Io non sono né saggio né ignorante. Ho provato gioie. È troppo poco dire: sono vivo, e questa vita mi dà il più grande piacere. La morte, allora? Quando morirò (forse tra poco), conoscerò un piacere immenso. Non parlo del pregustare la morte che è insulso e spesso sgradevole. Il soffrire abbrutisce. La grande verità di cui sono sicuro è invece questa: provo nel vivere un piacere senza limiti e avrò nel morire una soddisfazione senza limiti.
Ho vagato, sono passato da un posto all’altro. Stabile, ho abitato in una camera solitaria. Sono stato povero, poi più ricco, poi ancora più povero. Da bambino, avevo grandi passioni, e tutto quel che desideravo, lo ottenevo. La mia infanzia è sparita, la mia giovinezza è per le strade. Non importa: ciò che è stato, mi rende felice; ciò che è, mi piace; ciò che avviene, mi conviene.
La mia esistenza è migliore di quella degli altri? Può darsi. Ho un tetto, molti non ce l’hanno. Non ho la lebbra, non sono cieco, vedo il mondo, fortuna immensa. Lo vedo, questo giorno fuori del quale non è niente. Chi potrebbe sottrarmelo? E sparendo questo giorno, io sparirò con lui, pensiero, certezza che mi trasporta.
Ho amato degli esseri, li ho perduti. Sono diventato pazzo quando un tale colpo si è abbattuto su di me, perché è un inferno. Ma la mia follia è rimasta senza testimoni, il mio smarrimento non era manifesto, la mia sola intimità era folle. Talvolta, diventavo furioso. Mi si diceva: Perché siete così calmo? In realtà, bruciavo dalla testa ai piedi; di notte, correvo le strade, urlavo; di giorno, lavoravo tranquillamente.
Poco dopo, si scatenò la follia del mondo. Fui messo al muro come molti altri. Perché? Per niente. I fucili non spararono. Mi dissi: Dio, che fai? Smisi allora d’essere insensato. Il mondo esitò, poi riprese il suo equilibrio.
Con la ragione, mi tornò il ricordo e notai, anche nei giorni peggiori, che allorché mi credevo perfettamente, completamente infelice, ero nondimeno, e quasi sempre, estremamente felice. Ciò mi fece riflettere. Questa scoperta non era piacevole. Mi sembrava di perdere molto. M’interrogai: non ero forse triste, non avevo sentito la mia vita spezzarsi? Sì, era successo; ma, in ogni momento, quando mi alzavo e correvo per le strade, quando restavo immobile in un angolo della stanza, la freschezza della notte, la stabilità del suolo mi facevano respirare e riposare sull’allegrezza.
Gli uomini, specie bizzarra, vorrebbero sfuggire alla morte. E alcuni gridano, morire, morire, perché vorrebbero sfuggire alla vita. «Ma quale vita, mi uccido, mi arrendo». Ciò è pietoso, strano, è un errore.
Ho incontrato tuttavia degli esseri che non hanno mai detto alla vita, taci, e alla morte, vattene. Quasi sempre delle donne, creature belle. Quanto agli uomini, il terrore li assedia, la notte li ferisce, vedono i loro progetti annientati, il loro lavoro ridotto in polvere, restano sbigottiti, loro, così grandi, che volevano fare il mondo, ma tutto sprofonda.
Potrò descrivere le mie fatiche? Non potevo né camminare, né respirare, né nutrirmi. Il mio respiro era di pietra, il mio corpo era pieno d’acqua, eppure morivo di sete. Un giorno, mi affondarono nel terreno, i medici mi coprirono di fango. Che lavorio nel profondo di questa terra! Dicono che sia fredda. È di fuoco, invece, è un cespuglio di rovi. Mi rialzai completamente insensibile. Il mio tatto vagava a due metri da me: se entravano nella mia stanza, gridavo, ma il coltello mi tagliava tranquillamente. Sì, divenni uno scheletro. La mia magrezza, di notte, mi si ergeva davanti per spaventarmi. M’ingiuriava, mi stancava con l’andare e venire; ah, quant’ero stanco.
Sono egoista? Provo dei sentimenti per qualcuno, pietà per nessuno, avendo raramente voglia di piacere, raramente voglia che gli altri mi piacciano, eppure, quasi insensibile, non soffro che in loro, in modo tale che il loro minimo turbamento mi procura un male infinito, tuttavia, se è necessario, li sacrifico deliberatamente, gli sottraggo ogni sentimento di felicità (capita che io li uccida).
