Nietzsche – La fuga apollinea nella bellezza

Per comprendere questo [velo che celava ai Greci il mondo dionisiaco], dobbiamo per così dire smantellare pietra per pietra l’edificio costruito con arte della cultura apollinea, fino a scorgere le fondamenta sulle quali si basa.
In primo luogo troviamo qui le splendide figure degli dèi olimpici, che stanno sul frontone di questo edificio, e le cui gesta, rappresentate in luminosi e ampi bassorilievi, Moreau-Apolloornano i suoi fregi. Anche se Apollo sta fra loro come una singola divinità accanto alle altre e senza la pretesa di una prima posizione, non dobbiamo però lasciarci trarre in inganno. Lo stesso impulso che si rese sensibile in Apollo generò altresì tutto quel mondo olimpico, e in questo senso Apollo può essere considerato il padre di quello stesso mondo.
Quale fu l’immenso bisogno dal quale scaturì una così splendente società di esseri olimpici?

Chi, con un’altra religione nel cuore, si avvicina a questi olimpici e cerca in loro altezza morale, anzi santità, spiritualità incorporea, misericordiosi sguardi d’amore, dovrà presto volger loro le spalle scontento e deluso. Niente qui ricorda ascesi, spiritualità e dovere: qui ci parla soltanto un’esistenza rigogliosa, anzi trionfante, nella quale tutto l’esistente è reso divino, non importa se sia buono o cattivo.
E così l’osservatore può rimanere profondamente colpito di fronte a questa fantastica esuberanza della vita, per chiedersi con quale filtro magico in corpo questi uomini spavaldi potessero aver goduto la vita al punto che, ovunque guardassero, sorrideva verso di loro Elena, l’immagine ideale della loro esistenza, «fluttuante in dolce sensualità».

Ma a questo osservatore, già volto all’indietro, dobbiamo gridare: «Non andar via, ma ascolta prima ciò che dice la saggezza popolare greca di questa stessa vita che davanti a te si estende con così inspiegabile serenità. L’antica leggenda narra che il re Mida per molto tempo inseguì nella foresta il saggio Sileno, il compagno di Dioniso, senza prenderlo. Quando questo infine gli cadde nelle mani, il re domandò quale fosse la cosa migliore e più desiderabile per l’uomo. Rigido e immobile tace il demone; finché, costretto dal re, uscì finalmente fra risa sibilanti in queste parole: “Stirpe misera ed effimera, figlia del caso e della fatica, perché mi costringi a dirti ciò che per te è vantaggiosissimo non udire? La cosa migliore è per te totalmente irraggiungibile: non essere nato, non essere, essere niente. Ma la seconda cosa migliore per te è – morire presto”».

Bacco-Mida

Come si rapporta a questa saggezza popolare il mondo degli dèi olimpici? Come la visione estatica del martire torturato ai suoi tormenti.
Ora si apre a noi in certo qual modo la montagna incantata dell’Olimpo e ci mostra le sue radici. Il Greco conobbe e sentì i terrori e le atrocità dell’esistenza: soprattutto per poter vivere, egli dové anteporre a queste la splendida nascita onirica degli dèi olimpici. Quell’enorme diffidenza verso le forze titaniche della natura, quella Moira spietatamente troneggiante su tutte le conoscenze, quell’avvoltoio del grande amico degli uomini Prometeo, quel destino tremendo del saggio Edipo, quella maledizione della stirpe degli Atridi, che induce Oreste al matricidio, insomma tutta quella filosofia del dio silvestre con i suoi esempi mitici, per cui perirono i melanconici Etruschi – fu dai Greci continuamente superata, o in ogni caso nascosta e sottratta allo sguardo, attraverso quel mondo artistico intermedio degli dèi olimpici.

Per poter vivere, i Greci dovettero, per la più profonda necessità, creare questi dèi: il loro avvento dobbiamo senz’altro rappresentarcelo così, che dall’originario titanico ordinamento divino del terrore attraverso quell’impulso apollineo alla bellezza si sviluppò, in lenti passaggi, l’olimpico ordinamento divino della gioia, nello stesso modo in cui le rose sbocciano da uno spineto. Come altrimenti avrebbe potuto sopportare l’esistenza quel popolo con una sensibilità così eccitabile, con desideri tanto impetuosi, David-Elena-Parideunico nella capacità di soffrire, se questa stessa non gli fosse stata mostrata nei suoi dèi, come circonfusa da una gloria superiore?

