Una volta, in una tenda solitaria sulle rive di un lago, vivevano un uomo, sua moglie e i loro due figli: una ragazza e un ragazzo.
Ogni giorno l’uomo andava a caccia, ma prima di partire era solito dipingere la donna completamente di rosso, spalmandole il viso, le mani e tutto il corpo con una tintura che, secondo lui, doveva proteggerla da ogni pericolo. Solo che, appena lui partiva, la donna lasciava i bambini da soli per correre al lago ad attingere acqua e, quando ritornava, la pittura rossa era scomparsa e, cosa strana, i suoi capelli erano disciolti.
Sicché, la sera, quando tornava (come al solito, a mani vuote) dalla caccia, il marito la trovava sempre «senza colore». Non osando però chiedere spiegazione alla donna, domandò alla figlia maggiore: «Che cosa fa la mamma ogni giorno? Quando esco la dipingo, ma quando torno il rosso con cui l’ho dipinta è sparito».
La ragazza rispose: «Appena tu parti per la caccia, lei va ad attingere acqua e di solito sta via per molto tempo».
L’indomani, l’uomo dipinse come al solito la moglie e poi, con arco e frecce, uscì dalla tenda. Invece però di andare a caccia, discese alla riva del lago, scavò un buco nella sabbia, e vi si appostò coprendosi completamente, ma lasciando una piccola fessura dalla quale poter guardare fuori.
L’uomo non era nascosto da molto, quando vide arrivare la moglie con un secchio. Quando fu vicina all’orlo dell’acqua, si tolse i vestiti, si sciolse i capelli e disse: «Na shu eh. Sono qui!». E subito dopo l’uomo vide l’acqua che incominciava a muoversi e uno spirito dell’acqua emergere dalle onde, strisciar fuori sulla terra, salire furtivamente sulla donna, avvolgersi intorno ad essa, e leccar via tutta la pittura rossa che era sul suo corpo.
L’uomo uscì allora dal nascondiglio e si precipitò verso la coppia. Col coltello fece a pezzi il mostro, e tagliò la testa alla moglie. I pezzi del mostro strisciarono e rotolarono indietro nell’acqua, e non furono mai più visti. L’uomo tagliò le braccia della donna all’altezza dei gomiti, e le gambe all’altezza dei ginocchi. E dicendo: «Ecco, prendi tua moglie!», gettò a uno a uno i pezzi e la testa nell’acqua. Poi ne aprì il corpo, estrasse un lato delle costole e le spelò.
Ritornato alla tenda, disse ai figli: «Ah, miei piccoli bambini, oggi ho avuto fortuna: ho ucciso un’antilope e portato un po’ di carne. Dov’è vostra madre?».
I bambini risposero: «La mamma è andata a prender acqua».
«Bene – disse lui. – Vostra madre sarà qui fra non molto. Nel frattempo vi cucinerò qualcosa da mangiare prima di andare via di nuovo». E cucinò un bricco di carne, la porse ai bambini ed entrambi la mangiarono.
Il bambino più piccolo, l’ultimo ad aver poppato, disse alla sorella: «Questo cibo ha il sapore della mamma!».
«Oh – disse la sorella. – Sta’ zitto, è carne di antilope».
Quando ebbero finito di mangiare, la sorella mise da parte un po’ di carne per la madre che, lei credeva, presto o tardi sarebbe tornata.
Il padre invece, raccolte le sue cose, partì con l’intenzione di non fare mai più ritorno. Sicché, i due bambini rimasero seduti nella tenda, e la ragazza confezionava mocassini e li ricamava con aculei di porcospino.
All’improvviso però udirono una voce fuori della tenda che diceva: «Io amo i miei bambini, ma essi non mi amano: essi mi hanno mangiato!».
La ragazza disse al fratello: «Guarda fuori della porta e vedi chi sta venendo!».
Il ragazzo guardò fuori e quindi gridò, spaventato: «Sorella, sta venendo la testa della mamma!».
«Chiudi la porta!», gridò la ragazza. Il bambino obbedì. La ragazza prese i suoi mocassini e i suoi aculei rossi, bianchi e gialli, li arrotolò ed afferrò il suo arnese per scavare radici.
Nel frattempo, la testa sbattendo contro la porta mormorava: «Figlia, apri la porta! Figlia, apri, sono la mamma!».
I fratelli corsero alla porta, l’aprirono e lasciarono che la testa rotolasse dentro la tenda, attraversandola fino in fondo. Poi saltarono fuori, si chiusero la porta alle spalle e corsero via a gambe levate. Mentre correvano, potevano ancora sentire la madre chiamarli dalla tenda.
Corsero a lungo, finché il ragazzo gridò: «Sorella, sono stanco; non ce la faccio più a correre». Ma la ragazza non gli diede ascolto: tirandolo per il vestito, lo trascinò con sé fin sulla sommità di una collina, da cui, volgendosi indietro, poterono vedere la testa che, rotolando, correva al loro inseguimento.