Dalla fossa di fango, sono uscito con il vigore della maturità. Prima, chi ero? Un sacco d’acqua, una distesa morta, una profondità sopita. (Eppure, sapevo chi ero, resistevo, non cadevo nel nulla). Venivano a farmi visita da lontano. I bambini giocavano intorno a me. Le donne si chinavano fino a terra per darmi la mano. Anch’io ho avuto una mia giovinezza. Ma il vuoto mi ha tanto deluso.
Non sono uno che ha paura, ho ricevuto diversi colpi. Qualcuno (un uomo esasperato) mi ha preso la mano e vi ha piantato il suo coltello. Quanto sangue. Dopo, tremava. Mi offriva la sua mano perché la inchiodassi sulla tavola o contro una porta. Dal momento che mi aveva ferito, l’uomo, un folle, si credeva mio amico; mi spingeva la sua donna tra le braccia; mi seguiva in strada gridando: «Io sono dannato, sono il giocattolo di un delirio immorale, confessione, confessione». Un folle assai strano. In quei frangenti, il sangue gocciolava sul mio unico vestito.
Vivevo soprattutto nelle città. Sono stato per qualche tempo un uomo pubblico. La legge mi attirava, la moltitudine mi piaceva. Sono stato anonimo negli altri. Quand’ero nessuno, sono stato sovrano. Ma un giorno mi stancai di essere la pietra che lapida gli uomini soli. Al fine di tentarla, chiamai sottovoce la legge: «Avvicinati, fatti vedere in faccia». (Volevo, per un attimo, prenderla da parte). Richiamo imprudente, cos’avrei fatto se avesse risposto?
Devo confessarlo, ho letto molti libri. Quando scomparirò, tutti questi volumi muteranno impercettibilmente; più grandi i margini, più debole il pensiero. Sì, ho parlato a troppa gente, oggi questo mi sorprende; ogni persona è stata per me un intero popolo. Un così immenso altro mi ha reso me stesso molto più di quanto avrei voluto. Adesso, la mia esistenza è di una solidità sorprendente; anche le malattie mortali mi giudicano coriaceo. Me ne scuso, ma è necessario che io seppellisca qualcun altro prima di me.
Cominciavo a cadere in miseria. Essa tracciava lentamente intorno a me dei cerchi, il primo dei quali sembrava lasciarmi tutto, l’ultimo non lasciava che me. Un giorno, mi trovai bloccato in città: viaggiare era ormai solo un sogno. Il telefono smise di rispondere. I miei vestiti si consumavano. Soffrivo il freddo; la primavera, presto. Andavo nelle biblioteche. Mi ero ingraziato un impiegato che mi faceva scendere nei sotterranei surriscaldati. Per rendergli il favore, galoppavo gioiosamente su minuscole passerelle e gli portavo dei volumi che poi egli trasmetteva all’oscuro spirito della lettura. Ma tale spirito ebbe per me delle parole poco gentili; sotto i suoi occhi, rimpicciolivo; mi vide per com’ero, un insetto, una bestia munita di mandibole, venuta dalle cupe regioni della miseria. Chi ero? Rispondere a questa domanda mi avrebbe gettato in grandi inquietudini.
Fuori, ebbi una breve visione: c’era, a due passi, proprio all’angolo della strada che stavo per lasciare, una donna ferma con una carrozzina, non la vedevo granché bene, manovrava la carrozzina per farla entrare in un portone. In quel medesimo istante, entrava da quella porta un uomo che non avevo visto avvicinarsi. Aveva già superato la soglia quando fece un movimento all’indietro e uscì di nuovo. Mentre si teneva a lato della porta, la carrozzina, passandogli davanti, si sollevò leggermente per varcare la soglia e la giovane donna, dopo aver alzato la testa per guardarlo, scomparve a sua volta.
Questa breve scena mi sollevò fino al delirio. Senza dubbio non me lo potevo spiegare completamente e tuttavia, ne ero sicuro, avevo colto l’istante a partire dal quale il giorno, essendosi imbattuto in un avvenimento vero, si affrettava verso la sua fine. Eccola che arriva, mi dicevo, viene la fine, accade qualcosa, inizia la fine. Ero preso dalla gioia.
Giungevo a questa casa, ma senza entrarvi. Attraverso lo spioncino, vedevo l’ingresso buio di un cortile. Mi appoggiavo al muro esterno, avevo di certo un gran freddo; il freddo m’avvolgeva dalla testa ai piedi, sentivo la mia enorme statura assumere lentamente le dimensioni di quel freddo immenso, si elevava tranquillamente secondo i diritti della sua vera natura ed io restavo, per un istante, nella gioia e nella perfezione di questa felicità, con i piedi sull’asfalto e la testa in alto quanto la lastra del cielo.
