Ma il contrario di un sogno, che cos’è, o Fedro, se non un altro sogno?…
Un sogno di vigilanza, prodotto dalla ragione stessa.
(P. Valery)
Possiamo immaginare uno stato di terrore puro, assoluto. Forse l’abbiamo sfiorato nell’incubo, o nell’attesa, o nell’attimo di un terribile risveglio dopo una notte di sogni inquieti. O forse, anche, in quell’istante in cui la noia ci ha avvolti in una nebbia profonda, che ha reso indiscernibili i contorni delle cose abituali, incerto il terreno su cui posavano i nostri piedi, condannandoci alla rigida immobilità di un corpo preso in un gelo mortale.
Le cose sembrano allora, come ha detto Baudelaire, guardarci con volto familiare e straniero. Si avvolgono e si nascondono in simboli inconoscibili, e nessuna immagine, nessuna figura, nessun «come se», sembra essere in grado di soccorrerci. Il reale si presenta «allo stato puro e di colpo arresta il cuore».
Il reale allo stato puro, l’informe, l’ignoto senza nome e che non può, proprio per questo, «essere scongiurato, o invocato, o magicamente afferrato». Le strategie mitiche e razionali, che l’uomo ha messo in campo nella sua esistenza individuale e nella sua storia, sono state il tentativo di imporre «un nome al caos dell’innominato», e di dominare così «l’orrida casualità» attraverso i nomi, le figure, i riti, le liturgie, le ricorrenze, le ripetizioni.
Possiamo scorgere la posta in gioco di questa esigenza in due miti, fra i più resistenti e ricorrenti nella storia del pensiero umano: il mito di Narciso e il mito di Edipo.
Il mito di Narciso rappresenta il tentativo del soggetto di operare una sorta di revoca del reale, fissandosi soltanto sulla sua propria immagine. Ma l’immagine mostra, in primo luogo, che il soggetto può essere diviso, diventare altro, oggetto d’amore impossibile. Esso perde così la sua apparente generalità. L’immagine dello specchio fa intravvedere infatti i margini sfuggenti, ma al contempo nitidi e taglienti, della perdita e della morte.
Narciso scopre, guardandosi, di essere mortale. E questo oscuro alone di morte, che circonda la sua immagine, increspa la superficie delle acque, intorbida lo specchio, rende effimera la sua bellezza, trasformando anche il suo corpo in un paesaggio straniero e inquietante.
Edipo, viceversa, fino alla sua terribile cecità che gli impedisce di vedere altro che l’oscura profondità della sua anima, non pone in revoca il reale e i suoi enigmi. Egli cerca di risolvere, e risolve vincendola, l’enigma della sfinge, per giungere così al cuore stesso della realtà, nel suo segreto più profondo. Ma questo percorso lo conduce là dove la realtà non ha più nome: nel buio del grembo materno, nell’orrore dell’incesto, nel luogo in cui forze irresistibili piegano il soggetto e lo schiacciano inesorabilmente.
La volontà di sapere conduce all’oscurità senza nome. Il bisogno di mettere ordine, che è costitutivo dello spirito umano, come dice Valery, scopre il disordine di cui questo stesso spirito è fatto.
Eppure, come ha visto Blumenberg, il racconto stesso, il mito che rappresenta l’orrore e l’informe, è un dominio, anche se parziale e imperfetto, dell’orrore stesso. La parola e l’immagine aprono una via al pensiero, attraverso le cose, verso la forma, a una forma. La testa della Medusa raffigurata rappresenta la paura, ma non è la paura stessa.
Si può dunque giungere a un sistema di rappresentazioni che, in qualche modo, renda possibile percorrere il reale, che scavi e segni delle vie e dei sentieri là dove prima tutto si presentava come un deserto, come un morto paesaggio di pietra.
È a questo punto che l’uomo può pensare un dominio sulle cose che prima, senza nome e senza figura, apparivano come immerse in un indomabile orrore. Ma questo pensiero, via via che esercita il suo potere, si trasforma in un sogno, nel sogno della ragione, il sogno di una vigilanza assoluta: la costruzione di una rete linguistica e concettuale che chiuda in sé, senza alcuna smagliatura, tutto il reale.
Si tratta di trasformare il caso in causa, la contiguità in nesso e relazione. È nella massima tensione di questo sogno che la Grecia ha cominciato un processo di razionalizzazione, e quindi di negazione, del mito. È a questo punto che i Greci hanno fondato la geometria: «Era un’impresa insensata: noi discutiamo ancora sulla possibilità di questa follia» (P. Valery).
Essa ha richiesto, continua ancora Valery, argonauti dello spirito, duri nocchieri, che non si lasciavano distrarre dalle loro impressioni, che non si smarrivano nei loro pensieri.
Le cose perdono, in questa metamorfosi, definitivamente il loro aspetto opaco, rugoso e inquietante. I loro «nomi» non evocano più la memoria di fantasmi, o della notte della generazione ctonia o titanica, i grandi gesti d’orrore della genealogia degli dèi e degli uomini. Sono nomi nuovi, limpidi, senza ombre: «definizioni, assiomi, lemmi, teoremi, problemi, porismi, ecc.».
