C’era una volta un giovane bellissimo ma indolente che al mattino non riusciva ad alzarsi. Talvolta rimaneva a letto anche tutto il giorno. Dopo molte esitazioni, il padre si decise a rimproverarlo. Fatica sprecata: il ragazzo si incaponì nella sua pigrizia; tuttavia egli aveva deciso di nascosto di andare all’assalto dei cannibali, di cui gli aveva parlato il padre.
Andò a informarsi da una vecchia, la quale gli disse che i cannibali abitavano assai lontano, dalla parte di levante. L’eroe si mise in cammino. La prima sera, gettò sul fuoco alcuni tendini di cui si era fornito; questi, accartocciandosi tra le fiamme, provocarono una contrazione della terra, e avvicinarono il suo luogo di destinazione. Il giorno dopo, egli ripeté la stessa operazione. Una coppia di coniugi anziani lo indirizzò verso il luogo in cui viveva la moglie dei cannibali, e gli consigliò di chiedere il suo aiuto. La donna si lasciò impietosire, prestò all’eroe il suo aspetto fisico, e lo mandò al suo posto dai sette mariti col pretesto di portare dei mocassini, che gli valsero una buona accoglienza. Invano il fratello più giovane fece osservare che quella donna aveva braccia da uomo.
L’eroe, fingendo di spidocchiare il maggiore dei fratelli, gli tagliò la testa e fuggì. Messi in allarme dalle oche guardiane, gli altri fratelli gli dettero la caccia. Egli si rifugiò nella tenda di ferro [sic] della sua protettrice. Ben presto arrivarono gli inseguitori, i quali cominciarono a proferire minacce. La donna fece finta di aprire, ma richiuse così rapidamente la porta metallica che tagliò di netto i sei colli. Essa prese per sé la testa del proprio marito, e lasciò le altre all’eroe. Le capigliature erano di un colore rosso fiamma.
Ritornato di notte al villaggio, l’eroe si coricò in silenzio. Il giorno dopo il padre voleva cacciare quell’estraneo che occupava il letto del figlio, ma poi lo riconobbe e gli fece festa.
Questa fu la fine dei cannibali, di cui si parla ancora ai ragazzi che al mattino dormono fino a tardi.
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Nella mitologia degli Arapaho gli scalpi, i ricami di aculei di porcospino e le frange di peli pubici formano un sistema.
Infatti, lo scalpo è un trofeo di pelle umana cui aderiscono ancora i capelli, le frange sono un trofeo di peli umani applicati su pelle animale (i vestiti di cuoio di cervide), il ricamo è un trofeo di peli animali applicati su pelle animale:
scalpo | frangia | ricamo | |
peli | aderenti | applicati | applicati |
della pelle | umana | umana | animale |
Aggiungiamo che gli scalpi erano prelevati agli uomini, i ricami venivano applicati dalle donne, mentre i peli pubici provenivano indifferentemente dall’uno o dall’altro sesso. Si sa che la maggior parte degli Indiani d’America si depilavano tutto il corpo; in precedenza, però, i giovani organizzavano talvolta delle gare: vinceva chi poteva mostrare i peli più lunghi. Un mito dei Dakota narra di un eroe che le ragazze a cui egli aveva promesso il matrimonio ornarono coi loro peli pubici.
Di qui una nuova dimensione che completa il sistema: se, come abbiamo dimostrato, gli aculei di porcospino costituiscono un trofeo periodico sull’asse spaziale (e anche temporale, perché c’era una stagione per la guerra che coincideva con quella della caccia nomade), gli altri due trofei hanno periodi di ciclo opposto: gli scalpi provengono da nemici lontani; i peli pubici provengono invece dal corpo stesso di colui che porta le frange o dal corpo di donne a lui vicine: sorelle, spose o fidanzate.
Un tipo di trofeo è dunque esogeno, l’altro endogeno; ritroviamo così, in un contesto inatteso, quella dialettica del vicino e del lontano che serve da filo conduttore a tutto questo libro, e contemporaneamente ne scopriamo la mediazione temporale, ottenuta grazie alla periodicità degli aculei del porcospino: tale periodicità riproduce infatti, in termini di ornamenti, quella dei grandi cicli cosmici in base ai quali avevamo affrontato il problema generale.
In tutti i miti sull’origine dello scalpo è sempre riservato un posto, sia pure diverso, ai cervidi: soccorritori per i Crow, ostili per i Mandan, ambigui per i Dakota in quanto l’eroe conquista il coltello da scalpo, ma perde la ragazza che gli aveva promesso la sua mano a quella condizione: essa si muta infatti in un cervide dei boschi e scompare; di qui la proibizione alimentare che riguarda la carne di questo animale.
