Santillana – Il sentiero abbandonato

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Sole nei Gemelli (attuale solstizio)

Il Sagittario e i Gemelli segnano ancora i solstizi in questi ultimi anni dell’Età dei Pesci. La prossima età sarà quella dell’Acquario. Gli antichi avrebbero indubbiamente considerato i guai dei nostri tempi, la sovrappopolazione, l’«operare iniquità in segreto», come preludi inevitabili a una nuova inclinazione, a una nuova età del mondo.

Eppure, l’Età dei Peci venne a lungo vagheggiata, e annunciata come un’era benedetta. Essa fu introdotta dalle tre successive Grandi Congiunzioni di Saturno e Giove nei Pesci avvenute nel 6 a. C.: la Stella di Betlemme.
Virgilio annunciò il ritorno dell’Età dell’Oro sotto Saturno nella sua famosa Egloga IV: «Ritorna ormai la Vergine, ritorna il regno di Saturno; ormai una nuova generazione discende dall’alto dei cieli. Ma tu, casta Lucina, sii dunque propizia al bimbo che nasce, sotto il quale comincerà a venir meno la ferrea stirpe e sorgerà nel mondo l’aurea razza».
Benché promosso al rango di cristiano honoris causa per questo suo carme, Virgilio non era certo un «profeta» e non era neppure il solo ad attendere il ritorno di Kronos-costellazione-VergineSaturno. Iam redit et Virgo, redeunt Saturnia regna: che significa? Si attendeva il «ritorno» della Vergine: ma da dove?

Nel suo famoso poema astronomico Arato racconta (vv. 96-130) come Themis-Vergine, che era vissuta pacificamente tra gli uomini, si fosse ritirata sulle «colline» alla fine dell’Età dell’Oro, per non più mescolarsi alle genti argentee che incominciavano a popolare la terra, e come fosse andata a dimorare in cielo presso Boote, quando ebbe inizio l’Età del Bronzo.
Ed ecco Virgilio annunciare il ritorno della Vergine. Indovinare il tempo e il «luogo» dell’Età dell’Oro è quindi facile: basta portare indietro di un quarto «d’ora» l’orologio della Precessione (fino a circa 6000 anni da Virgilio) ed ecco la Vergine saldamente ricca all’angolo solstiziale estivo del piano astratto «terra». Col suo «ritorno», ossia avanzando, la Vergine avrebbe indicato l’equinozio autunnale, in concomitanza con l’assunzione, da parte dei Pesci, del governo celeste dell’equinozio di primavera, al nuovo incrocio.

Con la scoperta della Precessione, la Via Lattea prese un significato nuovo e decisivo: non solo era la fascia più spettacolare del cielo, era anche un punto di riferimento dal quale si poteva immaginare avesse avuto inizio la Precessione. Ciò sarebbe accaduto quando il sole equinoziale di primavera abbandonò la sua posizione nei Gemelli nella Via Lattea. Allorché ci si rese conto che il sole si era un tempo effettivamente trovato in tale posizione, si pensò che la Via Lattea potesse segnare la pista che il sole aveva abbandonato – una zona bruciata, per così dire, una cicatrice nel cielo.

Le nozioni decisive debbono tuttavia essere formulate più attentamente: diciamo quindi che la Via Lattea era un «punto» dal quale si poteva dire aver avuto inizio la Precessione, e che l’idea che s’ebbe non fu che la Via Lattea potesse segnare la pista che il sole aveva precessione-equinoziabbandonato, bensì che la Via Lattea era l’immagine di una pista abbandonata, una formula che offriva ricche possibilità di «raccontare» complessi mutamenti celesti.

Con questa immagine e qualche altro dato di tradizioni galattiche, possiamo ora concentrarci sulla formula mediante la quale la Via Lattea divenne la via degli spiriti dei morti, un percorso abbandonato dai vivi. Il sentiero abbandonato è probabilmente la formulazione originaria delle nozioni elaborate con insistenza intorno a un ipotizzato Tempo Zero.
Se la Precessione veniva vista come il grande orologio dell’Universo, il sole, nel suo spostarsi all’equinozio, rimaneva la misura di tutte le misure, l’«aurea fune», come dice Socrate nel Teeteto di Platone (153c); anzi, eccezion fatta per gli intervalli armonici, il sole era l’unica misura assoluta fornita dalla natura. Esso va quindi necessariamente inteso come colui che dirige in ogni istante le «fughe» planetarie, come ha dimostrato sempre Platone nel Timeo. Così, quando il sole alla stazione di controllo si spostò verso la Via Lattea, anche i pianeti, si diceva, trasferirono le loro cacce in quella direzione.

Tutto ciò non ha molto senso, dal punto di vista geometrico, ma dimostra come un’immagine possa dominare le menti degli uomini e assumere vita propria. Non va però dimenticato il carattere tecnico di queste immagini, ed è proprio a questo fine che qui noi usiamo così spesso verbi come «chiamare» o «definire», invece dell’abituale «credere».

Per gli Indiani delle pianure dell’America del Nord, la Via Lattea era la pista polverosa lungo la quale si svolse un tempo una gara di corsa nel cielo tra il Bisonte e il Cavallo. Per i Fiote della Costa Loango africana, la gara si era svolta tra il sole e la luna. I Turu dell’Africa Orientale ritenevano fosse «la pista del bestiame» del fratello del Creatore, idea che si avvicina assai alla leggenda greca di Eracle che sposta la mandria di Gerione.

