C’era una volta marito e moglie che stavano in una bella casina. E questa casina aveva una finestra che dava sull’orto delle fate.
La donna aspettava un bambino, e aveva voglia di prezzemolo. S’affaccia alla finestra e nell’orto delle Fate vede tutto un prato di prezzemolo. Aspetta che le Fate siano uscite, prende una scala di seta e cala nell’orto. Fatta una bella scorpacciata di prezzemolo, risale per la scala di seta e chiude la finestra.
L’indomani, lo stesso. Mangia oggi, mangia domani, le Fate, passeggiando nel giardino, cominciarono ad accorgersi che il prezzemolo era quasi tutto andato.
«Sapete cosa facciamo? – disse una delle Fate. – Fingiamo d’esser uscite tutte, e una di noi invece resterà nascosta. Così vedremo chi viene a rubare il prezzemolo».
Quando la donna scese nell’orto, ecco che saltò fuori una Fata: «Ah, briccona! T’ho scoperta, finalmente!».
«Abbiate pazienza – disse la donna, – ho voglia di prezzemolo perché aspetto un bambino…».
«Ti perdoniamo – disse la Fata. – Però, se avrai un bambino gli metterai nome Prezzemolino, se avrai una bambina le metterai nome Prezzemolina. E appena sarà grande, bambino o bambina che sia, lo prenderemo con noi!».
La donna scoppiò a piangere e tornò a casa. Il marito, appena seppe del patto con le Fate andò su tutte le furie: «Golosaccia! Hai visto?».
Nacque una bambina, Prezzemolina. E, col tempo, i genitori non pensarono più al patto con le Fate.
Quando Prezzemolina fu grandetta, cominciò ad andare a scuola. E mentre tornava a casa, tutti i giorni, incontrava le Fate, che le dicevano: «Bambina, di’ alla mamma che si ricordi di quel che ci deve dare».
«Mamma – diceva la Prezzemolina, tornando a casa – le Fate dicono che dovete ricordarvi quel che gli dovete dare». La mamma si sentiva un groppo al cuore e non rispondeva niente.
Un giorno la mamma era distratta. Tornò Prezzemolina da scuola e disse: «Dicono le Fate che vi ricordiate quel che gli dovete dare», e la mamma, senza pensare, disse: «Sì, di’ che la piglino pure».
L’indomani la bambina andò a scuola: «Allora, se ne ricorda la tua mamma?», chiesero le Fate.
«Sì, dice che potete prendere quella cosa che vi deve dare».
Le Fate non se lo fecero dire due volte. Afferrarono Prezzemolina e via.
La mamma, non vedendola tornare, era sempre più in pensiero. A un tratto si ricordò della frase che le aveva detto, e disse: «O me disgraziata! Ora non si può più tornare indietro!».
Le Fate portarono Prezzemolina a casa loro, le mostrarono una stanza nera nera dove tenevano il carbone, e dissero: «Vedi, Prezzemolina, questa stanza? Quando torniamo stasera dev’essere bianca come il latte e dipinta con tutti gli uccelli dell’aria. Se no ti mangiamo». Se ne andarono e lasciarono Prezzemolina disperata, tutta in lacrime.
Bussano alla porta, Prezzemolina va ad aprire, sicura che siano già le Fate di ritorno e che sia giunta la sua ora. Invece entrò Memé, cugino delle Fate: «Che hai che piangi, Prezzemolina?», chiese.
«Piangereste anche voi – disse Prezzemolina, – se aveste questa stanza nera nera da far bianca come il latte e dipingerla con tutti gli uccelli dell’aria, prima che tornino le Fate! E se no mi mangiano!».
«Se mi dai un bacio, – disse Memé, – faccio tutto io».
E Prezzemolina rispose:
Preferisco dalle Fate esser mangiata
piuttosto che da un uomo esser baciata.
«La risposta è così graziosa, – disse Memé, – che farò tutto io lo stesso».
Batté la bacchetta magica, e la stanza divenne tutta bianca e tutta uccelli, come avevano detto le Fate.
Memé andò via e le Fate tornarono: «Allora, Prezzemolina, l’hai fatto?».
«Sissignora, vengano a vedere».
Le Fate si guardarono tra loro: «Di’ la verità, Prezzemolina, qui c’è stato nostro cugino Memé».
E Prezzemolina:
Non ho visto il cugino Memé
né la mia mamma bella come mi fé.
L’indomani le Fate tennero conciliabolo: «Come facciamo a mangiarcela? Mah! Prezzemolina!».
«Cosa comandano?».
«Domattina devi andare dalla Fata Morgana e le devi dire che ti dia la scatola del Bel-Giullare».
«Sissignora», rispose Prezzemolina, e la mattina si mise in viaggio.
Cammina cammina, trovò Memé cugino delle Fate che le chiese: «Dove vai?».
«Dalla Fata Morgana, a prendere la scatola del Bel-Giullare».
«Ma non sai che ti mangia?».
«Meglio per me, così sarà finita».