Lo stesso impulso che chiamiamo l’arte alla vita, come completamento e perfezionamento dell’esistenza che induce a continuare a vivere, diede anche origine al mondo olimpico, nel quale la «volontà» ellenica si mise dinanzi uno specchio trasfigurante. Così gli dèi giustificano la vita umana vivendola essi stessi – la sola teodicea soddisfacente!
L’esistenza sotto il chiaro bagliore solare di tali dèi viene sentita come ciò che è in sé desiderabile, e il vero dolore degli uomini omerici si riferisce al congedo da essa, soprattutto al congedo prematuro: così si potrebbe dire di loro, invertendo la saggezza silenica che «per essi la cosa peggiore di tutte è morire presto, la seconda cosa peggiore è, comunque, dover una volta morire».

Così, quando risuona il lamento, questo avviene per Achille dalla breve vita, per il mutare e l’avvicendarsi della stirpe umana simile a quello delle foglie, per il tramonto dell’età degli eroi. Non è indegno del più grande eroe il desiderio di continuare a vivere, sia pure come lavoratore alla giornata.
La «volontà» desidera, nello stadio apollineo, così impetuosamente questa esistenza, l’uomo omerico si sente a tal punto una sola cosa con essa, che lo stesso lamento diviene il suo inno di lode.

Qui si deve ora pur dire che questa armonia contemplata così nostalgicamente dagli uomini moderni, anzi quest’unità dell’uomo con la natura, per cui Schiller ha fatto valere il termine «ingenuo», non è in nessuna maniera uno stato così semplice da risultare in sé evidente, per così dire inevitabile, e in cui noi dobbiamo per forza imbatterci sulla soglia di ogni civiltà, come in un paradiso dell’umanità: ciò poté esser creduto solo da un’epoca che cercò di figurarsi l’Emilio di Rousseau anche come artista, educato nel cuore della natura.

Dove nell’arte incontriamo l’«ingenuo», dobbiamo riconoscerci l’effetto più elevato della cultura apollinea: quest’ultima avrà innanzitutto dovuto abbattere un regno di Titani e Tiepolo-Apollo-continentiuccidere mostri e, mediante potenti raffigurazioni chimeriche e ardenti illusioni, esser riuscita vittoriosa su una tremenda profondità della considerazione del mondo e una eccitabilissima capacità di dolore.
Ma quanto raramente viene raggiunta l’ingenuità, quel completo scomparire nella bellezza dell’apparenza! Come inesprimibilmente sublime è perciò Omero, che, in quanto individuo, si rapporta a quella cultura apollinea come il singolo artista sognante si rapporta al talento per il sogno del popolo e della natura in generale.

L’«ingenuità» omerica è da comprendere solo come la completa vittoria dell’illusione apollinea: è questa un’illusione come quella che la natura frequentemente adopera per raggiungere i suoi fini. Il vero scopo è coperto da un’immagine illusoria: noi tendiamo le mani verso questa, e la natura raggiunge quello attraverso il nostro inganno.
Nei Greci la «volontà» volle contemplare se stessa nella trasfigurazione del genio e del mondo dell’arte; per glorificarsi le sue creature dovettero sentirsi come degne di glorificazione, dovettero rivedersi in una sfera più alta, senza che questo mondo perfetto dell’intuizione agisse come imperativo o come rimprovero.

Questa è la sfera della bellezza in cui essi videro gli dèi olimpici, come le loro immagini riflesse in uno specchio.
Con questo rispecchiamento della bellezza la «volontà» ellenica lottò contro il talento, correlativo a quello artistico, per il dolore e per la saggezza del dolore: e come monumento della sua vittoria si erge davanti a noi Omero, l’artista ingenuo.

(Nietzsche, La nascita della tragedia: 3)

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carro-Apollo

L’apollineo di Nietzsche è, in poche parole, riducibile a quello «scomparire nella bellezza dell’Apparente», a quell’«annientarsi», a quel fare del proprio «essere» il Niente – pur di fuggire dal dolore e dalla visione del mondo che si schiude allo sguardo addolorato –, a quello «svanire» nella vanità dei miraggi e delle «belle» apparizioni, che fu proprio dei Greci, proprio della «volontà» ellenica, proprio dell’opzione esistenziale greca, proprio della voce dell’Es che parlava questo o quel dialetto greco.