Badate, tutto questo era reale.
Non avevo nemici. Nessuno m’infastidiva. Qualche volta, nella mia testa si creava una vasta solitudine in cui il mondo spariva interamente, ma ne usciva intatto, senza una scalfittura, nulla vi mancava. Corsi il rischio di perdere la vista, perché qualcuno mi aveva rotto del vetro sugli occhi. Questo colpo mi scosse, lo ammetto. Ebbi l’impressione di essere murato, di vaneggiare in un bosco di selci. La cosa peggiore era la brusca, la terribile crudeltà del giorno: non potevo né guardare, né smettere di guardare; il vedere significava lo spavento, e il non vedere mi lacerava dalla fronte alla gola. Inoltre, udivo urla come di iena che mi facevano pensare d’esser minacciato da una bestia selvaggia (queste urla, credo, erano le mie).
Tolto il vetro, fecero scivolare una pellicola sotto le palpebre e muraglie d’ovatta sopra di esse. Non dovevo parlare, perché la parola tirava i punti della medicazione. «Voi dormivate», mi dice il medico più tardi. Io dormivo! Dovevo tener testa alla luce di sette giorni: un bell’avvampare! Sì, sette giorni tutti insieme, le sette lucentezze capitali divenute la vivacità di un solo istante, mi chiedevano il conto. Chi lo avrebbe immaginato? Talvolta, mi dicevo: «È la morte; malgrado tutto, ne vale la pena; è impressionante». Ma sovente morivo senza dir nulla. A lungo andare, mi convinsi di vedere la follia del giorno faccia a faccia; era questa la verità: la luce diventava folle, la chiarezza aveva perduto ogni buon senso; mi assaliva in modo irragionevole, senza regola, senza scopo. Questa scoperta, fu come un morso dato alla mia vita.
Io dormivo! Al mio risveglio, mi sembrò di sentire un uomo domandarmi: «Sporgete denuncia?». Domanda bizzarra, indirizzata a qualcuno che ha a che fare direttamente col giorno.
Benché guarito, dubitavo della mia guarigione. Non potevo né leggere né scrivere. Ero circondato da un Nord brumoso. Ma ecco la stranezza: quantunque mi ricordassi del contatto atroce, dietro le tende e i vetri affumicati io deperivo. Volevo vedere qualcosa in piena luce; ero sazio del benessere e del conforto della penombra; avevo per la luce un desiderio d’acqua e d’aria. E se vedere significava il fuoco, esigevo la pienezza del fuoco, e se vedere significava il contagio della follia, desideravo follemente una tale follia.
In istituto, mi diedero un piccolo impiego. Rispondevo al telefono. Poiché il dottore aveva un laboratorio d’analisi (s’interessava al sangue), le persone entravano, bevevano una droga e si assopivano distese sui lettini. Uno di loro ebbe un’astuzia notevole: dopo aver ingerito la medicina autorizzata, prese un veleno e cadde in coma. Il medico la considerò una bassezza. Lo rianimò e «sporse denuncia» contro il suo sonno fraudolento. Nientemeno! Quel malato, a me pare che meritasse di meglio.
Benché la mia vista fosse diminuita di poco, camminavo per strada come un granchio, tenendomi rasente i muri, ed appena me ne allontanavo, intorno ai miei passi era la vertigine. Su quei muri, vedevo sovente lo stesso manifesto, un manifesto banale, ma con delle lettere molto grandi: Anche tu lo vuoi. Certo, lo volevo, e ogni volta che incontravo quelle considerevoli parole, io lo volevo.
Tuttavia, qualcosa in me smetteva di volere assai presto. Leggere mi costava una gran fatica. Leggere mi affaticava quanto il parlare, e la minima parola vera esigeva da me non so quale forza che mi mancava. Mi si diceva: Lei si compiace delle sue difficoltà. Una tale affermazione mi stupiva. A vent’anni, nella medesima condizione, nessuno mi avrebbe notato. A quaranta, per un po’ che ero povero, diventavo miserabile. E da dove veniva quest’aspetto sgradevole? A mio parere, lo contraevo per strada. Le strade non mi arricchivano come avrebbero dovuto fare ragionevolmente. Al contrario, seguendo i marciapiedi, sprofondando nella luce dei metrò, percorrendo gli splendidi viali dove la città sfavillava superbamente, diventavo estremamente scialbo, modesto, stanco, e raccogliendo una parte eccessiva dello sfacelo anonimo, attiravo gli sguardi, tanto più che una simile parte non faceva per me e mi rendeva un po’ vago e informe; appariva quindi affettata, finta. La miseria ha di noioso che la si vede, e quelli che la vedono pensano: Ecco che mi si accusa; chi mi aggredisce? Ora, io non desideravo affatto portare la giustizia sui miei abiti.