Il bambino era stremato, ma ancor di più era paralizzato dal terrore, quando la sorella ebbe l’idea di spargere dietro di sé una manciata di aculei gialli di porcospino: «Quando ero bambina – pensò – c’erano così tanti fichi d’India che non riuscivo ad attraversarli». Ed ecco spuntare una grande aiuola di alti e folti fichi d’India con delle grosse spine gialle.
Sicché, quando la testa giunse in quel luogo, rotolò sui fichi d’India e cercò di rovesciarli, ma continuava a essere presa dalle spine. Per molto tempo tentò di districarsi e di aprirsi un cammino, ma nel frattempo i due figli erano andati lontano.
Ma non passò molto tempo che, volgendosi indietro, videro la testa che stava nuovamente per raggiungerli. Il bambino si sentì quasi mancare: «Sorella – continuava a gridare. – Sono stanco, non ce la faccio a correre».
Allora la sorella gettò dietro di sé una manciata di aculei bianchi e, dove quelli toccavano il terreno, spuntarono folti cespugli di bullberry pieni di spine che impedivano il cammino alla testa rotolante.
I bambini ne approfittarono per correre via. Ma, appena si fermarono per tirare il fiato, si volsero indietro e videro che la testa era di nuovo vicina.
«Sorella, sono stanco, non posso più correre», disse ancora il ragazzo. E allora la sorella gettò dietro di sé una manciata di aculei rossi, ed ecco spuntò un roveto di spinosi cespugli di rose che bloccò la strada alla testa.
Di nuovo i ragazzi camminarono per un lungo tratto, ma nel giro di poco tempo la testa era di nuovo alle loro spalle. Allora la ragazza si fermò e, con la punta del suo arnese per scavare radici, tracciò un solco nel terreno e assieme al fratello l’attraversò.
Erano appena passati dall’altra parte, quando il solco divenne sempre più largo e sempre più profondo. Ben presto era un grande abisso con pareti a picco, sul cui fondo videro scorrere un po’ d’acqua.
«Bene – disse la ragazza. – Non correremo più. Staremo qui».
«No, no – disse il ragazzo. – Corriamo».
«No – rispose la ragazza. – È qui che ucciderò nostra madre».
La testa, intanto, era arrivata rotolando sull’orlo del burrone e qui si arrestò: «Figlia – disse –, dove hai attraversato? Posa il tuo attrezzo sul terreno perché possa anch’io attraversare».
La ragazza, sebbene il fratellino cercasse di impedirglielo, posò l’attrezzo in modo che la testa della mamma vi rotolasse sopra, ma quando questa era a metà strada, capovolse il bastone, di modo che la testa cadde giù nel burrone che si chiuse sopra di lei.
I bambini partirono allora alla ricerca dell’accampamento della loro Tribù, ma vi quando furono vicini, udirono una voce. Era la voce del loro padre che andava dicendo alla gente che i suoi due bambini avevano ucciso e mangiato la loro madre, e si raccomandava di non farli entrare nel campo, che stessero in guardia da quei due piccoli cannibali.
I ragazzi volevano fuggire, ma era troppo tardi: qualcuno li aveva avvistati. Furono catturati e legati mani e piedi. E quando, il giorno dopo, l’intera Tribù si trasferì, furono abbandonati là, ancora legati, al loro destino.
Nel campo c’era una vecchia cagna che sapeva cos’era capitato ed ebbe pietà dei bambini. Perciò, quando tutti furono partiti, andò dai due bambini e li confortò: «Nipotini – disse – provo pietà per voi e sono venuta ad aiutarvi».
La ragazza disse: «Slega prima me in modo che io possa slegare mio fratello».
La vecchia cagna cominciò a rosicchiare i lacci stretti alle mani della ragazza. Non aveva più denti, ma poté leccarli finché non si sciolsero. Finalmente libera, la ragazza slegò anche il fratellino, e prese con lui a vagare per il campo in cerca di qualcosa da mettere sotto i denti.
Ma la Tribù aveva portato via con sé ogni provvista. Perciò, stanchi e delusi, i due fratelli si abbandonarono a un pianto disperato. Perfino il cane piangeva assieme a loro. Non avevano niente da mangiare, non un posto dove dormire e niente con cui coprirsi, e ormai si approssimava l’inverno.
La ragazza e il cane sedevano versando lacrime con la testa china a terra. Solo il ragazzo, pur piangendo, si guardava intorno. Ed ecco all’improvviso disse: «Sorella, vedi quel lupo: sta venendo dritto verso di noi!».
«È inutile che io lo guardi, tanto non posso ucciderlo con lo sguardo, e non avremo di che mangiare».
«Guarda, guarda! – insisteva il fratello. – Viene dritto verso di noi!».
La ragazza sollevò finalmente la testa e, quando guardò il lupo, quello cadde morto.
