Hillman – Il cuore della bellezza

Manes-Petrarca-Laura

Era il 6 aprile 1327 nella chiesa di Santa Chiara ad Avignone, quando Petrarca, allora ventiduenne, alla vista di una leggiadra fanciulla sentì il cuore battergli forte, fermarsi, balzargli in gola; sentì l’anima sua assalita dalla bellezza. Fu, questo, l’inizio del Rinascimento? O era già cominciata, questa Vita Nuova, quando Dante – nel 1274, a nove anni – vide per la prima volta Beatrice («colei che dispensa beatitudine»), la ragazzina vestita di color sanguigno, l’anima mundi che risvegliava il suo cuore alla vita estetica?

«In quello punto – scrive Dante – io dico veracemente che lo spirito de la vita, lo quale dimora ne la segretissima camera de lo cuore, cominciò a tremare sì fortemente, che apparia ne li menimi polsi orribilmente; e tremando disse queste parole: “Ecce deus fortior me, qui veniens dominabitur michi“».
Da allora in poi egli fu un devoto di questa divinità in figura d’anima, dedito all’amore, all’immaginazione e alla bellezza poetica, fra loro indissolubilmente legate.

Per queste coppie – Petrarca e Laura, Dante e Beatrice – non vi fu soddisfacimento personale, né rapporto personale. Eppure ciò che scaturì da questi eventi del cuore fu la trasformazione di tutta la cultura occidentale, che nasceva come trasformazione estetica; era una trasformazione generata dalla Bellezza. Non è forse per la sua bellezza che Psiche fu prescelta, nella favola di Apuleio? E non è forse Afrodite, la Bella, l’anima Spranger-Psichedell’universo (psyche tou kosmou o anima mundi) che genera il mondo percettibile – secondo Plotino – e anche l’anima di ognuno di noi?

Sappiamo prestare attenzione a ciò che queste figure e questi racconti ci dicono? Riusciamo ad accorgerci che ognuno di noi è nell’anima un figlio di Afrodite, che l’anima è un therapeutes, qual era Psiche nel tempio di Venere (poiché proprio quello era il suo luogo di culto)?
L’anima è nata nella bellezza e di bellezza si nutre; per la sua vita ha bisogno di bellezza. Se leggiamo Platone come l’ha letto Plotino, se intendiamo Psiche come l’ha intesa Apuleio, se sperimentiamo l’anima come fecero Petrarca e Dante, allora psiche è la vita delle nostre risposte estetiche; quel gusto delle cose, quel fremito o tormento, quel disgusto o quell’espandersi del respiro, quelle primarie reazioni estetiche del cuore, sono l’anima stessa che parla.

Il primo carattere di Psiche, attraverso cui da principio la conosciamo, non è legato alle sue fatiche – il lavoro di fare anima – né alle sue pene d’amore o all’angoscia del suo smarrimento – l’assenza e la deprivazione dell’anima.
Nella favola di Apuleio tutto questo viene dopo. Facciamo la sua prima conoscenza grazie alla caratteristica prima della sua natura: Psiche è bella.

Com’è possibile che la bellezza abbia giocato un ruolo così centrale e innegabile nella storia dell’anima e del suo pensiero, e nondimeno sia assente dalla psicologia moderna?
Pensate: ottant’anni di psicologia del profondo senza un pensiero per la bellezza! Ancora oggi la psicologia tende a esautorare la forma estetica dal suo primato, riducendola a un attributo diagnostico: «estetismo». Quei racconti di Petrarca e di Dante diventano allora fascinazioni di Anima, immature idealizzazioni dovute a una rimozione, narcisismo irrelato, tipico estetismo del Puer.

Abbiamo considerato la bellezza di Psiche solo come un simbolo, come se significasse qualcos’altro da sé; non abbiamo letto attentamente ciò che dice Apuleio, né abbiamo saputo collocarlo nel suo retroterra platonico. Avremmo capito, altrimenti, che la bellezza di Psiche era visibile, sensibile, come quella di Laura per Petrarca, come Swynnerton-Amore-PsicheAfrodite che si mostra nuda.
Anche nelle nostre interpretazioni psicologiche di Psiche, abbiamo scambiato la sua bellezza per un semplice motivo da comprendere, non cogliendo la caratteristica essenziale della sua immagine: uno sbaglio che richiede una rilettura della favola alla luce della natura squisitamente estetica dell’anima.

