Più di due generazioni fa, Nietzsche disse che il nichilismo, «questo ospite fantasma», «sta alla porta» (La volontà di potenza, §1). Nel frattempo l’ospite è entrato e non è più ospite, e l’esistenzialismo, per quel che riguarda la filosofia, sta cercando di vivere con lui. Vivere in tale compagnia significa vivere in una crisi. Gli inizi della crisi risalgono al XVII secolo, quando si forma la condizione spirituale dell’uomo moderno.
Tra le caratteristiche che hanno determinato tale situazione ce n’è una che Pascal per primo ha affrontato in tutte le sue terrificanti implicazioni ed ha esposto con tutta la forza della sua eloquenza: la solitudine dell’uomo nell’universo fisico della moderna cosmologia.
«Gettato nell’infinita immensità degli spazi che ignoro e che non mi conoscono, ne sono spaventato» (Pensieri: 205).
«Che non mi conoscono»: più che l’infinità intimidante degli spazi cosmici e dei tempi, più che la sproporzione quantitativa, cioè l’insignificanza dell’uomo come grandezza in tale vastità, è il «silenzio», ossia l’indifferenza di questo universo di fronte alle aspirazioni umane – il non conoscere le cose umane da parte di quello entro cui si svolgono tutte le vicende umane – che costituisce la profonda solitudine dell’uomo nella totalità delle cose.
Come parte di questa totalità, come esempio di natura, l’uomo è soltanto una canna, esposta al rischio d’essere schiacciata a ogni momento dalle forze di un universo cieco e immenso, in cui l’esistenza non è che un cieco accidente particolare, non meno cieco di quanto sarebbe la sua distruzione.
Come canna pensante, tuttavia, non fa parte della totalità, non appartiene ad essa, ma è radicalmente diversa, incommensurabile: perché la res extensa non pensa, così insegnava Cartesio, e la natura non è altro che res extensa – corpo, materia, grandezza esterna.
Se la natura schiaccia la canna, lo fa inconsapevolmente, mentre la canna – l’uomo – anche quando è schiacciata, ne ha coscienza.
Una canna solamente è l’uomo, la più fragile del mondo, ma una canna pensante. Non è necessario che l’universo si armi per distruggerlo: un soffio, una goccia d’acqua sono sufficienti per ucciderlo. Tuttavia, se il Tutto lo schiacciasse, l’uomo sarebbe ancora più nobile di ciò che lo distrugge: perché egli sa di morire e sa che l’universo è più forte di lui, mentre l’universo non sa niente di tutto ciò.
(Pascal, Pensieri: 347)
Soltanto l’uomo nel mondo pensa, non perché è parte della natura, ma nonostante ciò. Come egli non partecipa al significato della natura, ma semplicemente attraverso il suo corpo ad una sua determinazione meccanica, così la natura non partecipa ai suoi problemi interiori. Così ciò per cui l’uomo è superiore a tutta la natura, la sua unica distinzione, la mente, non sfocia più in una integrazione del suo essere con la totalità dell’essere, ma, al contrario, segna un abisso insormontabile tra l’uomo stesso e il resto dell’esistenza.
Estraniato dalla comunità dell’essere come un tutto unico, la sua coscienza lo fa soltanto sentire un estraneo al mondo, e in ogni atto di riflessione gli parla di tale completa estraneità.
Questa è la condizione umana. È finito il kosmos con il logos immanente con cui il proprio logos si sentiva affine; finito l’ordine del tutto in cui l’uomo ha il suo posto. Quel posto appare ora un puro accidente irragionevole: «Sono spaventato e sorpreso – dice Pascal (Pensieri: 72) – di trovarmi qui piuttosto che là, perché ora invece che dopo».
C’era sempre stata una ragione per il «qui» fintantoché il cosmo era stato considerato come il posto naturale dell’uomo, ossia finché il mondo era stato visto come «kosmos». Ma Pascal parla di «questo remoto angolo della natura», in cui l’uomo si dovrebbe «considerare come perduto», parla «dell’angusta cella in cui si trova collocato, cioè l’universo (visibile)». La totale contingenza della nostra esistenza nello schema priva quello schema di ogni senso umano, che possa farlo vedere come una struttura cui riferirsi per la comprensione di noi stessi.
Ma c’è in tale situazione qualcosa di più che un semplice sentimento di apolide, di solitudine e di paura. L’indifferenza della natura significa anche che la natura non ha rapporto col fine. Con l’esclusione della teleologia dal sistema delle cause naturali, la natura senza più scopi non fornisce alcuna sanzione per i possibili scopi umani.