Ora i due fratelli e il cane avevano di che sfamarsi, e per un po’ di tempo se la passarono bene. Dopo il lupo, toccò infatti a un’antilope cadere fulminata sotto lo sguardo della ragazza, e dopo l’antilope fu la volta dell’alce, e dopo ancora quella del bisonte.
Poiché incalzava la stagione fredda, c’era però bisogno anche di un riparo. Allora la ragazza, una sera mentre si addormentava, disse tra sé e sé: «Oh, come vorrei che domattina ci fosse una tenda laggiù, dove poter dormire al caldo tutt’e tre! E poi potrei fare un arco e delle frecce, cosicché mio fratello potrebbe uccidere i bisonti quando si avvicinano al campo in cerca di cibo». Espresse inoltre il desiderio che il fratello diventasse un giovane uomo, e che avessero sempre le rastrelliere colme di carne.
Quando al mattino il ragazzo si alzò e guardò fuori, disse: «Sorella, guarda: c’è una tenda laggiù». Era proprio nel posto che lei aveva sognato. Senza perdere tempo, ci andarono ad abitare. E quando il ragazzo entrò nella tenda, era un giovane uomo, e non più un bambino. Quell’inverno uccise molti bisonti, ed essi ebbero carne in abbondanza.
La sera dopo, mentre si addormentava, la ragazza espresse un altro desiderio. «Fratello – disse –, nostro padre ci ha trattati male. Ci ha fatto mangiare nostra madre, poi ci ha fatto legare e abbandonare dalla Tribù. Oh, come vorrei avere al mio servizio due orsi ai quali ordinare di divorare nostro padre!».
Il mattino seguente, quando la ragazza si alzò, due orsi stavano seduti all’entrata della tenda.
«Ehi, miei animali – disse la ragazza. – Alzatevi e mangiate». Diede loro del cibo, andò fuori e da una delle rastrelliere tirò via un pezzo di grasso sanguinolento. Chiamò un corvo appollaiato su un albero non lontano e gli disse: «Va’ in cerca dell’accampamento del mio popolo. Vola tra le tende e chiamali. E quando la gente esce e si domanda: “Cosa sta facendo quel corvo? e cosa sta portando?”, tu lascia cadere questo pezzo di grasso in mezzo alla folla, e di’ loro che chi ti manda possiede grandi steccati di carne».
Il corvo prese nel becco il pezzo di grasso e volò via. Trovò il campo e chiamò il popolo a raccolta. E quando qualcuno cominciò a domandare: «Cosa sta facendo quel corvo? e cosa sta portando nel becco?», il corvo lasciò cadere la carne, e qualcuno la raccolse dicendo: «Guardate, è grasso fresco!».
Allora il corvo disse: «I due ragazzi che avete abbandonati sono ancora là, nel vecchio accampamento, e hanno grandi provviste di carne».
Un vecchio urlò: «Quei bambini che abbandonammo hanno una grande quantità di carne, mentre noi qui patiamo la fame. Dobbiamo tornare al più presto indietro». La gente smontò le tende, e partì. Alcuni giovani andarono avanti e, quando giunsero al campo, la ragazza non solo li nutrì, ma diede anche loro carne da portare indietro agli altri. Presto arrivò l’intero villaggio, e si accampò non distante dalla tenda dei bambini, ed ognuno cominciò a presentarsi alla tenda per chiedere cibo.
La ragazza mandò a informare suo padre che aspettasse che tutta la Tribù si fosse nutrita, in modo da venire poi lui a mangiare con calma. Intanto disse agli orsi: «Sto mandando a chiamare l’ultimo abitante del villaggio: sarà il vostro cibo. Quando sarà venuto e avrà mangiato, io dirò: “Ecco il vostro cibo”, mentre egli uscirà dalla tenda. Allora potrete divorarlo tutto».
La sera, quando tutti si erano sfamati e fu finalmente il suo turno, venne il padre e si rallegrò coi figli: «Oh, bambini miei, vivete bene qui, avete tutta questa carne». Fu invitato a mangiare, ma non riuscì a consumare tutto ciò che la figlia gli aveva messo davanti. «Porterò a casa quello che è avanzato», disse, e si preparò a uscire dalla tenda.
La ragazza chiamò allora gli orsi: «Ecco il vostro cibo – disse. – Mangiatelo tutto!». Gli orsi saltarono addosso al padre e lo sbranarono. La ragazza disse: «Portatelo via in qualche altro posto e divoratelo, e quello che non mangiate gettatelo nel fiume».
Quello che gli orsi non mangiarono lo gettarono in un ruscello e poi se ne lavarono le mani, e nessuno seppe più che cosa ne era divenuto del padre.
Da allora, gli orsi hanno mangiato carne umana quando hanno potuto.
Il ragazzo e la ragazza ritornarono al campo e da quel giorno vissero sempre là.