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Il convergere di tante piste di animali su questa strada celeste non è, ancora una volta, una vana congiunzione di fantasie. Gli Arawak della Guayana chiamano la Galassia «Via del Tapiro», e ciò trova conferma in un racconto del chiriguano e di alcuni altri gruppi dei Tupi-Guaranì dell’America del Sud. Secondo Lehman-Nitsche, queste popolazioni si riferiscono alla Galassia come alla «via del vero padre del Tapiro», un dio-tapiro di per sé invisibile.

Ora, se questa divinità nascosta risulta essere Quetzalcoatl in persona, sovrano di Tollan, città dell’Età dell’Oro, proprio «Tixli cumatz», il tapiro-serpente che dimora «nel mezzo del ventre del mare», secondo le descrizioni delle tribù maya dello Yucatan, ecco che le allusioni incominciano ad acquistare una certa nitidezza.
Lo schema vero e proprio lo si trova infine in quella tradizione degli indios cuna, secondo cui il Tapiro abbatte l’«Albero dell’Acqua Salata», alle cui radici si trova il gorgo di Dio, e quando l’albero cade, sgorga fuori acqua salata che va a formare gli oceani della terra.

Caso mai si ritenesse ancora che il Tapiro manchi di un’adeguata dignità, si possono aggiungere alcune testimonianze provenienti dall’Asia. Il Grande Bundahišn chiama la Galassia «sentiero di Kay-us», dal nome del nonno e collega di regno dell’Amleto iranico, Kay Khusraw. Fra le popolazioni altaiche, gli Yacuti chiamano la Via Lattea «le orme di galassia-alberiDio» e dicono che Dio, mentre creava il mondo, aveva vagato per il cielo; di uso più generale sembra essere stato il termine «solchi degli sci del figlio di Dio», mentre la denominazione usata dai Voguli era «solchi degli sci dell’uomo della foresta». E qui le tracce umane si perdono. Restano però le racchette da neve: per i Tungusi, la Galassia è «orme delle racchette dell’Orso».

Ma si tratti del figlio di Dio, dell’uomo della foresta o dell’Orso, questa figura mitica è nota per aver dato la caccia a un cervo lungo la Via Lattea: l’animale viene smembrato e le sue membra gettate nel cielo a destra e a sinistra del candido sentiero: è così che vengono separati Orione e l’Orsa Maggiore. Il «Piede del Cervo» fece subito venire in mente a Holmberg la «Coscia del Toro» dell’antico Egitto, l’Orsa Maggiore; col suo profondo intuito, egli avrebbe potuto facilmente spingersi oltre, fino al Messico, e riconoscere in quella possente coscia la «gamba» solitaria di Tezcatlipoca, sempre l’Orsa Maggiore (staccata con un morso dal segno del giorno «Coccodrillo», Cipactli), il grande Hunrakán (= una gamba) dei maya quiché.

Troviamo qui, appena sotto la superficie, un’insistente associazione di idee, ancora evidente nel vecchio nome olandese della Galassia, Brunelstraat, Brunel, Bruns, Bruin («il Bruno») è il familiare nome dell’orso del Roman de Renart, di origini quanto mai antiche. È uno strano assortimento di personaggi quello cui fu attribuita la responsabilità della Via Lattea: dèi e animali che abbandonarono il sentiero già usato al tempo della «creazione».
Ma dove andarono coloro che abbiamo citato, e i molti altri che non abbiamo preso in considerazione? Dipenda da dove erano, per così dire, partiti: spesso non è facile determinarlo, ma la loro «caduta» è comunque fuori discussione.

Quanto alla Vergine, che aveva lasciato la «terra» alla fine dell’Età dell’Oro, la sua sede nell’Età dell’Argento potrebbe definirsi una collocazione «a mezz’aria», un topos al quale sono stati esiliati molti personaggi iniqui, alcuni scagliati in basso, altri mandati verso l’alto: vi dimorò per qualche tempo Lilith e così anche re Davide, Adone, la stessa Torre di Babele e, prima di ogni altro, il Cacciatore Feroce.

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Questo consesso di figure mitiche «a mezz’aria» ci aiuta a trovare il significato di un altro racconto altrimenti senza senso, un vero fossile reperito nelle tradizioni popolari della Westfalia: «I Giganti chiamarono in aiuto Hackelberg [Odino in veste di Cacciatore Feroce]. Questi suscitò una tempesta e portò un mulino nella Via Lattea, che da allora si chiama Via del Mulino».

Ma non è questo l’unico «fossile»: il più stravagante è forse quello dei Cherokee, che chiamavano la Galassia «Dove corse il cane». Era senza dubbio un cane molto insolito, dal momento che aveva l’abitudine di rubare la farina da un mulino appartenente alla «gente del sud» e di scappare verso nord portandosela via: nella corsa lasciò cadere la farina, e questa è la Via Lattea.
È difficile riconoscere qui Iside che sparge spighe di grano mentre fugge da Tifone. Eppure, la predilezione che tutti questi cani, volpi e coyote mitici – ivi compreso, nel Sudan occidentale, Fenek «che apre la via» – hanno per la farina e per ogni sorta di graminacee (anzi, per essere più precisi, per «le otto specie di grano»), abitudine che difficilmente s’impara spiando Madre Natura, avrebbe potuto mettere sul chi vive gli specialisti: questi personaggi canini non vanno assolutamente presi nel loro senso letterale pseudo-zoologico.

Così, il percorso è stato abbandonato da tutto e da tutti: Cacciatore Feroce, cane e mulino – quest’ultimo perlomeno nella sua parte superiore, poiché attraverso il buco della macina inferiore sale e scende ribollendo il gorgo.

(Santillana-von Dechend, Il mulino di Amleto)