«Tieni, – disse Memé, – queste due pentole di lardo; troverai una porta che batte i battenti, ungila e ti lascerà passare. Poi tieni questi due pani; troverai due cani che si mordono l’uno con l’altro; buttagli i pani e ti lasceranno passare. Poi tieni questo spago e questa lesina; troverai un ciabattino, che per cucire le scarpe si strappa la barba e i capelli; daglieli e ti lascerà passare. Poi tieni queste scope; troverai una fornaia che spazza il forno con le mani, dagliele e ti lascerà passare. Bada solo di far svelta».
Prezzemolina prese lardo, pani, spago, scope e li diede alla porta, ai cani, al ciabattino, alla fornaia; e tutti la ringraziarono. Trovò una piazza, e nella piazza c’era il palazzo della Fata Morgana. Prezzemolina bussò.
«Aspetta, bambina, – disse la Fata Morgana, – aspetta un poco». Ma Prezzemolina sapeva che doveva far svelta, corse su per due rampe di scale, vide la scatola del Bel-Giullare, la prese, e via di corsa.
La Fata Morgana, sentendola scappare, s’affacciò alla finestra: «Fornaia che spazzi il forno con le mani, ferma quella bambina, fermala!».
«Fossi matta! Dopo tanti anni che fatico, mi ha dato le scope per spazzare il forno!».
«Ciabattino che cuci le scarpe con la barba e i capelli! Ferma quella bambina, fermala!».
«Fossi matto! Dopo tanti anni che fatico, m’ha dato lesina e spago!».
«Cani che vi mordete! Fermate quella bambina!».
«Fossimo matti! Ci ha dato un pane per uno!».
«Porta che sbatti! Ferma quella bambina!».
«Fossi matta! M’ha unta da capo a piedi!».
E Prezzemolina passò. Appena fu in salvo, si domandò: «Cosa ci sarà in questa scatola del Bel-Giullare?» e non seppe resistere alla tentazione di aprirla.
Ne saltò fuori tutto un corteo d’omini piccini piccini, un corteo con la banda, che andava avanti a suon di musica e non si fermava più. Prezzemolina voleva farli tornare nella scatola, ma ne prendeva uno e gliene scappavano dieci. Scoppiò in singhiozzi, e proprio in quel momento arrivò Memé.
«Curiosaccia! – disse. – Vedi quel che hai combinato?».
«Oh, volevo solo vedere…».
«Adesso non c’è più rimedio. Ma se tu mi dai un bacio, io rimedierò».
E lei:
Preferisco dalle Fate esser mangiata
piuttosto che da un uomo esser baciata.
«L’hai detto così per benino che rimedierò io lo stesso». Batté la bacchetta magica e tutti gli omini tornarono nella scatola del Bel-Giullare.
Le Fate, quando sentirono Prezzemolina picchiare all’uscio, ci restarono male: «Come mai la Fata Morgana non se l’è mangiata?».
«Felice giorno, – disse lei. – Ecco la scatola».
«Ah, brava… E cosa t’ha detto la Fata Morgana?».
«M’ha detto di farvi tanti saluti».
«Abbiamo capito! – dissero le Fate tra loro. – Dobbiamo mangiarcela noi».
Alla sera, venne a trovarle Memé.
«Sai, Memé, – gli dissero. – La Fata Morgana non s’è mangiata Prezzemolina. Dobbiamo mangiarcela noi».
«Oh, bene! – fece Memé. – Oh, bene!».
«Domani, quando avrà fatto tutte le faccende di casa, le faremo mettere al fuoco una caldaia di quelle grandi da bucato. E quando bollirà la prenderemo e la butteremo dentro».
«E sì, e sì, – disse lui, – resta inteso così, è una buona idea».
Quando le Fate furono uscite, Memé andò da Prezzemolina: «Sai, Prezzemolina? Ti vogliono buttare nella caldaia, quando bolle. Ma tu devi dire che manca la legna e che vai in cantina a prenderla. Poi verrò io».
Così le Fate dissero a Prezzemolina che bisognava fare il bucato, e che mettesse la caldaia al fuoco. Lei accese il fuoco, poi disse: «Ma non c’è quasi più legna».
«Va’ a prenderla in cantina».
Prezzemolina scese, e sentì: «Sono qua io, Prezzemolina». C’era Memé che la prese per mano.
La condusse in un posto in fondo alla cantina, dove c’erano tanti lumi: «Queste sono le anime delle Fate. Soffia!». Si misero a soffiare e ogni lume che si spegneva era una Fata che moriva.
Rimase solo un lume, il più grosso di tutti: «Questa è l’anima della Fata Morgana!». Si misero a soffiare insieme con tutte le loro forze, finché non lo spensero, e così rimasero padroni d’ogni cosa.
«Ora sarai mia sposa», disse Memé e finalmente Prezzemolina gli diede un bacio.
Andarono al palazzo della Fata Morgana; del ciabattino ne fecero un duca, della fornaia una marchesa; i cani li tennero con loro al palazzo, e la porta la lasciarono lì badando a ungerla di tanto in tanto.
Così vissero e godettero,
sempre in pace se ne stettero
ed a me nulla mi dettero.
(Calvino, Fiabe italiane: 86)