Non si sottolineerà mai abbastanza l’importanza della riorganizzazione che si produce al livello narcisistico, in opposizione con lo stadio precedente della seconda sintesi [del tempo]. Difatti, mentre l’io passivo diventa narcisistico, la sua attività deve essere pensata, e non può esserlo se non come l’affezione, la modificazione stessa che l’io narcisistico prova passivamente da parte sua, rinviando perciò alla forma di un Io che si esercita [e dunque agisce] su di lui come un «Altro».
Questo io attivo, se pure incrinato, non costituisce soltanto la base del super-io, ma è il correlato dell’io narcisistico, passivo e ferito, in un insieme complesso da Paul Ricoeur definito felicemente un «cogito fallito». Invero non si dà altro cogito se non fallito, né altro soggetto se non larvale.
Si è visto prima che l’incrinatura dell’io era soltanto il tempo come forma vuota e pura, liberata dai suoi contenuti. Il fatto è che l’io narcisistico appare sì nel tempo, ma non costituisce affatto un contenuto temporale, in quanto la libido narcisistica, il riflusso della libido sull’io, fa astrazione da ogni contenuto.
L’io narcisistico è piuttosto il fenomeno che corrisponde alla forma del tempo vuoto senza colmarla, il fenomeno spaziale di questa forma in generale (ed è questo fenomeno di spazio a presentarsi in maniera differente, nella castrazione nevrotica e nella frantumazione psicotica).
La forma del tempo nell’io determina un ordine, un insieme e una serie. L’ordine formale statico del prima, del durante e del dopo segna nel tempo la divisione dell’io narcisistico o le condizioni della sua contemplazione. L’insieme del tempo si raccoglie nell’immagine dell’azione formidabile, così come è a un tempo presentata, interdetta e predetta dal super-io: l’azione = x. La serie del tempo designa il confronto dell’io narcisistico diviso con l’insieme del tempo o con l’immagine dell’azione. L’io narcisistico ripete una prima volta, sul modo del prima o della mancanza, sul modo dell’Es (l’azione è troppo grande per me), una seconda, sul modo di un divenire–uguale infinito proprio dell’io ideale, e una terza volta, su un modo del dopo che realizza la predizione del super-io (l’Es e l’io, la condizione e l’agente saranno a loro volta annientati). Poiché la stessa legge pratica non significa altro se non la forma del tempo vuoto.
Quando l’io narcisistico prende il posto degli oggetti virtuali e reali, e assume su di sé lo spostamento degli uni come il mascheramento degli altri, non sostituisce un contenuto del tempo con un altro, anzi ci introduce nella terza sintesi.
Si direbbe che il tempo ha abbandonato ogni contenuto memoriale possibile, e spezzato così il circolo in cui Eros lo determinava. Il tempo si è srotolato, raddrizzato, ha assunto l’ultima figura del labirinto, il labirinto in linea retta che è, come scrive Borges, «invisibile, incessante». Il tempo vuoto fuori dai suoi cardini, col suo ordine formale e statico rigoroso, il suo insieme schiacciante, la sua serie irreversibile, è per l’appunto l’istinto di morte.
L’istinto di morte non entra in un ciclo con Eros, non ne è affatto complementare o antagonista, e non ne è in alcun modo simmetrico, ma rende conto di un ben diverso sistema.
Alla correlazione di Eros e Mnemosine, si sostituisce la correlazione di un io narcisistico senza memoria, massimamente amnesico, e di un istinto di morte senza amore, desessualizzato. L’io narcisistico non ha ormai che un corpo morto, ha perduto il corpo insieme con gli oggetti: attraverso l’istinto di morte si riflette nell’io ideale, e presagisce la sua fine nel super-io, come in due parti dell’io incrinato.
Questo rapporto dell’io narcisistico e dell’istinto di morte, è lo stesso che Freud sottolinea così profondamente, quando afferma (in L’io e l’Es) che la libido non rifluisce sull’io senza desessualizzarsi, senza formare un’energia neutra spostabile, capace essenzialmente di porsi al servizio di Thanatos.
Ma perché Freud pone così l’istinto di morte come preesistente a tale energia desessualizzata, indipendente da essa in linea di principio? Senza dubbio per due ragioni, di cui l’una rimanda alla persistenza del modello dualistico e conflittuale che ispira tutta la teoria delle pulsioni, l’altra, al modello materiale che presiede alla teoria della ripetizione.