Se nel nostro lavoro con la psiche non si dà alla bellezza il posto che le spetta, l’anima non può realizzarsi nella sua essenza; e una psicologia che non abbia il suo punto di partenza nell’estetica – come la favola di Psiche che ha il suo punto di partenza nella bellezza, e come Afrodite, che è la psyche tou kosmou, l’anima di tutte le cose – non può vantarsi di essere davvero psicologia, dal momento che omette questa peculiarità essenziale della natura dell’anima.
Una psicologia del profondo davvero espressiva della natura di Psiche deve essere anche un’estetica del profondo. Inoltre, per recuperare l’anima perduta – che è, in ultima analisi, il principale fine di tutte le psicologie del profondo – dobbiamo recuperare le reazioni estetiche che abbiamo perduto, il nostro senso della bellezza. […]

Per bellezza non intendiamo abbellimenti, ornamenti o decorazioni; non intendiamo l’estetica come ramo minore della filosofia, relativo al gusto, alla forma e alla critica d’arte; non intendiamo «disinteresse», il leone addormentato. E neppure possiamo confinare la bellezza nei musei, nell’abilità dei maestri di violino, nella professionalità dell’artista.
Dobbiamo invece staccare del tutto la bellezza dall’arte, dalla storia dell’arte, dagli oggetti d’arte, dall’apprezzamento dell’arte, dalla terapia con l’arte. Tutti questi sono positivismi, cioè pongono la bellezza in uno dei suoi singoli aspetti: collocano l’aisthesis in eventi estetici, quali possono essere gli oggetti belli.

Nel perseguire quello che intendiamo per bellezza, è la stessa parola «bellezza» che ci ostacola, poiché logoro e inefficace, vezzoso ed evanescente è il suono con cui colpisce l’orecchio, tanto si è allontanata dai disperati turbamenti dell’anima.
Ancora una volta vediamo come le nostre concezioni siano determinate da modelli archetipici; come se la bellezza fosse diventata prerogativa esclusiva di Apollo, analisi di forme invisibili come quelle della musica, riservate a conoscitori e argomento di dispute sulle riviste di estetica; o come se fosse stata affidata completamente alle mani delicate di Adone e di Paride, la bellezza come violette, mutilazione e morte.

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Ma in Platone e in Plotino la bellezza non ha affatto questo senso levigato, passivo e sterile, e raramente è messa in relazione con l’arte; la bellezza non è, infatti, «bella», e ne è testimone la persona di Socrate. Il solo modo di comprendere il bello, nel pensiero platonico, è invece quello di sapersi addentrare in un cosmo afroditico, il che significa, a sua volta, penetrare l’antica nozione di aisthesis (percezione, discernimento attraverso i sensi) da cui l’estetica deriva.

Dobbiamo spingerci oltre le nostre idee consuete di bellezza, che hanno tenuto prigioniera l’immaginazione, relegandola soltanto in concetti celestiali, l’Afrodite Urania, e allontanandola dal mondo dei sensi, dove Afrodite era sempre immanente.
Si deve a questo se la sua nudità è stata resa pornografica, denigrando la visibilità dell’apparenza fisica. Queste idee sublimi hanno anche mistificato la rivelazione, facendone un’attesa escatologica; mentre la rivelazione sopraggiunge come un’epifania che deve infrangere il mondo sensibile, soltanto se non possiamo coglierla nel presentarsi immediato delle cose, quali esse sono. […]

Bellezza è anima mundi manifesta: essa non trascende il manifesto né è nascosta nella sua immanenza, ma riguarda le apparenze come tali, così come sono create, nelle forme in cui appaiono, dati dei sensi, semplici fatti, Venus nudata. La bellezza di Afrodite riguarda la luminosità di ogni particolare evento; la sua trasparenza, il suo particolare splendore; il fatto che le singole cose appaiono, e che appaiono proprio in quella forma.
La Bellezza, come Platone la descrive nel Fedro, è la manifestazione, l’apparire degli Dèi noumenici nascosti e delle virtù, quali la temperanza e la giustizia.

