Ovidio – Perché Proserpina non poté tornare a casa

Tutta rannuvolata in volto, piena di odio, stette la dea [Cerere] al cospetto di Giove coi capelli sciolti, e disse: «Vengo a pregarti, Giove, per colei che è sangue mio nonché tuo. Se io madre non conto nulla, commuoviti almeno per tua figlia. Voglio sperare che non te ne curerai di meno, solo perché a partorirla sono stata io! Ora sappi che dopo tanto cercare gufo-lifel’ho ritrovata [Proserpina], se può dirsi trovare l’avere la certezza d’averla perduta, o il sapere dove sia. Che sia stata rapita, pazienza! Purché [Plutone] me la renda! Tua figlia infatti non può sposare un ladrone, anche se magari come figlia mia lo potesse!».

Rispose Giove: «Tutt’e due siamo legati da affetto e impegnati verso nostra figlia; ma se vogliamo dare alle cose il loro vero nome, qui non si tratta di ingiustizia, ma di vero amore, e io non mi vergognerò d’un tal genero, sempre che tu, dea, acconsenti. Gli mancasse pure tutto il resto, conta – e quanto! – l’esser fratello di Giove! E poi, non gli manca niente e, se mi è inferiore, è solo perché così volle la sorte. Ma se desideri tanto la loro separazione, Proserpina tornerà a vedere il cielo, ma a una condizione: che laggiù non abbia toccato con la bocca alcun cibo. Così infatti hanno stabilito le Parche».

Così disse. E Cerere si preparò a riportare a casa sua figlia, ma il fato non permise che andasse così, perché la vergine aveva rotto il digiuno e, tutta sola aggirandosi tra giardini coltivati, aveva colto da un ramo incurvato un rosso melograno e, dalla pallida buccia avendoli staccati, ne aveva succhiato sette granelli.

L’unico a vederla fu Ascalafo, che a quanto si racconta era stato partorito nel folto di una selva oscura da Orfne – non certo la più sconosciuta delle ninfe d’Averno – la quale l’aveva avuto dal suo amato Acheronte.
La vide e fece la spia, togliendole così, crudele, la possibilità di tornare.

Mandò un gemito la regina dell’Erebo e fece del delatore un uccello del malaugurio: gli versò acqua del Flegetonte sul capo, e glielo mutò in una testa con becco e piume e grandi occhi luminosi.
Quello, sottratto alla propria forma, è avvolto da fulve ali, s’ingrossa nella testa e piega all’indietro le lunghe unghie, e a stento muove le penne spuntategli sulle braccia inerti, e diventa un turpe uccello, messaggero di lutto a venire, un gufo ignavo, terribile presagio per i mortali.

(Ovidio, Metamorfosi, 5: 512-550)

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gufo-occhi

Ecco perché si dice «gufare».
Gufando, si vuole, si auspica, la malasorte – la permanenza eterna e irrimediabile dell’«odiato» all’inferno. (Questioni di tenebre, di labirinti paranoici: il sentirsi perseguitati, per es., dal dover sfogare sadicamente la propria crudeltà, la propria aggressività su… e già, su che cosa – se non sugli «oggetti dei propri desideri»? Non potendoli «realizzare» che distruggendoli, e non avendo altro mezzo di distruzione che quello offertogli dalla parola, Ascalafo «gufa»).

È colpa sua, colpa del Gufo – se Proserpina non risorgerà mai più alla luce – se Proserpina non uscirà mai più dalle tenebre in cui la «maledizione» del Gufo l’ha imprigionata.
Toh, guarda un po’, l’ha vista mangiare sette granelli di melograno! L’ha vista coi suoi occhi! ce li hai presenti gli occhi del Gufo? beh, è con quegli occhioni che strabuzzano d’invidia e di gelosia, che il Gufo – gufando – condanna l’Immagine della Core, della Fanciulla Rapita e tradotta all’altro mondo, a restare per sempre la Forma Vuota, la Madonna Nera – che giace sul fondo, nell’abisso, nel cielo empireo della nostra immaginazione.