Questo spiega perché Freud ora insiste sulla differenza di natura tra Eros e Thanatos, per cui Thanatos deve essere qualificato per se stesso in opposizione a Eros; ora su una differenza di ritmo o di ampiezza, come se Thanatos raggiungesse lo stato della materia inanimata, e s’identificasse così con quella potenza di ripetizione bruta e nuda, che le differenze vitali procedenti da Eros hanno soltanto il compito di ricoprire o contrastare.
Ma in ogni modo la morte, determinata come ritorno qualitativo e quantitativo del vivente alla materia inanimata, è suscettibile solo di una definizione estrinseca, scientifica e oggettiva; e Freud rifiuta stranamente ogni altra dimensione della morte, ogni prototipo o ogni presentazione della morte nell’inconscio, benché poi ammetta l’esistenza di tali prototipi per la nascita e la castrazione.
Ora, la riduzione della morte alla determinazione oggettiva della materia manifesta il pregiudizio secondo il quale la ripetizione deve trovare il suo principio ultimo in un modello materiale indifferenziato, al di là degli spostamenti e mascheramenti di una differenza seconda o opposta.
Solo che, in verità, la struttura dell’inconscio non è conflittuale, opposizionale o di contraddizione, bensì interrogativa e problematizzante. Né la ripetizione è potenza bruta e nuda, al di là degli spostamenti che verrebbero ad investirla secondariamente come altrettante varianti, ma s’intesse invece nel mascheramento e nello spostamento intesi come elementi costitutivi a cui non preesiste.
La morte non appare nel modello oggettivo di una materia indifferente inanimata, alla quale «tornerebbe» il vivente, ma è presente nel vivente, come esperienza soggettiva e differenziata fornita di un prototipo. Essa non consiste in uno stato di materia, corrisponde invece a una pura forma che abbia abiurato qualunque materia, alla forma vuota del tempo. (Ed è assolutamente la stessa cosa, vale a dire una maniera di riempire il tempo, tanto subordinare la ripetizione all’identità estrinseca di una materia morta, quanto subordinarla all’identità intrinseca di un’anima immortale.)
Il fatto è che la morte non si riduce alla negazione, né al negativo di opposizione né al negativo di limitazione. Né la limitazione della vita mortale attraverso la materia, né l’opposizione di una vita immortale con la materia, danno alla morte il suo prototipo. La morte è piuttosto la forma ultima del problematico, la fonte dei problemi e delle domande, il segno della loro permanenza al di là di ogni risposta, il Dove e Quando? che designa il (non)-essere in cui si alimenta ogni affermazione. […]
Non si vede dunque alcuna ragione per supporre un istinto di morte che si distingua da Eros, mediante una differenza di natura tra le due forze, o mediante una differenza di ritmo o di ampiezza tra due movimenti. In entrambi i casi, la differenza sarebbe già data, e Thanatos indipendente.
A nostro avviso, al contrario, Thanatos si confonde interamente con la desessualizzazione di Eros, con la formazione di quella energia neutra e spostabile di cui parla Freud. Quest’ultima non passa al servizio di Thanatos, ma lo costituisce: tra Eros e Thanatos non c’è una differenza analitica, vale a dire già data, in una stessa «sintesi» che li riunisca entrambi o li avvicendi.
Non che la differenza sia meno grande, anzi è più grande, in quanto sintetica, proprio perché Thanatos significa una sintesi del tempo ben diversa da Eros, tanto più esclusiva in quanto è prelevata su di lui, costruita sulle sue rovine. Nello stesso tempo Eros rifluisce sull’io; l’io assume su di sé i travestimenti e gli spostamenti che caratterizzavano gli oggetti, per farne la propria affezione mortale; la libido perde ogni contenuto mnestico, e il Tempo la sua figura circolare, per assumere una forma retta inesorabile; l’istinto di morte infine appare, identico a questa forma pura, energia desessualizzata della libido narcisistica.
La complementarità della libido narcisistica e dell’istinto di morte definisce la terza sintesi, così come Eros e Mnemosine definivano la seconda. E allorché Freud dice che a questa energia desessualizzata, correlativa alla libido divenuta narcisistica, va forse ricollegato il processo del pensare in generale, dobbiamo intendere che, contrariamente al vecchio dilemma, non si tratta più di sapere se il pensiero è innato o acquisito.