Mi si diceva (talvolta il medico, talaltra le infermiere): Lei è istruito, ha delle capacità; non sfruttando un talento che farebbe vivere dieci persone che ne mancano, lei le priva di ciò che non hanno, e la sua indigenza, che potrebbe essere evitata, è un’offesa ai loro bisogni. Domandavo: Perché questi sermoni? Rubo forse il mio posto? Riprendetevelo. Mi vedevo circondato da pensieri ingiusti e da ragionamenti malevoli. E cosa mi si contrapponeva? Un sapere invisibile del quale nessuno aveva la prova e che io stesso cercavo invano. Ero istruito! Ma forse non lo ero sempre. Capace? Dov’erano, queste capacità, che li faceva parlare come giudici togati sugli scranni, pronti a condannarmi giorno e notte?
Stimavo i medici quanto basta, non mi sentivo sminuito dai loro dubbi. Il fastidio veniva semmai dal fatto che la loro autorità aumentava di ora in ora. Non ce ne rendiamo conto, ma sono come dei re. Entrando nelle mie stanze, dicevano: Qui ci appartiene tutto. Si gettavano sui miei ritagli di pensiero: Questo è nostro. Interrogavano la mia storia: Parla, ed essa si metteva al loro servizio. Mi spogliavo velocemente di me stesso. Distribuivo loro il mio sangue, la mia intimità, gli prestavo l’universo, gli donavo il giorno. Sotto i loro occhi per niente stupiti, divenivo una goccia d’acqua, una macchia d’inchiostro. Mi sottomettevo a loro, mi lasciavo scrutare per intero, e quando infine, avendo chiara solo la mia perfetta nullità e più niente da vedere, smettevano anche di studiarmi, si levavano assai irritati gridando: Ebbene, dove siete? Dove vi nascondete? Nascondersi è vietato, è una colpa, ecc.
Dietro le loro spalle, scorgevo la sagoma della legge. Non la legge di cui si ha conoscenza, che è rigorosa e poco piacevole: questa era altro. Lungi dal cadere sotto la sua minaccia, ero io che sembravo spaventarla. A crederle, il mio sguardo era il fulmine e le mie mani occasione di morte. Inoltre, mi attribuiva in modo ridicolo tutti i poteri, si diceva incessantemente ai miei piedi. Però non mi lasciava chiedere nulla e laddove mi riconoscesse il diritto di essere in ogni luogo, ciò significava che non avevo posto da nessuna parte. Quando mi metteva al di sopra dell’autorità, voleva dire: voi non siete autorizzato a niente; se si umiliava: voi non mi rispettate.
Sapevo che uno dei suoi scopi era di farmi «rendere giustizia». Mi diceva: «Adesso sei un essere a parte; nessuno può nulla contro di te. Tu puoi parlare, e niente t’impegna; i giuramenti non ti legano più; i tuoi atti restano senza conseguenza. Tu mi calpesti, ed eccomi per sempre tua serva». Una serva? Non la volevo a nessun prezzo.
Mi diceva: «Tu ami la giustizia. – Sì, mi pare. – Perché allora la lasci offendere nella tua persona così importante? – Ma la mia persona non è importante per me. – Se la giustizia s’indebolisce in te, diviene debole negli altri, che ne soffriranno. – Ma ciò non la riguarda. – Tutto le riguarda. – Ma voi me l’avete detto, io sono a parte. – A parte, se agisci; mai, se lasci agire gli altri».
Arrivava a dire delle cose futili: «La verità, è che noi non possiamo più separarci. Io ti seguirò ovunque, vivrò sotto il tuo tetto, avremo lo stesso sonno».
Avevo accettato di lasciarmi rinchiudere. Momentaneamente, mi dicevano. Bene, momentaneamente. Durante le ore d’aria, un altro ospite, un vecchio dalla barba bianca, mi saltava sulle spalle e gesticolava al di sopra della mia testa. Gli dicevo: «Sei quindi Tolstoj?». Il dottore mi giudicava per questo davvero matto. Alla fine, portavo tutti a spasso sulle mie spalle, un nodo di esseri strettamente allacciati, una società di uomini maturi, attirati là in alto da un vano desiderio di dominare, da un’infelice puerilità, e quando crollavo (perché non ero mica un cavallo), la maggior parte dei miei compagni, cascati anch’essi, me le davano di santa ragione. Erano momenti di gioia.
