Freud – Il poeta e la fantasia

Su noi profani ha sempre esercitato una straordinaria attrazione il problema di sapere donde quella personalità ben strana che è il poeta tragga la propria materia – all’incirca nel senso della domanda rivolta da quel tal Cardinale all’Ariosto – e come egli riesca con surreal-cignoessa ad avvincerci, suscitando in noi commozioni di cui forse non ci saremmo mai creduti capaci. Il fatto che il poeta stesso, se lo interroghiamo in proposito, non sappia risponderci o ci risponda in modo del tutto inadeguato, non fa che aumentare il nostro interesse al problema; e poco conta se sappiamo benissimo che anche la più completa delle spiegazioni sulle condizioni della scelta della materia poetica o sull’essenza della creazione artistica formale non potrebbe in alcun modo aiutarci a divenire noi stessi poeti.

Potessimo almeno trovare in noi stessi, o in coloro che sono come noi, una qualche attività in certo modo affine al poetare! Ci sarebbe la speranza, indagando tale attività, di farci una prima idea approssimativa della creazione poetica. E in effetti, una qualche possibilità in questo senso sussiste: gli stessi poeti amano ridurre la distanza che li separa dai comuni mortali, e ci assicurano assai spesso che in ogni uomo è nascosto un poeta e che l’ultimo poeta scomparirà solo con l’ultimo uomo.

Dobbiamo provare a cercare le prime tracce dell’attività poetica già nel bambino? L’occupazione preferita e più intensa del bambino è il gioco. Forse si può dire che ogni bambino impegnato nel gioco si comporta come un poeta: in quanto si costruisce un suo proprio mondo o, meglio, dà a suo piacere un nuovo assetto alle cose del suo mondo. Avremmo torto se pensassimo che il bambino non prenda sul serio un tale mondo; egli prende anzi molto sul serio il suo gioco e vi impegna notevoli ammontari affettivi. Il contrario del gioco non è ciò che è serio, bensì ciò che è reale. Il bambino, nonostante i suoi investimenti affettivi, distingue assai bene il mondo dei suoi giochi dalla realtà e appoggia volentieri gli oggetti e le situazioni da lui immaginati alle cose visibili e tangibili del mondo reale. Questo appoggio e null’altro distingue il «giocare» del bimbo dal «fantasticare».

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Anche il poeta fa quello che fa il bambino giocando: egli crea un mondo di fantasia, che prende molto sul serio; che, cioè, carica di grossi ammontari affettivi, pur distinguendolo nettamente dalla realtà. La lingua tedesca ha preservato l’affinità che sussiste tra il gioco dei bimbi e la creazione poetica, indicando con la stessa parola i lavori teatrali (Spiele), ossia quelle produzioni poetiche che richiedono un appoggio a oggetti tangibili e che sono suscettibili di venir rappresentate, e i giochi (Spiele). Donde, a indicare la commedia e la tragedia, Lustspiel (letteralmente: recita o gioco piacevole) e Trauerspiel (recita o gioco luttuoso), e l’attore è lo Schauspieler (giocatore che dà spettacolo). Dalla irrealtà del mondo poetico derivano conseguenze assai notevoli per la tecnica artistica; giacché molte cose, che in quanto reali non potrebbero procurare godimento, possono invece farlo nel gioco della fantasia, e spesso un eccitamento di per sé propriamente penoso può divenire, per l’uditore o lo spettatore del poeta, fonte di piacere.

Vi è un’altra considerazione che c’induce a soffermarci ancora un momento sulla opposizione tra realtà e gioco. Quando il bambino è cresciuto e ha smesso di giocare, e dopo che si è travagliato per decenni a concepire la realtà della vita con la serietà che essa richiede, egli si può trovare un bel giorno in una disposizione di spirito che disfa nuovamente l’opposizione tra gioco e realtà. L’adulto può rendersi conto dell’assoluta serietà che egli attribuiva da bimbo al suo gioco e, confrontando le sue severe Lost gameoccupazioni attuali con quei giochi di bimbi, si libera dall’insopportabile oppressione della vita e si procura il piacere ineffabile dell’umorismo.