La ragione ha costruito un ordine, un sistema di referenze a cui nulla sembra poter sfuggire. La vertiginosa apparenza, lo stupore che essa suscita, sono, come dice Socrate a Teeteto, l’inizio della filosofia, il primo passo del dominio, della trasparenza, della teoria.
(Rella, Metamorfosi)
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La realtà «nuda e cruda», adesso, ci fa orrore. Noi ormai, la «realtà» la possiamo consumare soltanto «cotta». Solo così ce la rendiamo «commestibile».
La realtà è l’Anonima, la Sconosciuta. I nostri sensi, è da un po’ che non la percepiscono più, educati come sono a servire la Volontà del Nome. Fedeli e obbedienti a ciò che il Nome detta loro, i nostri sensi, ormai, non sentono che l’orrore della realtà «nuda e cruda», se e quando all’improvviso se la trovano di fronte – senza nomi, senza immagini, senza segni che la significhino. I nostri sensi sono pietrificati dalla Medusa della «carne cruda», senza veli, senza lo straccio di un lemma o di un minimo fonema che la travesta. Sono terrorizzati dalla Forma Vuota, dal Caos dell’Innumerevole o, come si diceva una volta, dalla molteplicità di vie del Labirinto.
Tutto ciò che è senza nome – è o non è?
Ma, certo che «è», rispose Parmenide – è il nostro Essere, è il nostro Passato, è il Remoto che ci coesiste comunque. L’Anonimo Rimosso ci «è» anzi talmente Presente, che dobbiamo continuamente inventarci una scusa, una doxa, una credenza, per distrarci dalla sua letale «miscredenza».
La Medusa è stata decapitata, ma non annientata. La Testa del Serpente non è stata ancora schiacciata dal calcagno della Donna – così, almeno, dice il Racconto. Dice che quella Testa Mozzata ancora parla. Anzi, che essa è la sola Langue Parlante. La sola a cui i nostri sensi rimettono le loro sensazioni.
Educati come sono stati, educati a venir via dal Labirinto, alla maniera greca, vale a dire: per la via di Narciso o per quella di Edipo – i nostri sensi insistono ad affidare il loro destino al differente nome che i Greci diedero all’una e all’altra «finzione» di realtà, a quella che Narciso «vede» sorgere nel desiderio e nella seduzione del suo proprio «doppio» immaginale, e a quella che Edipo «non vede» in una qualche forma umana, se non quando, al suo tramonto, si cava gli occhi e si assenta a ogni forma apparente.
I nostri sensi sono educati al dilemma: se, come Narciso, dire sì alla Bellezza, all’apparenza e alla visione, rifiutandosi di dare ascolto alle profferte del Discorso Umano per bocca di Eco, o se all’incontrario, come Edipo, optare per gli enigmi della Parola e per gli incesti verbali – con tutte le conseguenze annesse e connesse, per chi si avventura nell’invisibile.
Sono passati appena tre millenni. Ecco perché i nostri sensi ancora sentono il richiamo (ormai non più solo greco, ma freudiano) di Narciso ed Edipo. La Testa, come volevasi dimostrare, parla ancora. Ancora ripete la doppia antica Metafora del «fallimento» da cui, in entrambe le «finzioni», sorge l’Umano alla maniera greca, nella parola cioè d’un dialetto della Langue mediterranea e occidentale.
Piccola regione dell’universo metaforico. Non più che una provincia dell’impero della Langue. E poi, come dicevo, sono passati appena tre millenni da quando qualcuno «poetò» i due miti. È troppo poco per pensare che bastino a metterci al sicuro dalla realtà «nuda e cruda».
Se tutti i nomi vacillano, ci sono nomi però, come quelli di Narciso ed Edipo, che prima di esaurire la propria energia metaforica, ed estinguersi dal lessico immaginario, insistono a suggerirci una via, alla fine della quale comunque ci promettono una certa «sorpresa».
In entrambi i casi ci narreranno comunque di un tragico fallimento. Ma un fallimento narrato così bene come in questi due miti, non è un fallimento «nudo e crudo», ma il suo «doppio» diminuito. Non è più la Forma Vuota della paura, ma una paura sceneggiata. Non è più l’abisso in cui ogni desiderio, intuizione o intelligenza finisce per perdersi – ma è la sua Rappresentazione, il suo sedativo.
Perché, questo fa il Nome – e se, come nel caso di Narciso ed Edipo, lo fa così bene – allora sì che si può dire che il Nome trasforma «il caso in causa, la contiguità in nesso e relazione».
Non è responsabile la Ragione, di questo guasto. È il Mito, è il Racconto a «guastare» i nostri sensi. O meglio: a raccogliere in eredità il guasto dei nostri sensi alle prese con la realtà «nuda e cruda», e a dargli un senso.
A dare un senso umano (ma solo greco, poco più che freudiano) a ciò che un senso non ce l’ha. Insomma: ad annacquare uno spirito troppo forte. I Greci, questa forza eccessiva, questa prepotenza, la chiamavano ybris. Nominandola, la «guastavano». Sceneggiandola, smaltivano la sbornia. La Ragione viene dopo, molto dopo, a prendersi in carico l’eredità «colpevole» del Mito.