Né innato, né acquisito, il pensiero è genitale, vale a dire desessualizzato, prelevato in quel riflusso che ci apre al tempo vuoto. «Sono un genitale innato», diceva Artaud, volendo dire altresì un «acquisito desessualizzato», per indicare la genesi del pensiero in un io sempre incrinato.
Non c’è ragione di acquisire il pensiero, né di esercitarlo come un’inneità, ma di generare l’atto di pensare nel pensiero stesso, forse sotto l’effetto di una violenza che fa rifluire la libido sull’io narcisistico, e parallelamente estrarre Thanatos da Eros, astrarre il tempo da ogni contenuto per liberarne la forma pura. Dunque è un’esperienza della morte che corrisponde a questa terza sintesi.
Freud attribuisce all’inconscio tre grandi lacune: il No, la Morte e il Tempo. E tuttavia nell’inconscio non c’è che il tempo, la morte e il no. Forse che questo significa soltanto che essi sono agiti senza essere rappresentati?
Più propriamente l’inconscio ignora il no perché vive del (non) essere dei problemi e delle domande, ma non del non-essere del negativo che «tocca» soltanto la coscienza e le sue rappresentazioni. Ignora la morte perché ogni rappresentazione della morte concerne l’aspetto inadeguato, mentre l’inconscio coglie il rovescio, scopre l’altro volto. Ignora il tempo perché non è mai subordinato ai contenuti empirici di un presente che passa nella rappresentazione, ma opera le sintesi passive di un tempo originario.
È a queste tre sintesi come costitutive dell’inconscio che bisogna tornare. Esse infatti corrispondono alle figure della ripetizione, così come appaiono nell’opera di un grande romanziere: il laccio, la funicella sempre rinnovata, la macchia sul muro, sempre spostata, la gomma, sempre cancellata. La ripetizione-laccio, la ripetizione-macchia, la ripetizione-gomma costituiscono i tre aldilà del principio del piacere.
La prima sintesi esprime la fondazione del tempo su un presente vivente, fondazione che dà al piacere il suo valore di principio empirico in generale, a cui è sottoposto il contenuto della vita psichica nell’Es.
La seconda sintesi esprime il fondamento del tempo attraverso un passato puro, il fondamento che condiziona l’applicazione del principio di piacere ai contenuti dell’io.
Ma la terza sintesi designa il senza-fondo in cui ci precipita lo stesso fondamento: Thanatos viene qui scoperto come il senza fondo al di là del fondamento di Eros e della fondazione di Habitus, e inoltre presenta col principio di piacere un tipo di rapporto sconcertante, che si esprime spesso nei paradossi insondabili di un piacere legato al dolore (ma in realtà si tratta di ben altro: si tratta della desessualizzazione in questa terza sintesi, in quanto essa inibisce l’applicazione del principio di piacere come idea direttrice e pregiudiziale, per procedere poi a una risessualizzazione in cui il piacere non tocca ormai se non un pensiero puro e freddo, apatico e gelido, come si vede nel caso del sadismo e del masochismo).
In un certo senso la terza sintesi riunisce tutte le dimensioni del tempo, passato, presente, avvenire, e li fa muovere ora nella pura forma. In un altro senso, essa determina la loro riorganizzazione, poiché il passato è respinto verso l’Es come la condizione per difetto in funzione di un insieme del tempo, e il presente si trova definito dalla metamorfosi dell’agente nell’io ideale. In altro senso ancora, l’ultima sintesi concerne solo l’avvenire, in quanto essa annuncia nel super-io la distruzione dell’Es e dell’io, del passato come del presente, della condizione come dell’agente.
È a questo punto estremo che la linea retta del tempo riforma un circolo, ma particolarmente tortuoso, o che l’istinto di morte rivela una verità incondizionata nel suo «altro» volto: appunto l’eterno ritorno in quanto quest’ultimo non fa tutto ritornare, ma viceversa «investe» un mondo che si è sbarazzato del difetto della condizione e dell’uguaglianza dell’agente per affermare soltanto l’eccessivo e il disuguale, l’interminabile e l’incessante, l’informale come prodotto della formalità più estrema. Così finisce la storia del tempo, e spetta al tempo disfare il proprio cerchio psichico o naturale, troppo ben centrato, e formare una linea retta, ma che, trascinata dalla propria lunghezza, riformi un cerchio eternamente decentrato.