L’individuo crescendo smette dunque di giocare, e sembra rinunciare a conseguire il piacere che ritraeva dal gioco. Ma chi conosce la vita interiore dell’uomo, sa che non vi è cosa più difficile della rinuncia a un piacere già una volta gustato. Effettivamente noi non possiamo rinunciare a nulla e solo barattiamo l’una cosa con l’altra, così che ciò che sembra una rinuncia altro non è in realtà che la formazione di un sostitutivo o surrogato. Così anche l’adolescente, quando smette di giocare, abbandona soltanto l’appoggio agli oggetti reali: invece di giocare ora fantastica. Egli fabbrica castelli in aria, costruisce quelli che si dicono sogni a occhi aperti. Io ritengo che la maggior parte degli uomini in certi momenti si dedichi a fantasie. È questo un fatto che è stato trascurato per molto tempo e di cui non è stata quindi valutata a pieno l’importanza.

L’attività fantastica dell’uomo si può osservare meno agevolmente del gioco dei bambini. Il bambino gioca talora anche da solo o ai fini del gioco costituisce con altri bambini un sistema psichico chiuso, ma anche quando non gioca di fronte agli adulti non nasconde loro il suo gioco. L’adulto invece si vergogna delle sue fantasie e le nasconde agli altri, coltivandole entro di sé come cose assolutamente private e intime: in genere preferisce confessare le proprie colpe piuttosto che comunicare le proprie fantasie. Può darsi che per questa ragione egli si ritenga il solo che inventi tali fantasie, non sospettando la generale diffusione negli altri di creazioni del tutto corrispondenti. Questo diverso comportamento di chi gioca e di chi fantastica trova il suo fondamento nei motivi di queste due attività, diversi anche se l’una è la continuazione dell’altra.

Il gioco del bambino era diretto da desideri, e propriamente da quello specifico desiderio che è di così grande aiuto nella sua educazione: il desiderio di essere grande e adulto. Egli gioca sempre a «essere grande», e imita nel gioco quel che riesce a conoscere della vita degli adulti. Non ha quindi ragione di nascondere questo desiderio. Nell’adulto le cose stanno in un altro modo: da un lato sa che da lui non ci si attende più che giochi o fantastichi ma che agisca nel mondo reale, dall’altro fra i desideri che provocano le sue Alice (2004) 160x130fantasie ve ne sono alcuni che è assolutamente necessario nascondere: perciò egli si vergogna delle sue fantasie, come di cose fanciullesche e illecite.

Ci si potrebbe chiedere donde mai si ricavino notizie così precise sulle fantasie degli uomini, se essi le ricoprono di tanta segretezza. Ma vi è una specie di uomini, ai quali non un dio, ma una dea severa – la Necessità – ha imposto di comunicare il loro cordoglio e ciò di cui vanno lieti. Sono i soggetti nervosi, i quali, al medico da cui attendono guarigione mediante un trattamento psichico, debbono confessare anche le loro fantasie. Da questa fonte provengono le nostre conoscenze più esatte; e abbiamo buone ragioni per supporre che i nostri ammalati nulla di diverso ci dicano da quanto potremmo venir a sapere anche dai sani.

Accingiamoci dunque ad apprendere alcuni dei caratteri dell’attività fantastica. Si deve intanto dire che l’uomo felice non fantastica mai; solo l’insoddisfatto lo fa. Sono desideri insoddisfatti le forze motrici delle fantasie, e ogni singola fantasia è un appagamento di desiderio, una correzione della realtà che ci lascia insoddisfatti. I desideri promotori sono vari, secondo il sesso, il carattere e le condizioni di vita della persona che si abbandona alla fantasia; essi si possono tuttavia raggruppare, senza forzatura, secondo due direzioni fondamentali: o sono desideri ambiziosi, che servono a elevare la personalità, o sono desideri erotici.

Nella giovane donna dominano quasi esclusivamente i desideri erotici, giacché la sua ambizione si esaurisce di regola nel tendere all’amore; nell’uomo giovane accanto ai desideri erotici hanno notevole rilievo anche quelli egoistici e ambiziosi. Tuttavia non vogliamo rilevare il contrasto delle due direzioni, ma piuttosto la loro frequente unificazione. Così come in molte pale d’altare è visibile in un angolo il ritratto del donatore, nella maggior parte delle fantasie ambiziose si può scoprire in un qualche angolino la dama, per la quale l’individuo che fantastica compie tutte le sue eroiche imprese e ai cui piedi depone ogni successo. Come si vede, vi sono qui motivi abbastanza forti per nascondere queste cose; alla donna bene educata viene riconosciuta in genere solo una minima parte dei suoi bisogni sessuali, e il giovane uomo deve imparare a reprimere l’eccesso di quella presunzione che è retaggio dei vezzeggiamenti infantili, se vuole inserirsi nella società tanto ricca di individui similmente presuntuosi.

