Nietzsche – Piacere e istinto sociale

Dai suoi rapporti con gli altri uomini, l’uomo ricava un nuovo genere di piacere da aggiungere a quei sentimenti di piacere che egli trae da se stesso; col che rende in genere Lettl-rendez-vousnotevolmente più vasta la sfera del sentimento del piacere in genere.
In questa sfera forse egli ha già ereditato ogni sorta di cose dagli animali, i quali provano manifestamente piacere a giocare tra loro, specie le madri coi piccoli.

Si pensi poi ai rapporti sessuali, che fanno apparire interessante a ogni maschio, in vista del piacere, pressappoco ogni femmina e viceversa.
Il piacere che deriva dai rapporti umani rende in genere l’uomo migliore; la gioia comune, il piacere goduto insieme, si moltiplicano, danno all’individuo sicurezza, lo rendono affabile, sciolgono la diffidenza, l’invidia; perché ci si sente bene e si vede che l’altro si sente bene allo stesso modo.

Le stesse manifestazioni di piacere risvegliano la fantasia della simpatia, il senso di essere qualcosa di uguale: la stessa cosa fanno anche i dolori comuni, le comuni procelle, gli stessi pericoli e nemici.
Su di essi si costruisce poi quella che è la più antica alleanza: il cui senso è la difesa comune e l’eliminazione della minaccia di un dolore a beneficio di ogni individuo.
E così dal piacere si sviluppa l’istinto sociale.

(Nietzsche, Umano troppo umano, 1: 98)

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Il desiderio è sempre desiderio dell’altro.
Il piacere di giocare assieme, di pazziare all’amore e all’amicizia, al sesso e ai sentimenti, l’abbiamo ereditato dal nostro Passato animale, dice Nietzsche.
E chissà quante volte, in quel Passato, dovettero essere condivise «le stesse manifestazioni del piacere», e quanto e come ci si compiacque di essere l’uno «a contatto» con l’altro, l’uno e l’altro reciprocamente a confondersi in una «mancanza d’essere», l’uno e l’altro insieme a saltare nel Vuoto di io e tu, al di là di soggetto e oggetto di desiderio, e così ripetere l’Appetito d’oltre, ripetere la Passione d’altro… chissà quante volte, a furia di ripetere questo pathos, e di assecondarlo nella sua «esaltazione», l’uomo è giunto a fantasticare una sua idea di Simpatia e a circumnavigare i dintorni di qualcosa come «il senso dell’essere uguale».

Qualcosa, come l’essere compresi, tutti assieme, in uno stesso linguaggio: ciascuno a parlare il desiderio, che ha o che è, dell’altro.
La Simpatia, va da sé, non è tra «uguali». La Simpatia non è una monotonia: la Simpatia è tra toni «differenti». Di «uguale» non c’è che il Vuoto di cui entrambi godono quando entrano «in contatto»: quando cioè l’uno è all’altro il mezzo per accedere nell’aldilà del desiderio, e ripetere così il Passato Eterno – quello che manca a tutti i toni nella loro solitudine, il «loro» Uguale Irrappresentabile. Il «ciò che è», il Sempre, che giace sul forme-archetipifondo della Vita, l’inattaccabile «aldilà» di tutte le rappresentazioni che ce ne facciamo circumnavigandolo con le nostre parole.

Siamo animali erotici, macchine desideranti, i cui flussi di desiderio tra loro si combinano e si scombinano instancabilmente in cerca del pertugio per cui di là passare, e tornare a ripetere l’Eterna Ripetizione, la Defaillance Eterna che l’Oblio accusa allorché «rivolge la parola» all’uomo.
Siamo macchine linguistiche che fanno parlare il «piacere» che l’una ha o è, a fare eco all’altra. Siamo soci linguistici – tenuti assieme da una sola Metafora Antica, dal piacere che proviamo a essere l’uno cassa di risonanza del Passato dell’altro, di vibrare solo a sentire l’uno la Presenza dell’altro, fosse anche vissuto migliaia di anni fa.

Noi soli ci facciamo «incantare» a tal punto da quel Passato, da fare nostra la sua «debolezza» linguistica, da accogliere e dare voce alla sua Domanda «difettosa», fino a spingerci nella Pazziella di scandire gli infiniti toni possibili della sua Rappresentazione. Fino cioè a mettere in scena le maschere dei suoi continui travestimenti e a tracciare i luoghi dei suoi sonnambolici spostamenti, spacciando, di volta in volta, per realtà i suoi mutevoli «presenti», le sue mode, le sue vanità.

Noi soli diamo voce alla Fuga dal nostro Essere, all’avventura nel Simbolico, a inseguire e perseguire la Metafora ovunque essa ci trasporti, nel «piacere» di giocare assieme all’altro: giocare alla Ripetizione di quel gioco là, che ci fa ancora fantasticare accordi e simpatie, gioie e dolori condivisi, «materia prima» di un antico istinto sociale. Così potente da indurci a fare del «piacere» che raccattiamo a ogni «simpatia», sia essa reale o immaginaria, il Principio della nostra Langue.

Il «piacere» è la «materia psichica», l’Anima del nostro linguaggio. Non è né mio né tuo questo «istinto» linguistico. E non è nemmeno della Società, anche se è di «associazioni» che esso si nutre.
Il «piacere» è nel contatto, e il suo aldilà è nello spazio aperto, nel vuoto creato e ricreato tra quelli che si compiacciono. È negli squarci che si aprono nella trama delle nostre rappresentazioni. Non è né soggettivo, né collettivo – dice Deleuze.
Il «piacere» è intersoggettivo: è «ciò che è» tra due differenze, il Miraggio dell’Uguale in cui esse godono a confondersi e incantarsi reciprocamente.