L’eterno ritorno è potenza di affermare, e afferma tutto del molteplice, tutto del differente, tutto del caso, tutto… tranne ciò che li subordina all’Uno, allo Stesso, alla necessità… tranne l’Uno, lo Stesso e il Necessario.
Dell’Uno, si dice che si è subordinato il molteplice una volta per tutte. E non è questo il volto della morte? Ma non è l’altro volto a far morire una per tutte, a sua volta, tutto ciò che opera una volta per tutte?
Se l’eterno ritorno è in rapporto essenziale con la morte, ciò accade perché promuove e implica «una volta per tutte» la morte di ciò che è uno. Se è in rapporto essenziale con l’avvenire, ciò accade perché l’avvenire è lo spiegamento e l’esplicazione del molteplice, del differente e del fortuito in sé e «per tutte le volte».
La ripetizione nell’eterno ritorno esclude due determinazioni: lo Stesso o l’identità di un concetto subordinante, e il negativo della condizione che riferirebbe il ripetuto allo Stesso e assicurerebbe la subordinazione.
La ripetizione dell’eterno ritorno esclude nello stesso tempo il divenire-uguale o il divenire-simile al concetto, e la condizione per difetto di un tale divenire. Viceversa essa concerne sistemi eccessivi che legano il differente al differente, il molteplice al molteplice, il fortuito al fortuito, in un insieme di affermazioni sempre coestensive alle domande poste e alle decisioni prese.
Si dice che l’uomo non sa giocare: il fatto è che egli, anche quando si dà una combinazione o una molteplicità, concepisce le proprie affermazioni come destinate a limitarlo, le sue decisioni come destinate a scongiurarne l’effetto, le sue riproduzioni come destinate a far ritornare lo stesso sotto un’ipotesi di vincita.
È appunto un cattivo gioco quello in cui si rischia di perdere quanto di vincere, poiché non vi si afferma tutto il caso: il carattere prestabilito della regola che fraziona ha come correlato la condizione per difetto nel giocatore che ignora quale frammento uscirà.
Il sistema dell’avvenire, invece, va denominato gioco divino, in quanto la regola non preesiste, e il gioco verte già sulle proprie regole, e il bambino-giocatore non può che vincere, l’intera sorte essendo affermata ogni volta e per tutte le volte.
Quindi anziché restrittive o limitative, le affermazioni sono coestensive alle domande poste e alle decisioni da cui promanano: un tal gioco comporta la ripetizione del colpo necessariamente vincente, in quanto è tale solo a forza di abbracciare tutte le combinazioni e le regole possibili nel sistema del proprio ritorno.
In questo gioco della differenza e della ripetizione, regolato dall’istinto di morte, nessuno è andato più lontano di uno scrittore così straordinario come Borges: «Se la lotteria è un’intensificazione del caso, una periodica infusione del caos nel cosmo, non converrebbe fare intervenire il caso in tutto le fasi del gioco, e non in una sola? Non è ridicolo che il caso detti la morte di qualcuno e che le circostanze di questa morte – pubblica o segreta, immediata o ritardata d’un secolo – non siano anch’esse soggette al caso?… In realtà, il numero dei sorteggi è infinito. Nessuna decisione è finale, tutte si ramificano in altre. Gli ignoranti suppongono che infiniti sorteggi richiedano un tempo infinito; basta, in realtà, che il tempo sia infinitamente divisibile… (Borges, La lotteria a Babilonia).
«In tutte le opere narrative, ogni volta che s’è di fronte a diverse alternative, ci si decide per una e si eliminano le altre; in quella del quasi inestricabile Ts’ui Pên, ci si decide, simultaneamente, per tutte. Si creano così, diversi futuri, diversi tempi, che a loro volta proliferano e si biforcano. Di qui le contraddizioni del romanzo. Fang, diciamo, ha un segreto; uno sconosciuto batte alla sua porta. Fang decide di ucciderlo. Naturalmente, vi sono vari scioglimenti: Fang può uccidere l’intruso, l’intruso può uccidere Fang, entrambi possono salvarsi, entrambi possono restare uccisi, eccetera. Nell’opera di Ts’ui Pên, questi scioglimenti vi sono tutti; e ognuno è il punto di partenza di altre biforcazioni» (Borges, Il giardino dei sentieri che si biforcano).
