Lacan – In articulo mortis

Non è un caso che Edipo sia l’eroe patronimico del complesso di Edipo. Si sarebbe potuto scegliere un altro, poiché tutti gli eroi della mitologia greca hanno qualche rapporto con questo mito, lo incarnano sotto altri profili, ne mostrano altri aspetti. Non è senza Edipo-Antigone-2ragione che Freud è stato spinto verso questo.
Edipo, nella sua vita stessa, è totalmente questo mito. Lui stesso non è altro che il passaggio dal mito all’esistenza. Poco importa che sia esistito o no, poiché in una forma più o meno riflessa egli esiste in ognuno di noi, è dappertutto, ed esiste molto di più che se fosse realmente esistito. […]

Ha poca importanza che una cosa esista realmente o no. Può perfettamente esistere nel pieno senso del termine, anche se non esiste realmente. Ogni esistenza ha per definizione qualcosa di talmente improbabile che di fatto siamo sempre lì a interrogarci sulla sua realtà.
Dunque Edipo esiste, e ha pienamente realizzato il suo destino. Lo ha realizzato fino al punto da non essere altro che qualcosa di identico a una folgorazione, a uno strazio, a una lacerazione di se stesso – da non essere più, assolutamente più, nulla. Ed è a questo punto che dice – È forse nel momento in cui non sono nulla che divento un uomo?

È una frase che ho strappato al suo contesto, e bisogna che ce la rimetta per evitare che vi facciate qualche illusione, per esempio, che il termine uomo abbia in questo caso un senso qualsiasi. Non ne ha a stretto rigore nessuno, proprio nella misura in cui Edipo è giunto alla piena realizzazione della parola degli oracoli che preannunciavano già il suo destino ancora prima che fosse nato. Prima che nascesse erano state dette ai genitori quelle cose che lo avrebbero fatto precipitare verso il suo destino, essere cioè esposto appeso per un piede, appena nato. È a partire da questo atto iniziale che egli realizza il suo destino.

Tutto è dunque scritto fin dall’inizio, e si compie fino in fondo, ivi compreso fino al fatto che Edipo l’assume col proprio atto.
Io, dice, non c’entro per nulla. Il popolo di Tebe, nell’entusiasmo, mi ha dato questa donna come ricompensa per averlo liberato dalla Sfinge, e quel tipo non sapevo chi fosse, gli ho spaccato il muso, era vecchio, cosa ci posso fare, ho picchiato un po’ forte, bisogna dire che ero un pezzo d’uomo.

SaMont-Edipo

Edipo accetta il suo destino nel momento in cui si mutila, ma lo aveva già accettato nel momento in cui aveva acconsentito a essere re. È come re che attira tutte le maledizioni sulla città, e che c’è un ordine degli dèi, una legge delle ricompense e dei castighi. È assolutamente naturale che tutto ricada su Edipo poiché egli è il nodo centrale della parola. Si tratta di sapere se l’accetterà o no. Dopo tutto pensa di essere innocente, ma l’accetta fino in fondo poiché si dilacera. E chiede che lo si lasci sedere a Colono, nel recinto sacro delle Eumenidi. Egli realizza così la parola fino in fondo.

Ma a Tebe si continua a sparlare. Si dice alle genti di Tebe – Un momento! Avete un po’ esagerato. Era giusto che Edipo si castigasse. Ma l’avete trovato rivoltante e l’avete cacciato. Ora, la vita futura di Tebe dipende proprio da questa parola incarnata che non avete saputo riconoscere mentre era qui, con i suoi effetti di lacerazione, di annullamento dell’uomo. L’avete esiliato. Guai a Tebe se non lo farete ritornare, se non entro i confini del territorio, almeno subito fuori, perché non vi scappi. Se la parola che è il suo destino se ne va a spasso, si porta via anche il vostro destino. Atene raccoglierà la somma di esistenza vera che egli incarna, e si assicurerà ogni superiorità su di voi e conoscerà tutti i trionfi.