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Non dobbiamo immaginarci i prodotti di questa attività fantastica, e cioè le singole fantasie, castelli in aria, sogni a occhi aperti, come rigidi e immutabili. Si adattano invece alle variabili impressioni offerteci dalla vita, mutano a ogni cambiamento della nostra posizione, da ogni nuova vivace impressione traggono per così dire un «contrassegno temporale». Il rapporto della fantasia col tempo è in genere molto significativo. Si deve dire che una fantasia ondeggia quasi fra tre tempi, i tre momenti temporali della nostra ideazione.

Il lavoro mentale prende le mosse da un’impressione attuale, un’occasione offerta dal presente e suscettibile di risvegliare uno dei grandi desideri del soggetto. Di là si collega al ricordo di un’esperienza anteriore, risalente in genere all’infanzia, in cui quel desiderio veniva esaudito; e crea quindi una situazione relativa al futuro la quale si configura come appagamento di quel desiderio: questo è appunto il sogno a occhi aperti o fantasia, recante in sé le tracce della sua provenienza dall’occasione attuale e dal ricordo passato. Dunque passato, presente e futuro, come infilati al filo del desiderio che li attraversa.

Il più banale degli esempi può illustrare il mio enunciato. Prendiamo il caso di un giovinetto povero e orfano, a cui è fornito l’indirizzo di un datore di lavoro, presso il quale può forse trovare occupazione. Per la strada, andandovi, egli si abbandonerà a una Maleev-fantasy-worldsfantasticheria, acconcia alla situazione che l’ha fatta sorgere. Il contenuto di tale fantasia potrà essere questo: egli è assunto, va a genio al nuovo principale, si rende indispensabile nella ditta, è accolto nella famiglia del padrone, ne sposa l’avvenente figlioletta, e dirige quindi egli stesso la ditta prima come socio e poi come successore. In tal modo il sognatore ha ristabilito quanto già possedeva durante l’infanzia felice: la casa protettiva, i genitori amorosi e i primi oggetti dei suoi sentimenti di tenerezza. Si vede in tale esempio come il desiderio utilizzi un’occasione offerta dal presente per progettare, secondo il modello del passato, un’immagine dell’avvenire.

Ci sarebbero ancora molte cose da dire sulle fantasie; mi voglio però limitare ad alcuni accenni scheletrici. L’eccesso di effusione e di intensità delle fantasie costituisce le condizioni per la caduta nella nevrosi o nella psicosi; le fantasie sono anche i primi abbozzi mentali dei sintomi morbosi lamentati dai nostri ammalati. Da qui si dirama un’ampia via laterale che conduce alla patologia.

Non posso neppure trascurare la relazione delle fantasie con i sogni. I nostri sogni notturni – come si ricava dall’interpretazione – altro non sono che fantasie. Il linguaggio, nella sua impareggiabile sapienza, ha da gran tempo risolto il problema dell’essenza dei sogni, indicando come «sogni a occhi aperti» anche le aeree creazioni della fantasia. Se nonostante tale indicazione il senso dei nostri sogni ci rimane perlopiù oscuro, ciò dipende dal fatto che durante il sonno notturno divengono in noi attivi anche desideri di cui ci vergogniamo e che dobbiamo nascondere a noi stessi: che perciò dunque sono stati rimossi, cacciati nell’inconscio. A tali desideri rimossi e alle loro derivazioni non può essere concesso di esprimersi che in una maniera fortemente deformata. Ma dopo che il lavoro scientifico è pervenuto a delucidare la deformazione onirica non è stato difficile riconoscere che i sogni notturni sono appagamenti di desideri, al modo stesso dei sogni a occhi aperti, e cioè delle fantasie ben note a ognuno.

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Tutto ciò per le fantasie; ma ora occupiamoci del poeta. Dobbiamo proprio tentare di confrontare il poeta col «sognatore in pieno giorno», e le sue creazioni con i sogni fatti a occhi aperti? Certo s’impone qui una prima distinzione. Dobbiamo separare quei poeti che accolgono una materia già formata, come gli antichi epici e tragici, da coloro che sembrano creare liberamente la loro materia. Limitiamoci a questi ultimi e scegliamo, per il nostro confronto, non i poeti massimamente valutati dalla critica, ma quei più modesti scrittori di romanzi, novelle e racconti, che proprio per ciò trovano un più vasto pubblico di lettori e di lettrici appassionati.