Ora, i cervidi hanno anch’essi una funzione pertinente rispetto al sistema dei tre trofei che abbiamo messo in luce. In tutta l’America settentrionale, dagli Eskimo dell’Alaska a occidente fino agli Algonchini della foce del San Lorenzo e della Nuova Inghilterra a oriente, passando attraverso il bacino del Mackenzie e i Grandi Laghi, esisteva una tecnica di ricamo con i peli di cervidi, soprattutto di alce e di caribù, che doveva risalire a un’epoca molto antica, essendo nota anche in Siberia. Questa tecnica esigeva che i peli di cervidi fossero strappati dal loro supporto naturale come si faceva anche con gli aculei di porcospino e coi peli pubici.
Ma gli Indiani dell’America settentrionale lasciavano talvolta la pelle di cervide intatta con i peli, per confezionare quei cimieri che avevano nei Sauk i migliori specialisti e che essi esportavano in regioni lontane.
Autentiche parrucche che, come tali, rappresentavano l’inverso degli scalpi, questi cimieri di peli colorati sostituivano i capelli rasati sulla testa di chi li portava. I Kansa avvertivano senza dubbio questa relazione in quanto prescrivevano di portare il cimiero per festeggiare la cattura del primo scalpo.
Gli ornamenti di peli di cervide erano dunque simmetrici rispetto agli scalpi su un asse, e simmetrici rispetto alle frange di peli pubici su un altro asse. In maniera simbolica ma molto intima, le frange effettuavano una congiunzione fra i sessi quando il guerriero metteva in mostra sul proprio vestito i peli di una donna vicina: sorella, sposa o fidanzata.
Al confronto, gli ornamenti di peli di cervidi appaiono casti. Essi devono forse essere avvicinati alle «coperte matrimoniali», in uso anche presso gli Algonchini dei Grandi Laghi. Fatte di pelle di cervide, riccamente decorate e con un foro nel mezzo, queste coperte servivano a evitare il contatto delle epidermidi durante il coito. Soltanto certi Indiani avevano il diritto di possederle, e le prestavano dietro compenso. Se qualcuno sporcava quella che gli era stata prestata, doveva indennizzare il proprietario.
Accertati fra i Menomini, i Sauk, i Mascouten, gli Ojibwa e gli Shawnee, questi oggetti sacri – forniti talvolta di sonagli perché non se ne ignorassero né il momento né le circostanze dell’uso – evitavano l’eventuale debolezza dell’uomo in battaglia e prevenivano la deformità nei bambini concepiti attraverso di essi. […]
E dunque la pelle di cervide di cui erano fatte le coperte provocava la disgiunzione dei sessi nella misura in cui essa soltanto (e non i sessi stessi) poteva entrare in contatto con entrambi.
A sostegno di questa interpretazione, ricordiamo che l’eroe di un mito Crow ottiene che una cerva protettrice lo trasformi in donna strofinando il proprio corpo nudo contro il suo, e che, secondo il succitato mito Dakota, la trasformazione di una donna in cervide disgiunge una coppia che la conquista di un coltello da scalpo avrebbe dovuto invece congiungere.
Sembra dunque che certe tribù di lingua Siouan formulino nei loro miti le stesse nozioni che le tribù vicine di lingua algonchina esprimono attraverso i riti.
In effetti, qualcuno potrebbe obiettare che, fra i Siouan delle Pianure e soprattutto fra i Dakota, i cervi rivestivano una funzione inversa rispetto a quella che pretendiamo attribuire loro. In queste tribù, certe confraternite di danzatori e di stregoni, che rappresentavano diverse specie di cervidi, si specializzavano nelle tresche amorose delle quali si diceva che questi animali fossero i patroni.
In società che ponevano la seduzione delle donne sposate a livello di una istituzione, è però chiaro che il «ratto delle donne» di cui le confraternite di cervidi volevano attribuirsi il monopolio avveniva a spese delle unioni legittime. La congiunzione degli amanti, favorita dai cervidi, era dunque l’inverso di una disgiunzione temporanea che riguardava gli sposi.
Sul piano sociologico, il risultato è paragonabile alla disgiunzione parziale che l’uso delle coperte matrimoniali determinava fra gli sposi stessi, a vantaggio, se così possiamo dire, di un cervide rappresentato (in forma metonimica e insieme metaforica) dalla sola pelle, resa però seduttrice in quanto ornata sontuosamente.
La stessa problematica si ritrova, all’estremità opposta del continente, fra gli Hopa della California, che però la presentavano sotto un’altra forma: questi cacciatori di cervidi si astenevano da qualsiasi rapporto sessuale con le proprie mogli durante la stagione della caccia.
