Colli – La vita è un’astrazione

Ciò che trapassa dal contatto alla rappresentazione, nel manifestarsi dell’apparenza, costituisce il carattere della comprensione, appartenente alla rappresentazione. È tutto quello che del contatto viene effettivamente espresso dalla concatenazione espressiva.
Per un verso, infatti, se l’espressione è espressione, allora ciò che essa esprime deve pur Legnechev-volticontenere tutto questo. […] D’altro canto [però], alla natura dell’espressione inerisce un elemento di manchevolezza, di insufficienza, che si ripercuote nella spinta all’oggettivazione, ossia nel carattere, opposto al precedente, dell’estensione.
L’espressione guadagna in estensione ciò che le manca in adeguatezza. E la categoria della totalità fornisce un aspetto equilibratore, dove il difetto dell’espressione sembra trovare un compenso.

Questa insufficienza peraltro, mentre è insita nell’espressione, accenna anche a un’insufficienza nel profondo. L’espressione è manchevole per natura, ma appunto perché la sua natura è di esprimere, essa esprime anche qualcosa che è in sé insufficiente.
Nell’abisso dell’immediatezza c’è una resistenza, un ostacolo, una contrazione (parlando simbolicamente), e l’espressione porta con sé tutto questo.
La mancanza che sta nel contatto è qualcosa di insuperabile: l’espressione ribadisce questa insufficienza proprio mentre il suo significato, nel manifestare questa resistenza, sarebbe di sfuggirle, di superarla. Essa perde l’immediatezza, ma inventa, integra ciò che manca al contatto: la totalità.
Se nel profondo qualcosa potesse cambiare, i contatti si confonderebbero in una totalità inestesa, extrarappresentativa. Invece una totalità estensiva è raggiunta solo se si abbandona l’immediatezza dei contatti, ed è quasi una riparazione per quell’abbandono.

Dato e non concesso che nell’immediatezza vi sia qualcosa del soggetto, e anche se ogni discorso sul soggetto è mitico e sgusciante, diremo che nel ricordo si ha un restringimento della sfera del soggetto. Non tutto il soggetto che era presente nel contatto viene conservato nel ricordo: qui il soggetto si scinde, e una parte, che era nel contatto, diventa oggetto del ricordo, mentre la parte rimanente è il soggetto ricordante.
Di qui l’attenuazione della vivezza dell’immediato nel ricordo, poiché quello che là era soggetto è ora oggetto.

Dalì-Isabel-Styler

Il processo si ripete a ogni grado della rappresentazione e con l’ascesa verso l’astrazione l’ambito del soggetto va sempre più restringendosi. Man mano che l’oggetto si distingue, ciò avviene a spese del soggetto: questo perde qualcosa, una sua parte diventa oggetto.
Noi possiamo ricordare perché il soggetto è ancora simile, è l’elemento comune tra il contatto e il ricordo; chi ricorda è pressoché lo stesso che era nel contatto, ma ciò che viene ricordato non è il contatto come tale, bensì qualcosa di meno, perché ne rimane escluso appunto il soggetto ricordante.
In sé comunque il soggetto non è nulla: come non è nulla il soggetto che impropriamente si suppone presente nel contatto, così non è nulla il soggetto ricordante, il cui contenuto è solo negativo, indica solo la differenza tra il contatto e l’oggetto del ricordo. Del pari il soggetto del ricordo in un ricordo più astratto diventerà in parte un oggetto.

In quanto espressione significa anche lasciar cadere qualcosa nell’immediato, si dovrà dire che l’astrazione non comincia soltanto con le espressioni seconde, ma già caratterizza, in un significato più universale, anche le espressioni prime. E oggettivare è già un astrarre.
Allora la vita nel suo complesso è astrazione. Quello che crediamo vivo non è che un Carrington-donne-cavallioggetto. In sé l’immediato è oppresso – quest’oppressione si esprime nel mondo.

Dove c’è rappresentazione, non c’è più l’immediato – quindi è un controsenso volersi rappresentare il passaggio dall’immediato al mediato.
Dove comincia la coscienza, cessa l’immediato. Quindi il tempo, lo spazio, gli oggetti, il mondo, la storia sono fuori dell’immediato e pura astrazione.
Le passioni più ardenti dell’uomo sono pure astrazioni. Perché a noi queste cose astratte sembrano vive? sembrano le sole cose vive? Perché esse ricordano, esprimono direttamente ciò che sta sul fondo della vita, ma in sé è fuori del nostro ricordo e della nostra coscienza, non era né è né sarà, non è un oggetto.