Puoi fare cento volte il giro del mondo dei racconti – vi troverai, monotona, sempre questa stessa storia: la Fanciulla fu rapita, dicono, andò sposa a una potenza celeste, o forse dal cielo piovve su di noi, ma ora è la Regina degli inferi, la Signora del nostro «sottosuolo», da cui non spuntano che le periodiche spighe delle sue miracolose incarnazioni – la Signora Virtuale, l’Afrodite Urania, l’Invisibile Diva, di sé, non dispensa Rossetti-Proserpinaaltro che miraggi e apparenze fugaci – nient’altro che squarci di velo che sembrano, per un istante, dare forma a Lei che invece è sempre fuori-di-forma, come insegna Ubu Re.

La Spiga dei nostri cieli, la stella α della Vergine, quella che segna il ritorno dell’Età dell’Oro – e, insieme, il ritorno all’Eterno – in tutti i racconti del mondo è la sola traccia che può ricondurci ai tempi dell’Evento che segnò il primo «manco», la prima «accusa» di mancanza, la prima «categoria» per orientarci alla ripetizione di Quella Vacanza che tuttora, a nostra insaputa, ci domina.
Magari, potesse risorgere di tanto in tanto – la bella figliola di Cerere. Stava passeggiando in un giardino di paradiso, quando Plutone – il fratello «minore» di Zeus, il «ladrone» come ci tiene a precisare Cerere – la rapì.

La figlia nata dalle nozze di Zeus e Cerere – di Cielo e Terra, la figlia, l’Acqua che doveva fungere da mediazione tra Cielo e Terra, è piovuta ed è discesa sotto terra.
Non risorgerà l’Acqua. No, Proserpina più non la rivedremo. Dacché invidia e gelosia hanno «gufato», Proserpina resterà per sempre laggiù sul fondo del nostro essere. L’Immagine senza Immagine. La Differenza Sottratta in illo tempore. La prima sintesi, il primo contatto… con la Mediatrice. La prima non-immediatezza. La prima volta che ne abbiamo patito la mancanza.

Ha mangiato un frutto proibito, dicono i Gufi colpevolisti.
E a loro fanno eco i Corvi: è una Sciantosa, una Impudente, l’abbiamo vista fare all’amore col primo sconosciuto.
Accuse antiche alla Fanciulla. Accuse preesistenti alla sua periodica venuta al mondo. La spiga ogni anno sorge muore e risorge. È lei, la sola stella che ci ricorda l’Età dell’Oro, il Passato Puro della nostra immaginazione.

Non ce ne ricordiamo niente, è vero, eppure è su di lei – e sulla «passione» che la sua mancanza ci ha segnata nell’anima – che si fonda ogni nostra memoria.
Sulla Dimenticata si regge la nostra memoria.
Il suo è stato un peccato alimentare, ribadiscono i Gufi.
No, obiettano a loro volta i Corvi: nossignori, l’abbiamo vista peccare di sesso.
Ma insieme concordano: la Fanciulla deve sparire per sempre dalla faccia della Terra!

Persecuzioni che, animalescamente, ci tramandiamo gufando, noi a nostra volta, a proposito dei nostri «vicini».
Non abbiamo le parole per parlare dell’Innocente, del Buono o del Bello. Non le abbiamo mai avute, se non storpiandole alla maniera dei Gufi e dei Corvi.
Puoi fare il giro del mondo dei racconti – tanto, il Racconto monotonamente ha solo da ripetere la stessa storia: perseguitando la Fanciulla, perseguitiamo sadicamente l’Oggetto dei nostri desideri: non sappiamo realizzarlo che come «oggetto», questo è il sadismo. Questa la crudeltà. Ci accaniamo a distruggere ciò che amiamo, per non riconoscere d’esserne dominati. D’altronde, come riconoscere la sua dominazione, se il Gufo l’ha avvolta nelle tenebre delle nostre paranoie?