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Tutte queste non sono che idee, archetipi, pure forme, discorsi didattici senza immagini, se non si accompagnano alla bellezza.

A Bellezza solo questa sorte fu concessa, del tutto chiaramente visibile…
(Platone, Fedro, 250d)

Bellezza è allora proprio la sensibilità del cosmo, il fatto che esso abbia una tessitura, delle tonalità, dei sapori: che sia attraente. L’alchimia chiamerebbe sulfur questo splendore cosmico.
Dobbiamo ricordarci, a questo punto, che in Grecia kosmos era originariamente un’idea estetica e politeistica: indicava la giusta collocazione delle cose molteplici nel mondo, la loro sistemazione ordinata. Kosmos non significava un insieme collettivo, generale e astratto. Non significava universo, in quanto ruotante intorno a un punto (unus-verto), o trasformato in uno. Questa traduzione di cosmo con universo è tipica dell’imperialismo romano, che unifica e annulla il peculiare senso greco del mondo.

Kosmos include anche qualità estetiche come il conveniente, il decoroso, l’adeguato, l’encomiabile. «Cosmesi» è più vicina al significato originale di quanto lo sia la nostra parola «cosmico» (nel senso di «vasto», «a-specifico», «vuoto»). Kosmos era usato Pizio-Venere-Adonespecialmente per le donne, riferito ai loro abbellimenti; e gli stoici usavano questa parola per l’anima mundi.
Che oggi «cosmico» sia arrivato a significare lo spazio esterno, vago e inimmaginabile, non è che un’ulteriore conferma di quel che è accaduto ad Afrodite Urania, una volta separata dalla sua controparte sensibile, Pandemia.

Se la bellezza è intrinseca ed essenziale all’anima, allora la bellezza appare ovunque appaia l’anima. La rivelazione dell’essenza dell’anima, il vero manifestarsi di Afrodite nella psiche, il suo sorriso, nella lingua dei mortali è chiamato «bellezza». Tutte le cose, in quanto mostrano la loro natura innata, presentano l’aureità di Afrodite; esse risplendono, e sono estetiche per questo. […]

La forma visibile è un’esibizione di anima. L’essere di una cosa è rivelato nella manifestazione del suo Bild, l’immagine. La bellezza non è, dunque, un attributo, qualcosa di bello, come un bel velo drappeggiato attorno a una virtù: l’aspetto estetico dell’apparenza. Se con il buono, il vero e l’uno non ci fosse bellezza, non potremmo mai sentirli, né conoscerli. La Bellezza è una necessità epistemologica; è il modo in cui gli Dèi toccano i nostri sensi, raggiungono il cuore, e ci attirano nella vita.
La Bellezza è anche una necessità ontologica, che fonda le particolarità sensibili del mondo. Senza Afrodite il mondo dei particolari diventa una atomizzazione di particelle; la varietà di dettagli della vita viene chiamata caos, molteplicità, materia amorfa, dati statistici. Tale è il mondo dei sensi senza Afrodite; un mondo in cui il senso dev’essere dedotto dall’apparenza, attraverso significati filosofici astratti – il che distorce la filosofia stessa separandola dalla sua base vera.

Se la filosofia nasce nel philos, è legata ad Afrodite anche in un altro modo; perché il significato originario di sophia è l’abilità dell’artigiano, del carpentiere, del navigante, dello scultore. Sophia si origina e si connette alle mani estetiche di Dedalo e di Efesto, legato innegabilmente ad Afrodite e intrinseco alla sua natura.
Con Afrodite a ispirare la nostra filosofia, ogni evento ha il proprio sorriso sul volto e appare in una sua maniera, una sua foggia, un suo stile particolari. Afrodite dà uno sfondo archetipico alla filosofia della «singolarità», e consente al cuore di trovare l’«intimità» con ogni evento particolare in un cosmo pluralistico.

