Nietzsche segnalò la radice della situazione nichilistica con la frase «Dio è morto», indicando innanzitutto il Dio cristiano.
Gli Gnostici, se richiesti di riassumere in modo simile la base metafisica del loro nichilismo, avrebbero detto semplicemente «il Dio del cosmo è morto», ossia è morto come dio, ha cessato di essere divino per noi, e perciò di fornirci la stella polare per le nostre vite.
La catastrofe è in questo caso senz’altro meno totale e perciò meno irrimediabile, ma il vuoto che ha lasciato, anche se non così abissale, non era meno profondamente sentito.
Per Nietzsche il significato di nichilismo è che «i più alti valori sono svalutati» (o invalidati) e la causa di tale svalutazione è «l’intuizione che non abbiamo la più piccola giustificazione per porre un aldilà o un “in sé” delle cose che sia “divino”, che sia la moralità in persona» (La volontà di potenza, §§ 2-3).
Questa affermazione, insieme con quella sulla morte di Dio, dà ragione all’idea sostenuta da Heidegger che «nel pensiero di Nietzsche i nomi Dio e Dio cristiano sono usati per indicare il mondo trascendente (soprasensibile) in generale. Dio è il nome per il regno delle idee e degli ideali» (Sentieri interrotti).
Poiché è solamente da questo regno che può provenire la natura normativa dei valori, il suo svanire, ossia la «morte di Dio», significa non soltanto la svalutazione dei supremi valori, ma anche la perdita di ogni possibilità di valori che obblighino come tali.
Per citare ancora una volta l’interpretazione di Heidegger del pensiero nietzschiano: «La frase “Dio è morto” significa che il mondo soprasensibile è senza forza effettiva».
In una maniera modificata, alquanto paradossale, questa affermazione si applica anche alla posizione gnostica. È pur vero che il suo estremo dualismo è di per sé l’opposto di un abbandono della trascendenza. Il Dio trascendente la rappresenta anzi nella forma più radicale. In lui l’assoluto che è al di là traspare attraverso gli involucri cosmici che lo avvolgono. Ma tale trascendenza, a differenza del «mondo intelligibile» del platonismo o del Signore del mondo del giudaismo, non è in rapporto positivo col mondo sensibile. Non è la sua essenza o la sua causa, ma la sua negazione e cancellazione.
Il Dio gnostico, in quanto distinto dal demiurgo [creatore del mondo sensibile], è il totalmente altro, lo sconosciuto. In modo analogo al sé acosmico o pneuma che è il suo «corrispondente» all’interno dell’uomo, e la cui natura nascosta si rivela solamente nell’esperienza negativa di estraneità, di non-identificazione e di indefinibile libertà, questo Dio ha più del nihil che dell’ens nel suo concetto. Una trascendenza senza una relazione normativa col mondo equivale ad una trascendenza che ha perso la sua forza effettiva.
In altre parole, per tutto quel che riguarda la relazione dell’uomo con la realtà che lo circonda, questo Dio nascosto è una concezione nichilistica: nessun nomos emana da lui, nessuna legge per la natura e quindi nessuna regola per l’azione umana come parte dell’ordine naturale.
Su tali basi l’argomento antinomistico degli Gnostici è altrettanto semplice quanto quello di Sartre, per esempio. Poiché il trascendente è silenzioso, Sartre ne deduce che, visto che «non c’è alcun segno nel mondo», l’uomo, «l’abbandonato» e lasciato a sé, reclama la sua libertà, poiché l’uomo «non è altro che il suo progetto» e «tutto gli è permesso» (L’esistenzialismo è un umanesimo). Che tale libertà sia di un genere disperato ed essendo un impegno senza scopi ispiri timore anziché esultanza, è un’altra questione.
Quanto all’affermazione circa la libertà autentica dell’io, bisogna notare che tale libertà non riguarda l’«anima» (psyche), la quale è propriamente determinata dalla legge morale come il corpo lo è dalla legge fisica, ma riguarda interamente lo «spirito» (pneuma), il nucleo spirituale indefinibile dell’esistenza, la scintilla straniera.
L’anima è parte dell’ordine naturale, creata dal demiurgo per avvolgere lo spirito straniero, e secondo la legge normativa il creatore esercita controllo su ciò che gli appartiene legittimamente. L’uomo psichico, che può essere definito secondo la sua essenza naturale, per esempio come animale razionale, è ancora uomo naturale e tale «natura» non può condizionare l’io pneumatico più di quanto nella concezione esistenzialista qualsiasi essenza determinante possa pregiudicare l’esistenza che proietta liberamente se stessa.
Viene qui a proposito il raffronto con un argomento di Heidegger. Nella sua Lettera sull’umanesimo, Heidegger sostiene, contro la definizione classica dell’uomo come «animale razionale», che tale definizione pone l’uomo nell’ambito dell’animalità, specificato soltanto da una differentia che riguarda il genus «animale» come una particolare qualità. Questo, dice Heidegger, è porre l’uomo troppo in basso.