Gli si corre dietro. Avendo appreso che lo verranno a trovare ogni sorta di ambasciatori, di saggi, di politici, di arrabbiati, suo figlio, Edipo allora dice – È nel momento in cui non Manzù-Ediposono nulla che divento un uomo?
Qui inizia l’aldilà del principio di piacere. Quando la parola è completamente realizzata, quando la vita di Edipo è completamente passata nel suo destino, che cosa resta di Edipo? È ciò che ci mostra Edipo a Colono – il dramma essenziale del destino, l’assenza assoluta di carità, di fraternità, di tutto ciò che ha a che fare con ciò che chiamiamo i sentimenti umani.

A cosa si riduce il tema di Edipo a Colono? Il coro dice – Sarebbe meglio dopo tutto non essere mai nati, e se si è nati, morire il più presto possibile. Ed Edipo invoca sulla posterità e sulla città per la quale è stato offerto in olocausto la più radicale delle maledizioni – leggete le maledizioni lanciate contro il figlio Polinice.
E poi, c’è la degenerazione della parola, fatta dentro al recinto al bordo del quale si svolge tutto il dramma, il recinto del luogo in cui è permesso parlare, punto centrale in cui il silenzio è di rigore, perché lì dimorano le dee della vendetta, quelle che non perdonano e aspettano al varco l’essere umano. Si fa uscire di lì Edipo per un po’ ogni volta che c’è da tirargli fuori tre parole, perché se le dicesse lì dentro le cose si metterebbero male.
Il sacro ha sempre motivo di essere. Perché c’è sempre un luogo in cui bisogna che le parole si arrestino? Forse affinché sussistano in questo recinto.

Che cosa accade a questo punto? La morte di Edipo. Essa avviene in condizioni molto particolari. Colui che, da lontano, ha accompagnato con lo sguardo i due uomini che vanno verso il centro del luogo sacro, si volta, e non vede più che uno solo dei due uomini che si copre il volto col braccio in un atteggiamento di orrore sacro.
Si ha l’impressione di qualcosa di non molto bello da vedere, una specie di volatilizzazione della presenza di colui che ha detto le sue ultime parole. Credo che l’Edipo a Colono faccia allusione a un non so che mostrato nei misteri, che sono qui sempre presenti sullo sfondo. Ma per noi, volendo dare un’idea, andrei a cercarla ancor in Edgar Poe.

Poe-blu-paint

Edgar Poe è stato sempre rasente al tema dei rapporti della vita e della morte, e in un modo non privo di interesse. In corrispondenza alla liquefazione di Edipo, metterei Il caso Valdemar.
Si tratta di un’esperienza sulla sostentazione del soggetto nella parola, per mezzo di ciò che all’epoca viene chiamato magnetismo, forma di teorizzazione dell’ipnosi – si ipnotizza qualcuno in articulo mortis per vedere cosa possa venirne fuori. Si prende un uomo alla fine della vita, ha solo più un piccolissimo polmone, e tutto il resto sta morendo.
Gli si è spiegato che, se vuole essere un eroe dell’umanità, non ha che da fare un cenno all’ipnotizzatore. A prendere la cosa nelle ore precedenti all’esalazione dell’ultimo respiro, si sarebbe potuto vedere. È una bella immaginazione da poeta, che va molto oltre le nostre timide immaginazioni mediche, per quanti sforzi facciamo su questa strada.

In effetti il soggetto passa a miglior vita e per qualche mese resta in uno stato di aggregazione sufficiente a essere ancora accettabile – un cadavere su un letto che, di tanto in tanto, parla per dire sono morto.
Questa situazione, con l’aiuto di ogni sorta di artifici e di espedienti per rassicurarsi, dura fino al momento in cui si procede al risveglio con procedimenti contrari a quelli che Valdemar-blu-paintaddormentano, e si ottiene qualche grido del disgraziato. – Spicciatevi: o riaddormentatemi o fate in fretta, è spaventoso.

È da sei mesi che ha già detto di essere morto, ma quando lo si risveglia, Valdemar non è più nient’altro che una liquefazione disgustosa, una cosa che non ha nome in nessuna lingua, l’apparizione nuda, pura e semplice, brutale di quella figura impossibile da guardare in faccia che è sullo sfondo di ogni immaginazione del destino umano, che è al di là di ogni qualifica, e per la quale il termine carogna è del tutto insufficiente, la totale ricaduta di quella specie di rigonfiamento che è la vita – la bolla si affloscia e si dissolve nel liquido purulento inanimato.