Ogni forma esistente, non importa se buona o cattiva, ha per i Greci la sua esposizione alla luce: e ogni «realtà» presente alla luce, passa per l’esame di Apollo, il che vuol dire che s’ha da decidere solo se è bella o brutta, perché, quanto più è bella, seduce e si lascia sedurre dalla propria epifania sullo specchio del mondo, tanto più vi scorge una via di fuga dagli orrori e dai terrori del proprio «essere» notturno, lunatico, dai mille volti e sempre problematico, una via di fuga dal dolore e dall’incubo di esistere senza un perché, di fuga dalla saggezza che un Sileno qualsiasi, un qualunque «dionisiaco» analfabeta, potrebbe però in ogni momento rinfacciarle.
Perciò bisogna andare a teatro, andare cioè al culmine della Festa dionisiaca, se si vuole risentire un’eco, solo là essendo possibile udirla, appena una risonanza (come nelle parole del coro dell’Edipo a Colono) di questa «silenica» saggezza: Sarebbe stato meglio non essere nati... di quella «saggezza», dunque, proprio di quella che l’«apollineo» giove-fulmina-titanis’incarica di celare ai Greci, e che il «dionisiaco» invece continua a non perdere di vista.

Nietzsche ci invita qui a rimeditare la meditazione antica. Ci esorta a riprendere, anziché dare «ingenuamente» per risolto, il problema della Bellezza e, con esso, della funzione che l’Apparente, la Luce, il Sole, gioca nel destino della nostra vita, orientandolo all’illusione e all’autoinganno.
Su questo autoinganno dei nostri occhi alla luce del Sole si fonda quello che Nietzsche chiama l’«apollineo» della coscienza greca, per non dire della coscienza mediterranea tout court.

Il «tedesco» ha visto il sole mediterraneo, e ha intuito la differenza greca, la diversa voce che l’Es parlava per bocca dei Greci, tutt’altra che la «ascetica, spirituale, santa» declinazione che risuona nei rami orientali, persiano e indù, della stessa Lingua Indoeuropea.
Il «tedesco» è stato illuminato dai colori mediterranei, e si è lasciato pure lui affascinare dai loro giochi di luce, e così in un colpo d’occhio ha visto la differenza: ha visto che nessun altro popolo come quello greco si è spinto così innanzi, così fuori di sé, a rincorrere le apparenze, a scrivere figure e geroglifici sulla superficie del Libro del Mondo – e che nessuno ne poteva essere così ammaliato, nessuno essendo in esse così immerso da accogliere nel suo Olimpo ogni forma esistente, senza vederci niente di «peccaminoso», niente di «colpevole», anzi tutte esplorandole con una tale passione da scorgervi – nientemeno! – la via di fuga dal proprio Passato «barbaro».

Fuggire dal Passato, ma perché? Illudersi, lasciarsi ingannare e gioiosamente darsi a sedurre e ingannare gli altri – ma da dove questa emergenza? Da dove fuggire, se non dalla Mnemosine profonda del nostro «essere», dalla memoria cancellata dei nostri «terribili» e «dolorosi» inizi?
Se quegli inizi fossero davvero quel paradiso o quell’età dell’oro che amiamo raccontarci, se veramente fossero stati così «ingenui» da non avere, allora, di sé nessuna «scienza» e da essere, piuttosto, naturalmente votati all’«arte» e alla «creazione» di cose belle, non si vede perché ne saremmo dovuti venire via.

Tintoretto-rapimento-Elena

Dobbiamo andare a teatro, ritornare cioè alla Festa dionisiaca, per rivedere tra le righe uno squarcio di quel Paesaggio – oscuro, terribile, spaventoso, molteplice, caotico e innumerevole, da cui ancora qualcuno in lingua greca diceva (anche se solo nella finzione scenica!) di essere «migrato» seguendo ingenuamente le tracce lasciate dal passaggio di Bellezza. Migrato, per dimenticare il problema iniziale, il problema della propria insensata nullità: Sarebbe stato meglio non essere mai nati…
Ma, una volta nati, i Greci per dimenticarsi di sé sono giunti a fare nientemeno la guerra per Elena! E i «libri» in cui Omero l’aveva narrata, divennero non a caso la loro Bibbia, il breviario esistenziale per chi, come loro, era disposto a darsi a un’esistenza che «voleva» auto-ingannarsi, e a cui bastava (perfino Faust avrà la stessa fissazione) Elena la Bella, magari plasticamente rifatta, o mefistofelicamente procurata, pur di scordarsi delle «scienze» dolenti e analfabetiche e, anche se può sembrare un controsenso, perfino delle «contemplazioni erotiche» del suo Passato.