Nelle opere di questi narratori vi è un elemento tipico che ci deve colpire; esse hanno tutte un eroe che è posto al centro dell’interesse, per il quale l’autore cerca di guadagnare con ogni mezzo la nostra simpatia e che egli sembra proteggere con una provvidenza particolare. Quando alla fine del capitolo di un romanzo abbiamo lasciato l’eroe sanguinante per gravi ferite e privo di sensi, siamo sicuri di ritrovarlo all’inizio del capitolo seguente amorevolmente curato e sulla via della guarigione; e se il primo volume si è concluso con l’affondamento durante una tempesta della nave recante il nostro eroe, siamo sicuri di leggere al principio del secondo volume la storia del suo salvataggio miracoloso, senza il quale il romanzo non potrebbe continuare.

Il senso di sicurezza con cui accompagniamo l’eroe nel corso delle sue paurose avventure è lo stesso di quello con cui nella vita reale un eroe si lancia in acqua per Maxwell-seduzionesalvare uno che è in procinto di annegare, o si espone al fuoco nemico per andare all’assalto di una posizione avversaria; quel vero sentimento eroico che uno dei nostri migliori scrittori, Anzengruber, ha espresso in maniera stupenda: «Es kann dir nix g’schehen» [«Nulla ti può accadere»]. Ritengo però che attraverso questo trasparente carattere dell’invulnerabilità si renda senza fatica riconoscibile Sua Maestà l’Io, l’eroe di tutte le fantasticherie come di tutti i romanzi.

Anche altri tipici attributi di questi racconti egocentrici indicano la stessa parentela. Quando tutte le donne del romanzo si innamorano dell’eroe, ciò non va inteso come una descrizione della realtà, ma come necessario contenuto della fantasticheria. Lo stesso si può dire quando gli altri personaggi del romanzo si dividono nettamente in buoni e cattivi, in spregio di quella varietà degli umani caratteri che si osserva nella realtà; i «buoni» sono gli alleati, i «cattivi» i nemici e concorrenti dell’Io che è divenuto l’eroe.

Con ciò non s’intende disconoscere che molte creazioni poetiche si mantengono ben lontane dal modello di un ingenuo sogno a occhi aperti; ma non posso fare a meno di sospettare che anche i casi che maggiormente se ne allontanano possano esser congiunti a questo modello attraverso una catena ininterrotta di passaggi intermedi.
Anche in molti dei cosiddetti romanzi psicologici mi ha sempre colpito che un solo personaggio, l’eroe, è descritto dall’interno: dentro la sua anima vi è in un certo senso l’autore, il quale invece guarda agli altri personaggi dal di fuori.

Il romanzo psicologico deve la sua peculiarità in genere alla tendenza che lo scrittore moderno ha di scindere il proprio Io, mediante auto-osservazione, in Io parziali, personificando in più eroi i conflitti che agitano la propria vita interiore.
Sembrano contrastare nettamente col tipo del sogno a occhi aperti i romanzi che si potrebbero definire in certo modo «eccentrici», nei quali cioè il personaggio introdotto come eroe ha una minima parte come attore e invece contempla come osservatore le azioni e le sofferenze altrui. Molti fra gli ultimi romanzi di Zola sono di tale specie.
Devo però osservare che l’analisi psicologica ci ha permesso di rintracciare in individui che, pur non essendo poeti, divergono per molti elementi dalla cosiddetta norma, analoghe variazioni nelle fantasticherie, in cui l’Io si limita alla parte di osservatore.

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Se il nostro confronto del poeta col sognatore a occhi aperti, e della creazione poetica col sogno così fatto, è valido, deve soprattutto rivelarsi in qualche modo proficuo. Cerchiamo per esempio di applicare alle opere del poeta il principio sopra enunciato del rapporto della fantasia con i tre tempi e col desiderio che tutti e tre li attraversa, e vediamo di studiare con un tale aiuto le relazioni che intercorrono tra la vita del poeta e le sue creazioni. Non si è saputo di solito a qual partito appigliarsi per accostare il problema; assai spesso ci si è rappresentata questa relazione in modo fin troppo semplice. In base a ciò che sappiamo delle fantasie, ci dovremmo attendere che le cose stiano così: una forte impressione attuale risveglia nel poeta il ricordo di un’esperienza anteriore perlopiù risalente all’infanzia, e da questo deriva ora il desiderio, che si crea il proprio appagamento nell’opera poetica; nella stessa opera poetica si rivelano elementi tanto del fatto recente che ha fornito lo spunto quanto dell’antico ricordo.

