piuttosto presentazione che non rappresentazione, manifestazione o sistema di forze significative. Il quadro – per attenerci a esso – non va più paragonato a una copia più o meno idealizzata, ma a un oggetto magico o a un simbolo mentale, carico fino in fondo di potenzialità simpatiche, sia che faccia emergere delle forme impostegli la struttura propriamente espressiva, sia che liberi e manifesti delle virtualità oscure ma energiche della nostra realtà subcosciente e della nostra vita concreta, totale e nuda. Così può essere, in egual misura, realismo e simbolo.

La tela – o la pagina – non ha il compito di rappresentare e nemmeno di suggerire – nel senso banale del «simbolismo» –, bensì deve imporre e agire: lo spettatore – o il lettore – non deve rappresentare a se stesso, ma subire, a costo, se gli pare, di descriversi o di Monet-donna-con-parasoledescrivere con l’ausilio di analoghe trasposizioni, questa impressione o comunione globale.

Significazione contro Rappresentazione, o Rappresentazione puramente significativa: qui convergono nuovamente, secondo una impostazione che è risolutiva del problema proposto, le speculazioni a cui dianzi alludevo.
Descrizione fenomenologica, filosofia realista, tecnica psicoanalitica, mentre cercano di comprendere, non cercano di rappresentarsi, ma di scoprire quegli aspetti o quelle azioni significativi che formano il reale: massa sorda e cieca dell’Essere in cui ci muoviamo, ma a cui aderiamo; sentimento della presenza del mondo e di altro a me stesso, o di me stesso ad altri e al mondo, o di me stesso a me stesso; «contenuto manifesto» il cui senso non sta nella sua conformazione apparente, ma nelle opache energie che sottendono i suoi simboli.
Non vi è qui più nulla che possa staccarsi dall’esperienza stessa e offrirsi come spettacolo puramente oggettivo. Non vi è comprensione che non sia partecipazione simpatica.

La convergenza è abbastanza vasta da permettere una generalizzazione. Questa forse concluderebbe a una rivoluzione totale nel nostro atteggiamento nei confronti del reale, nella nostra «visione del mondo» – che, d’altra parte, non può più essere una visione.
Avviso ai metafisici. A posteriori, potrebbe così sembrare che essi conferiscano all’arte dei nostri giorni la sua giustificazione. Ma di tale giustificazione, l’arte ha mai avuto bisogno?

(Puech, Sul manicheismo)