Un universo senza un’intrinseca gerarchia di essere, come è l’universo copernicano, lascia i valori senza sostegno ontologico e l’io è abbandonato interamente a se stesso nella sua ricerca di un significato e di un valore.
Il significato non si trova più, ma viene «conferito». I valori non sono più considerati nella visione della realtà oggettiva, ma sono postulati come sforzi di valutazione. I fini, come funzioni della volontà, sono soltanto mia creazione. La volontà sostituisce la visione; la temporalità dell’atto elimina l’eternità del «bene in sé».
Questa è la fase nietzschiana della situazione in cui il nichilismo europeo appare alla superficie. L’uomo è ormai solo con se stesso.
Il mondo è una porta
su deserti che si stendono freddi e muti.
Chi una volta ha perduto
ciò che tu hai perduto, non può fermarsi più in nessun posto.
Così parlava Nietzsche (In solitudine), chiudendo la poesia con le parole: «Guai a colui che non ha casa!».
L’universo di Pascal, è vero, era ancora un universo creato da Dio, e l’uomo solitario, privo di ogni umano sostegno, poteva pur sempre sollevare il cuore verso il Dio trans-mondano. Ma questo Dio è un Dio sconosciuto, agnostos theos, e non è possibile scoprirlo nella sua creazione. L’universo non svela lo scopo del Creatore col disegno del suo ordine, né la sua bontà con l’abbondanza delle cose create, né la sua sapienza con la loro proporzione, né la sua perfezione con la bellezza del tutto, ma rivela solamente il suo potere con la sua grandezza, la sua immensità spaziale e temporale. Perché l’estensione, o la quantità, è l’unico attributo essenziale lasciato al mondo, e quindi se il mondo ha qualcosa da dire del divino, lo fa per mezzo di questa proprietà; e ciò di cui la grandezza può parlare è il potere.
In breve, è il più grande segno dell’onnipotenza di Dio che la nostra immaginazione si perda in questo pensiero [dell’immensità degli spazi cosmici].
(Pascal, Pensieri: 72)
Ma un mondo ridotto a una pura manifestazione di potere non ammette anche verso se stesso che una relazione di potere, ossia di padronanza, una volta che la relazione trascendente è messa da parte e l’uomo è lasciato solo di fronte a se stesso e al mondo.
La contingenza dell’uomo, della sua esistenza qui e ora, è ancora per Pascal una contingenza dipendente dalla volontà di Dio; ma quella volontà che mi ha messo proprio in «questo remoto angolo della natura», è imperscrutabile e il «perché» della mia esistenza non trova risposta qui come non la troverebbe nell’esistenzialismo più ateo.
Il deus absconditus, del quale non si può predicare che la volontà e il potere, lascia dietro di sé come eredità, dopo aver abbandonato la scena, l’homo absconditus, un concetto di uomo caratterizzato soltanto dalla volontà e dal potere: la volontà per potere, la volontà per volere.
Per una tale volontà anche la natura indifferente è più un’occasione per il suo esercizio che un oggetto reale.
Questo mutamento nella visione della natura, ossia dell’ambiente cosmico dell’uomo, è al fondo di quella condizione metafisica che ha dato origine al moderno esistenzialismo e alle sue implicazioni nichilistiche. Ma se è così, se l’essenza dell’esistenzialismo è un certo dualismo, una separazione tra uomo e mondo, con la perdita dell’idea di un kosmos affine –in breve, un acosmismo antropologico – allora non è necessariamente la sola scienza fisica moderna che può creare tale condizione.
Un nichilismo cosmico, qualunque siano le circostanze storiche che lo hanno prodotto, sarà la condizione in cui si possono evolvere alcuni lineamenti caratteristici dell’esistenzialismo. E la misura in cui di fatto lo troviamo realizzato potrebbe essere una prova della pertinenza che attribuiamo all’elemento descritto nella posizione esistenzialista.
C’è un’unica situazione che io conosca nella storia dell’uomo occidentale, in cui quella condizione – a un livello mai raggiunto da nessun pensiero scientifico moderno – è stata perfettamente sentita e vissuta con tutta la forza di un evento da cataclisma. È il movimento gnostico, o meglio i più radicali tra i movimenti e gli insegnamenti gnostici che gli sconvolgimenti dei primi tre secoli dell’era cristiana hanno prodotto nelle parti ellenistiche dell’Impero Romano e al di là dei suoi confini orientali.
Perciò possiamo sperare di imparare da essi qualcosa per la comprensione di quell’argomento inquietante che è il nichilismo, e io vorrei darne una dimostrazione, con tutte le riserve che l’esperimento di tale raffronto esige.
(Jonas, Lo gnosticismo)