Non lasciamoci spaventare dal carattere complicato di questa formula. Secondo me essa si rivelerà, in effetti, uno schema inadeguato, ma una prima approssimazione allo stato reale delle cose può pur esservi contenuta, e, in base a qualche indagine che ho intrapresa, penserei che questo modo di considerare le invenzioni poetiche non debba essere del tutto infecondo. Quanto al rilievo così dato in modo forse eccezionale ai ricordi d’infanzia nella vita dei poeti, non dimenticate che in ultima analisi esso è una Dalì-saltimbanchiconseguenza della proposizione iniziale per cui tanto l’attività poetica quanto la fantasticheria costituiscono una continuazione e un sostitutivo del primitivo gioco di bimbi.

Non trascuriamo infine di tornare su quella classe delle opere poetiche in cui non sono da vedersi libere creazioni ma elaborazioni di un materiale già dato e noto. Anche qui rimane al poeta una certa indipendenza, che può esprimersi nella scelta del materiale e nelle modificazioni talora profonde che egli vi apporta. Per quel tanto poi che i materiali sono già dati, essi derivano dal patrimonio popolare di miti, leggende e favole. L’indagine su queste formazioni della psicologia dei popoli non è affatto esaurita; tuttavia, ad esempio per i miti, è assolutamente probabile che essi corrispondano ai residui deformati di fantasie di desiderio di intere nazioni, e cioè ai sogni secolari [continuati per secoli] della giovane umanità.

Direte che ho qui raccontato molte più cose delle fantasie che non del poeta, cui pure ho dato il primo posto nel titolo del mio scritto. Lo so bene; e a mia giustificazione mi appellerò a quello che è lo stato attuale delle nostre conoscenze. Potevo soltanto presentare suggerimenti ed esigenze, che, provenendo dallo studio delle fantasie, investono il problema della scelta del materiale poetico. L’altro problema, quello dei mezzi mediante i quali il poeta ottiene in noi gli effetti emotivi che egli suscita con le sue creazioni, non è stato toccato. Cercherò almeno di indicare la via che dal nostro esame delle fantasie conduce al problema dell’effetto poetico.

Si ricorderà che abbiamo affermato che il sognatore a occhi aperti nasconde accuratamente agli altri le proprie fantasie, giacché ha motivo di vergognarsene. Aggiungo ora che, anche se ce le comunicasse, non riuscirebbe a procurarci piacere alcuno con le sue rivelazioni. Tali fantasie, quando le apprendiamo, ci destano una certa ripugnanza, o tutt’al più ci lasciano freddi. Quando invece il poeta ci rappresenta i suoi statua-dea-anforadrammi o ci racconta ciò che noi siamo inclini a interpretare come suoi personali sogni a occhi aperti, proviamo un vivissimo piacere che probabilmente deriva dalla confluenza di molte fonti. Come il poeta riesca a far ciò, è il suo particolarissimo segreto; la vera ars poetica consiste nella tecnica per superare la nostra ripugnanza, la quale è certo in connessione con le barriere che si elevano fra ogni singolo Io e gli altri.

Possiamo supporre due mezzi di questa tecnica: il poeta addolcisce il carattere della sua fantasticheria egoistica alterandola e velandola; e ci seduce con un profitto di piacere puramente formale, e cioè estetico, che egli ci offre nella presentazione delle sue fantasie. Il piacere così ottenuto, che ci viene offerto per rendere con esso possibile sprigionare, da fonti psichiche più profonde, un piacere maggiore, può esser detto premio di allettamento o piacere preliminare. Io sono convinto che ogni piacere estetico procuratoci dal poeta ha il carattere di un tale piacere preliminare, e che il vero godimento dell’opera poetica provenga dalla liberazione di tensioni nella nostra psiche. Forse contribuisce non poco a tale esito il fatto che il poeta ci mette in condizione di gustare d’ora in poi le nostre fantasie senza alcun rimprovero e senza vergogna. Con ciò siamo giunti alla soglia di nuove, interessanti e complesse indagini, ma anche, almeno per questa volta, al termine del nostro esame.

(Freud, Il poeta e la fantasia)