(Deleuze, Differenza e ripetizione)
***
Possiamo, a questo punto, abbozzare un nome per ciascuna delle tre sintesi che scandiscono i tre tempi della Ripetizione – possiamo chiamarle le sintesi di Afrodite, di Eros e di Thanatos. O anche le tre «Terre», e i relativi «Climi», a cui è stata chiamata ad arrangiarsi la nostra esistenza, fino a… diventare «umana».
La Terra Celeste di fondazione – è la libido passiva (Afrodite, il principio di piacere, quello che ci spinge al di là delle ciliegie, al di là del bisogno, al di là del solo pane, insomma – la libido di cui ci impregna la «volontà» dell’Es: ricordi? vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole…). È la libido di cui è fatto «oggetto» Narciso, ancor prima di giungere dinanzi a uno specchio – oggetto dei desideri altrui (delle ninfe e dei fauni della foresta), ancor prima di agire il piacere della sua prima contemplazione.
La Terra Terrestre del fondamento – è il primo, acerbo, erotismo attivo, il primo esercizio «narcisistico», la prima emergenza di un «io» che viene a costituirsi sulle vaghe onde di un Passato Puro, da cui affiora in virtù di un primitivo «grumo di memoria» al servizio esclusivo della Ripetizione del piacere, ossia nella sola ed esclusiva tensione a ripetere il Mai Avvenuto, e a replicare nel Miraggio dello specchio l’Avvenenza del Mai Veduto su questa terra.
E infine, la più problematica, la nostra, l’Umana, la Terra Sotterranea del senza-fondo – l’abisso, Thanatos, l’«istinto di morte» in cui l’io precocemente affonda, trascinato giù dal suo stesso fondamento «erotico»: donde il «rapporto sconcertante» che si viene a instaurare tra il piacere e la morte, nonché lo straziante dolore che «musica» il disfacimento e l’abbandono delle primitive «contemplazioni» desideranti.
Afrodite [Urania] è il «no inconscio», l’oggetto x, il Mai Visto. Eros è il «tempo inconscio», ciclica, periodica, ripetizione della differenza di cui fa tesoro solo Mnemosine. E Thanatos è la «morte inconscia», la fine della breve stagione «erotica», il sopravvento di un piacere altro, desessualizzato, anestetizzato, che sorge dalle rovine del narcisismo e attecchisce sulla sua letale «disperazione». Sorge là dove, come dice Freud, Narciso non ha più una «via d’uscita» dal suo problema.
Freud però, osserva Deleuze, finisce per subordinare il no, il tempo e la morte di Narciso alla loro rappresentazione estrinseca, «scientifica», «materiale». Se le accusa come «lacune» dell’inconscio, è solo perché insiste a prendere il no per il «negativo», il tempo per la sua Forma vuota e astratta, e la morte per una «potenza» altra, indipendente e che con Eros intrattiene una relazione «alla pari»: può vincere l’una o l’altro. L’«istinto di morte» sarebbe, per Freud, l’antagonista naturale, materiale del nostro «principio di piacere», ma trascura il fatto che il «piacere» diventa un «principio», solo a partire dall’esperienza che ci estingue alla nostra «sessualità» narcisistica.
La morte, ai morti non è dato rappresentarla. Solo i vivi se la rappresentano, ma è sempre la morte altrui che le loro rappresentazioni finiscono per mettere in scena. Non l’altra, non la propria morte, non quella che scava il vuoto nel Passato del nostro inconscio – e che non ha niente di «scientifico», e niente a che vedere con l’estinzione terminale d’una «materia».
L’istinto di morte è l’esperienza intrinseca di un Narciso vissuto – di un soggetto che ha sperimentato sulla propria pelle il fallimento del suo piacere, che ha abdicato alle forme e alle maschere del proprio «erotismo», che ha abiurato, messo al bando e a se stesso «interdetto» ogni «predetto» afrodisiaco, e che, facendo ora piazza pulita di ogni memoria, si sottomette alla Forma Vuota del desiderio, a un desiderio svuotato della sua molteplicità, a un desiderio raffreddato in tre tinozze di pensiero gelido, e che così infine «addomesticato» si adegua al regime termico dell’Es, alla volubile voluptas della «volontà», o degli «umori» dell’Es.