(Lévi-Strauss, Le origini delle buone maniere a tavola)
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Tre tipi di ornamento: capelli, peli e aculei – tre «scaramanzie» da indossare: a) per scongiurare i nemici (scalpi, forme ridotte di decapitazioni); b) per stringere a sé i vicini, gli amici, i parenti (frange di peli pubici applicate ai propri vestiti); c) per attirare a sé la (s)fortuna d’incontrare il porcospino, né amico né nemico, bensì «orologio» neutro che segna le ore cosmiche, e la cui «periodicità» funge da termine medio tra i due opposti – cioè tra il dover fare sempre (per tutto l’anno) la guerra ai nemici o dare la caccia alla selvaggina, e viceversa stare sempre (per tutto il giorno) a letto a nutrire, come il nostro eroe, un insaziabile desiderio di dormire in santa pace.
Tra il troppo lontano (il cannibalismo, l’avventura nel mondo ostile) e il troppo vicino (il desiderio di non uscire dal proprio guscio, di non alzarsi dal proprio letto, di non staccarsi dai propri sogni), la Natura pare aver offerto agli Indiani delle Pianure una via di mezzo – una via che non è né esogena, né endogena, né distante né prossima, in quanto a differenza delle altre due essa è in salita. È la via «sopra l’orizzonte» che in illo tempore una bambina percorse per andare a sposare Luna, e dunque la via che si stacca dal piano del vicino e del lontano, per ascendere alle stelle, alla dimensione cioè del Tutt’Altro dall’Umano, fuori dalle relazioni umane. A prescindere…
Bisogna perciò fare attenzione all’ornamento che s’indossa: per ogni nemico «scongiurato», per ogni scalpo conquistato in battaglia, per ogni testa fatta saltare, si può e si deve aggiungere una penna al proprio cimiero, e questa penna dev’essere fatta (o, per meglio dire, fatata) di peli di cervo.
Il cervo è troppo bello per essere cacciato, cucinato e divorato senza una contropartita! Ecco la scaramanzia. Il nemico (che per il cannibale è l’altro uomo, ma che per tutti gli uomini è l’animale a cui dà la caccia) non può e non deve essere «annientato». Bisogna che lasci un segno, sia pure della sua dipartita. E bisogna che questo segno esiga e ottenga la riscossione del debito contratto dal Cacciatore che l’uccide.
La Bellezza «violata» dev’essere risarcita. Questo comandamento, ogni Arapaho lo porta scritto addosso: nei suoi vestiti, nella sua acconciatura! Ma soprattutto ce l’ha sontuosamente ricamato (grazie agli aculei di porcospino) sulla «coperta nuziale» che condivide col suo partner sessuale.
La Bellezza non va toccata! Questo è il sacro tabù degli Indiani delle Pianure. È essa semmai, la Bellezza (metonimica e metaforica – e dunque in ogni caso traslata dal «lontano ucciso» al «vicino vivente»), lei sola che ha diritto a toccare la pelle degli Amanti.
Saranno dunque i peli della pelle del cervo ucciso, riccamente intrecciati, culturalmente metaforizzati, a godere del «contatto» e a congiungere chi di fatto rimane disgiunto, fatta eccezione dei genitali e dei peli pubici, a eccezione dunque degli organi di riproduzione.
Fare l’amore, ci pensi?, divisi da una coperta! Per noi è impensabile. Per noi, «apollinei», e neanche di primo pelo!, per noi che siamo immersi nel gioco delle seduzioni, e che siamo afflitti dalla smania di «denudare» e di «toccare» la Bellezza, per noi che usiamo «contattarci» pelle a pelle, la sola idea di interporvi qualcosa, e poi addirittura una coperta, ci manda fuori di testa.
Ma come? appena un buco nella coperta!
Proprio così. Un Arapaho è, a modo suo, un dionisiaco e perciò non concede più di tanto alla Bellezza. Non più di uno «spioncino» all’altezza del pube. È vero, l’Amata ce l’ha lì vicino, è a portata di mano, ma se le concede più di quel tanto, prima o poi ne spunterà fuori tutto un pantheon, tutto un Olimpo di illusioni, e di nuovo, sia pure traslato, risorgerà l’istinto del cannibale che l’Amata se la divora tutta quanta.
Gli Arapaho, mi viene da dire, praticavano già la filosofia dell’«oggetto parziale» di desiderio. La metonimia di prendere la parte per il tutto. E di questa saziarsi. Nutrirsi e saziarsi del figurato, anziché farsi divorare dalla smania di scoprire il reale.