Non voglio insistere se non si celi qui un sofisma verbale nel modo di argomentare sul termine «animale» come usato nella definizione classica («animale» in greco non significa «bestia» ma «essere animato», compresi i demoni, gli dèi, le stelle animate, perfino l’universo animato come un tutto). L’importante per noi è il rifiuto di qualsiasi «natura» definibile dell’uomo che assoggetterebbe la sua esistenza sovrana ad un’essenza predeterminata e lo renderebbe parte di un ordine oggettivo di essenze nella totalità della natura.
In tale concezione di un’esistenza trans-essenziale, «che si proietta liberamente», mi sembra di notare qualcosa di paragonabile alla concezione gnostica della negatività trans-psichica del pneuma.
Ciò che non ha natura, non ha norma. Soltanto ciò che appartiene a un ordine di nature – sia esso un ordine di creazione o di forme intelligibili – può avere una natura. Solamente dove c’è un tutto può esserci una legge.
Nella discutibile concezione degli Gnostici ciò è valido per la psyche, che appartiene al tutto cosmico. L’uomo psichico non può fare altro che attenersi a un codice di leggi e cercare di essere giusto, ossia in senso proprio «aggiustato» all’ordine stabilito, e in tal modo svolgere la parte assegnatagli nello schema cosmico.
Ma il pneumatico, l’uomo «spirituale», che non appartiene ad alcuno schema oggettivo, è al di sopra della legge, al di là del bene e del male, ed è legge a se stesso secondo il potere della sua «conoscenza».
(Jonas, Lo gnosticismo)
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Dio è morto, e la sua «morte» non è un fatto né gnostico né esistenzialista: è un fatto umano, una morte che ci inizia, tutti indistintamente, a una vita da uomini.
Dio è morto, e dalle sue ceneri è sorto il mondo «apollineo». Dalle ceneri di Eros, dall’ultimo rigurgito della sua libido, attaccato alla coda delle ultime contemplazioni infantili, è venuto a prenderci Thanatos.
E chi altri mai sarebbe questo Signor Morte, se non Apollo il «distruttore» (sta scritto nel suo nome)? chi se non Apollo l’Abbagliante, Apollo che irrompe al solstizio dell’ultimo miraggio narcisistico?
Dio è morto, e dalle rovine ancora fumanti dei suoi templi, è sorta una nuova follia – la follia del giorno, la follia di dare credito alle «apparenze», alla luce, alla bellezza, e ai «venefici» colori dell’arcobaleno.
È morto il Re che regnava «ai tempi dell’immediatezza», il Re che «di lassù» contemplava il mondo prima della catastrofe – prima della nostra «seconda nascita», prima della nascita alla Parola «sociale» e alla sua Legge.
Quel Dio, quel Re, non è però morto una volta e per sempre. Egli muore e ha ancora da morire tutte le volte che in un cucciolo della nostra Specie giunge a scadenza la sua infanzia analfabetica. E allora in sua vece, nel Vuoto lasciato dal «defunto», nuovi dèi subentrano: gli Olimpici, i Signori del Giorno che, come Nietzsche ci suggerisce, devono tutti ad Apollo, e alla sua svolta «di luce», la loro esistenza. Gli Olimpici esistono dacché ci rimettiamo al Giorno, alla luce del Giorno e alla follia quotidiana dei nostri occhi.
Perciò per la «guarigione» ci serve in primis un buon Oculista, uno che sappia toglierci tutte queste belle schegge di vetro «apollineo» dagli occhi – consiglia dal canto suo Blanchot. Un Oculista-Stregone che sappia esorcizzare il malocchio che li affligge. Perché i nostri occhi, da allora – dacché il nostro Dio/Re è morto – non vedono più quel che liberamente vedevano nella loro stagione «dionisiaca» o, come suol dirsi oggi, al tempo del loro «narcisismo», e perciò neanche si accorgono della «crudeltà» della Legge a cui il Giorno Olimpico li tiene assoggettati. Una volta accecati al loro Dio/Re, i nostri occhi non gli appartengono più, non sono più i suoi occhi – sono diventati gli occhi di un Altro, occhi sedotti dalla Norma dell’Altro, occhi divenuti «stranieri» alle proprie visioni, occhi così folli da non vedere la follia che è alla radice di ogni nozione di normalità. Perché la Norma è «crudele» col Differente, con l’Eccezione, col Singolare. La Norma è Thanatos, il suo Regno è il Giorno, i suoi sudditi – i nostri sguardi dominati dal culto di Bellezza.
La faccenda è complicata, e perciò il solo Oculista non basta. Per «guarirci», consiglia sempre Blanchot, ci vuole anche un Dottore delle malattie mentali – uno a cui «raccontare» come dove e quando quelle maledette schegge (le frecce di Apollo), trafiggendoli, sedussero i nostri occhi e li soggiogarono all’Apparente. Uno a cui «parlare» dei nostri guai, casomai ci desse una mano per venire a capo del nostro Problema.
Ma il guaio è che, non trattandosi di una faccenda solo ottica o solo narrativa, il guaio è che anche l’Oculista e il Dottore sono nei guai. È che anche loro sono folli di questa «follia del giorno» che pretendono di guarire. Il guaio è che questa follia è diventata la Norma. Quella che normalmente ci guida a bussare ora alla porta di questo, ora di quel Dottore, come se fosse l’Altro, là fuori, a doverci guarire, quando invece è proprio l’Altro il solo «malato» in circolazione tra noi.