La legge criticava vivamente la mia condotta: «Un tempo, vi sapevo molto diverso. – Molto diverso? – Non vi si prendeva in giro impunemente. Guardarvi, costava la vita. Amarvi, significava la morte. Gli uomini scavavano fosse e vi si nascondevano per sfuggire al vostro sguardo. Si dicevano: È passato? Benedetta la terra che ci nasconde. – Mi si temeva a tal punto? – Il timore non vi bastava, né le lodi dal profondo del cuore, né una vita retta, né l’umiltà nella polvere. E soprattutto, che non mi s’interroghi. Chi osa pensare perfino a me?».
Lei si montava la testa in modo singolare. Mi esaltava, ma per innalzarsi dietro di me: «Voi siete la miseria, la discordia, l’assassinio, la distruzione. – Perché tutto questo? – Perché io sono l’angelo della discordia, dell’assassinio e della fine. – Ebbene, le dicevo, ecco più di quanto occorra per rinchiuderci entrambi». La verità, è che lei mi piaceva. In quell’ambiente sovrappopolato d’uomini era il solo elemento femminile. Un giorno, mi aveva fatto toccare il suo ginocchio: bizzarra sensazione. Le avevo detto: Non sono uomo che si accontenti di un ginocchio. Sarebbe disgustoso!, fu la sua risposta.
Ecco uno dei suoi giochi. Mi mostrava una porzione di spazio, tra la parte superiore della finestra e il soffitto: «Voi siete là», diceva. Io guardavo intensamente quel punto. «Ci siete?». Lo guardavo con tutte le mie forze. «Ebbene?». Sentivo tirare le cicatrici del mio sguardo, la mia vista diventava una piaga, la mia testa un buco, un toro sventrato. Ad un tratto, si metteva a gridare: «Ah, vedo la luce, ah, Dio», ecc. Io protestavo perché quel gioco mi stancava enormemente, ma lei non era mai sazia della mia gloria.
Chi vi ha gettato del vetro in faccia? Questa domanda ritornava in tutte le domande. Non mi veniva più posta direttamente, ma era l’incrocio cui conducevano tutte le strade. Mi avevano fatto notare che la mia risposta non rivelava nulla, perché da molto tempo tutto era svelato. «Un motivo in più per non parlare. – Vediamo, siete istruito, sapete che il silenzio attira l’attenzione. Il vostro mutismo vi tradisce nel modo più irragionevole». Rispondevo loro: «Ma il mio silenzio è vero. Se ve lo nascondessi, lo trovereste un po’ più in là. Se mi tradisce, tanto meglio per voi, vi serve, e tanto meglio per me che dite di servire». Avevano bisogno di smuovere cielo e terra per venirne a capo.
Mi ero interessato alla loro ricerca. Eravamo tutti come cacciatori mascherati. Chi era ad interrogare? Chi a rispondere? L’uno diventava l’altro. Le parole parlavano da sole. In loro, entrava il silenzio, rifugio eccellente, perché nessuno oltre a me se ne accorgeva.
Mi avevano chiesto: Raccontateci “esattamente” come si sono svolte le cose. – Un racconto? Cominciai: Non sono né saggio né ignorante. Ho provato gioie. È troppo poco dire. Raccontai loro l’intera storia che, mi pare, almeno all’inizio, avevano ascoltato con interesse. Ma la fine fu una sorpresa per tutti. «Dopo quest’inizio, dicevano, verrete ai fatti». Come sarebbe? Il racconto era finito.
Dovetti riconoscere che non ero in grado di concepire un racconto con quegli avvenimenti. Avevo perso il senso della storia, cosa che succede in molte malattie. Ma questa spiegazione li rese più esigenti. Notai allora per la prima volta che erano in due, che questo strappo al metodo tradizionale, benché si spiegasse col fatto che uno era oculista, mentre l’altro uno specialista delle malattie mentali, dava costantemente alla nostra conversazione il carattere di un interrogatorio autoritario, sorvegliato e controllato da una rigida regola. Certo, nessuno dei due era un commissario di polizia. Ma, essendo due, a causa di ciò erano tre, e questo terzo restava fermamente convinto, ne sono sicuro, che uno scrittore, un uomo che parla e ragiona con distinzione, è sempre capace di raccontare i fatti di cui si ricorda.
Un racconto? No, nessun racconto, mai più.
(Blanchot, La follia del giorno)