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Ora, l’organo che percepisce questi volti è il cuore. Il pensiero del cuore è fisiognomico. Per percepire deve immaginare, vedere le fattezze, le forme, i volti – angeli, demoni, creature di ogni sorta in cose di ogni genere. Per questo il pensiero del cuore personifica, anima, vivifica il mondo.
Così Petrarca, vedendo Laura:

… per avia silve,
dum solus reor esse magis, virgulta tremendam
ipse representant faciem truncusque reposte
ilicis et liquido visa est emergere fonte
obviaque effusi sub nubibus aut per inane
aeris aut duro spirans erumpere saxo…
[… mentre credo d’esser solo nelle selve più profonde, finanche i virgulti, o il tronco di un leccio solitario, mi raffigurano il temuto volto, ed ecco esso mi pare emergere da una fonte d’acqua o mi appare nelle nubi o nel vuoto spazio o vivo erompere dalla dura roccia…]
(Petrarca, Metriche, 1: 6)

Questi versi non sono per Laura – una lirica d’amore – sono invece una descrizione di Laura, l’anima personizzata, quella raffigurazione nel cuore mediante cui procede la Collier-Lilithpercezione estetica, quella per cui le cose prendono vita come forme che parlano.
È stato Aristotele a porre le basi per la connessione fra aisthesis e cuore. Nella sua psicologia l’organo dell’aisthesis è il cuore, i percorsi degli organi di senso arrivano lì: è lì che l’anima «prende fuoco». Il pensiero di quel cuore è intrinsecamente estetico e sensorialmente legato al mondo.

Questo legame tra il cuore e gli organi di senso non è semplice sensazionismo meccanico: è un legame estetico. E infatti, in greco, l’attività di percepire o di sentire è aisthesis, la cui radice significa «assumere» e «inspirare» – un rimaner senza fiato, la risposta estetica primaria.
I traduttori hanno reso aisthesis con «percezione dei sensi», una nozione dell’empirismo britannico, la sensazione di John Locke. Ma la «percezione dei sensi» greca non può essere intesa senza tener conto della Dea greca dei sensi, o dell’«organo della sensazione» greca, il cuore, o della radice che la parola racchiude – quel fiutare, quel restare senza fiato, quell’inspirare il mondo.

In secondo luogo, «assumere» significa prendere a cuore, interiorizzare, divenire intimi, nel senso agostiniano. Ma non è solo la mia confessione della mia anima; è invece l’ascolto della confessione dell’anima mundi nel parlare delle cose.
In terzo luogo, «assumere» significa riportare l’oggetto nella sua interiorità, nella sua immagine, in modo che sia attivata la sua immaginazione (e non la nostra), così da mostrare il suo cuore e rivelare la sua anima, diventando personizzato e quindi amabile; amabile non solo per noi e grazie a noi, ma perché la sua amabilità si accresce col dispiegarsi del suo senso e della sua immaginazione.

Comincia qui la fenomenologia: in un mondo di fenomeni animati. Non c’è bisogno di salvare i fenomeni con la grazia, con la fede, o con teorie onnicomprensive, oppure con l’oggettività scientifica o con la soggettività trascendentale. Essi sono salvati dall’anima mundi, dalla loro stessa anima e dal nostro semplice restare senza fiato di fronte a questa amabilità immaginale.
L’oh! di meraviglia, di riconoscimento, o lo shee-e fra i denti dei giapponesi. La risposta estetica salva il fenomeno, il fenomeno che è il volto del mondo.

Blake-visione-figlie-Albione

«Ogni cosa perirà, tranne il suo volto», recita il Corano. Ogni cosa, cioè, tranne il volto della cosa.
Dio, il mondo, tutto può finire in nulla, vittima di costruzioni nichilistiche, di dubbi metafisici, di disperazioni d’ogni sorta; quel che resta, quando tutto va in rovina, è il volto delle cose quali esse sono.
Quando non c’è altro luogo cui rivolgerti, volgiti al volto che ti è di fronte. Qui c’è la Dea che dà al mondo un senso che non è mito né significato, ma quella immediata cosa che è immagine: il suo sorriso è una gioia, una gioia che è «per sempre».

Cosa che è bella è per sempre gioia:
s’accresce sempre l’avvenenza sua; giammai
trapasserà nel nulla.
(Keats, Endimione)

(Hillman, L’anima del mondo e il pensiero del cuore)