Di conseguenza non c’è un termine di paragone concreto, rispetto a cui possa chiarirsi ad ognuno che questo mondo è un’apparenza, e in tutto e per tutto astrazione, rappresentazione, illusione di soggetti conoscenti che in sé non sono nulla.
Si può cogliere piuttosto un trasferimento dalla radice nascosta dei contatti – una loro propagazione, ripercussione, un sogno della loro oppressione profonda – in questa vita illusoria, in cui le astrazioni conservano ancora qualcosa di non analizzabile, che riflette il fondo dell’immediato.

Per questo si crede che questo mondo non lasci nulla al di fuori, e non è possibile dimostrare il contrario, perché l’immediato non è rappresentabile e perché la dimostrazione appartiene invece alla rappresentazione.
Ma per chi è nell’immediato – e tutte le cose lo sono – non occorre dimostrare.

(Colli, Filosofia dell’espressione)

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Dove comincia la coscienza, cessa l’immediato:

immediato > contatto > coscienza
[cfr. ripetizione > sintesi passive > sintesi attive]

Una cosa è il contatto, l’esperienza passiva della «rottura» del continuo, della «falla» che il contatto apre nell’immediatezza; altra è la sua rappresentazione attiva, mediata dalle immagini e dalle parole «coscienti e deste».
Dall’una all’altra – dalla «differenza» che il contatto sottrae al fluire immediato, al suo mascheramento e spostamento nel ricordo e nella coscienza – tutto ciò che si trasmette è solo il «tono», solo la Stimmung, solo il «colore» del contatto. Solo questo «carattere» avanza, dice Colli – che, però, la rappresentazione, nello stesso tempo in cui lo «esprime», non può fare a meno di «tradire», a esso contrapponendo il suo proprio «carattere», la sua «impronta», ovvero la sua tendenza a «oggettivare», a trattare e manipolare solo «oggetti».

Come a dire: più si estende fuori, più astrae e si allontana dall’esperienza viva del «contatto», e meno la rappresentazione se n’intende.
Più la rappresentazione ne fa un «oggetto» del suo rappresentare, più riduce l’esperienza del «contatto» a un caput mortuum sepolto sotto il linguaggio. A un «niente», a cui per non soccombere essa si sente obbligata a opporre il suo «tutto». La «totalità», infatti, è maschera-mortesolo un artificio della rappresentazione: le serve a mascherare il Vuoto che sempre la minaccia, le serve a sedare il suo horror vacui.

Nel cuore di ogni espressione, prima, seconda o anche terza che sia, giace però sempre una «sillaba morta». In fondo a ogni espressione è all’opera una mancanza, un venir meno, un difetto che la fonda e la precede. Non ci mancano infatti solo le immagini e le parole con cui esprimere, comprendere e rappresentare pienamente l’esperienza del contatto. È il contatto stesso a essere in sé già mancante, a sorgere da un manco d’immediatezza, e insieme a rimettere in qualche modo il destino della sua insufficienza al «medium» espressivo. A rimettere all’espressione, come dice Colli, la mancanza che l’opprime [nel profondo]. Ad affidarle in consegna qualcosa di «morto» da scandire tra le «sillabe immortali» della Parola, come recitano le Upanisad.

Morto in ogni rappresentazione è l’«immediato» stesso, perché l’«immediato» resiste, rilutta, si oppone e rimane «straniero» a ogni sorta di astrazione: anziché esibirsi piuttosto si contrae nel guscio della sua immediatezza, e si sottrae a ogni espressione, a ogni tentativo di definizione, a ogni discreto che ne spezzi il continuum. L’immediato non rilascia all’espressione che un vago tono, appena un’eco del suo ritornello.
Perciò, per quanto appassionata sia, nessuna rappresentazione verrà mai a capo dell’immediato – e sarà sempre respinta a tentare di rappresentare al più il «Paese di mezzo» del «contatto», a esplorare la «Differenza» patita a metà strada tra il Cielo e la Terra, poco prima di mettere piede nel Reame dei ricordi e delle reliquie.

Nel «contatto» l’immediato si patisce, perciò non trova posto in nessuna memoria, in nessuna sintesi attiva: nel bene e nel male, se ne trova traccia solo nelle nostre passioni. E perciò solo dai «colori» delle nostre passioni possiamo, vagamente, intuire la «sillaba morta» da cui presero lo slancio le nostre fughe alla volta dell’«astrazione».
C’è sempre qualcosa nell’espressione, dice Colli, qualcosa che «muore», qualcosa «che cade nell’immediato», che si chiama fuori dal gioco della rappresentazione, che rimane nell’ombra e nell’indeterminato – qualcosa che l’immediato trascina via con sé, nel Reame dell’oblio e della dimenticanza: qualcosa di così «reale» che non «ci sta» in nessuna nostra rappresentazione della «realtà».