È di questo che si tratta nel caso di Edipo. Edipo, tutto lo mostra fin dall’inizio della tragedia, non è più nient’altro che il rifiuto della terra, lo scarto, il residuo, una cosa svuotata di ogni apparenza seducente.
Edipo a Colono, il cui essere è tutto intero nella parola formulata dal suo destino, presentifica la congiunzione della morte e della vita. È proprio qui che ci porta il lungo testo in cui Freud dice – Non crediate che la vita sia una dea esaltante sorta per arrivare alla forma più bella, che ci sia nella vita la minima forza di compimento e di progresso. La vita è un rigonfiamento, una muffa, non è caratterizzata da nient’altro che – come anche molti altri oltre a Freud hanno scritto – dalla sua attitudine alla morte.

La vita, è questo – una deviazione, un’ostinata deviazione, per se stessa transitoria e caduca e sprovvista di senso. Perché, in quel punto delle sue manifestazioni che si chiama l’uomo, si produce qualcosa che insiste durante questa vita, e che si chiama un senso?
Lo chiamiamo umano, ma è poi così sicuro? È forse così umano, questo senso?
Un senso è un ordine, cioè un sorgere. Un senso è un ordine che sorge. Una vita insiste per entrarci, ma esso esprime forse qualcosa di completamente al di là di questa vita, poiché quando andiamo alla radice di questa vita, e dietro al dramma del passaggio all’esistenza, non troviamo nient’altro che la vita congiunta alla morte. È qui che ci porta la dialettica freudiana.

La teoria freudiana può sembrare, fino a un certo punto, spiegare tutto, ivi compreso ciò che riguarda la morte, nel quadro di una economia libidica chiusa, regolata dal principio masochismodi piacere e dal ritorno all’equilibrio, che comporta definite relazioni oggettuali.
La coalescenza della libido con le attività che in apparenza le sono contrarie, l’aggressività per esempio, è attribuita all’identificazione immaginaria. Invece di spaccare la testa all’altro che gli sta davanti, il soggetto si identifica, e rivolge contro se stesso questa dolce aggressività, concepita come una relazione oggettuale libidica, e fondata su ciò cui si dà il nome di istinti dell’io, cioè i bisogni di ordine e di armonia.
Bisogna pur mangiare – quando la dispensa è vuota, si divora il proprio simile. L’avventura libidica è qui oggettivata nell’ordine del vivente, e si suppone che i comportamenti dei soggetti, la loro interaggressività, siano condizionati e spiegabili da un desiderio fondamentalmente adeguato al suo oggetto.

Il senso di Al di là del principio di piacere è che questo non basta. Il masochismo non è un sadismo rovesciato, il fenomeno dell’aggressività non si spiega semplicemente sul piano dell’identificazione immaginaria. Ciò che Freud ci insegna con il masochismo primordiale, è che l’ultima parola della vita, una volta che è stata spossessata della parola, non può essere che l’estrema maledizione che si esprime alla fine dell’Edipo a Colono.
La vita non vuole guarire. La reazione terapeutica negativa le è congeniale. La guarigione, del resto, che cos’è? La realizzazione del soggetto attraverso una parola che viene da altrove e lo attraversa.

La vita di cui siamo prigionieri, vita essenzialmente alienata, ex-sistente, vita nell’altro, è come tale congiunta alla morte, torna sempre alla morte e non è attirata nei circuiti sempre più grandi e più tortuosi che da ciò che Freud chiama gli elementi del mondo esterno.
La vita non pensa che a riposarsi il più possibile in attesa della morte. È ciò che macina già il tempo del lattante all’inizio della sua esistenza, per settori orari, che non gli lasciano aprire che un occhietto di tanto in tanto. Bisogna proprio stanarlo da qui perché arrivi al ritmo tramite cui ci mettiamo in accordo con il mondo.

Se è a livello del desiderio di sonno, di cui lei, Valabrega, parlava l’altro giorno, che può apparire il desiderio senza nome, è perché è uno stadio intermedio – questo assopimento è lo stato vitale più naturale.
La vita non pensa che a morire – Morire, dormire, sognare forse, come ha detto un certo signore, nel momento preciso in cui si trattava di questo – to be or not to be.

(Lacan, Il Seminario: 2)

***

La dissoluzione del loro proprio essere, ecco cosa hanno in comune Edipo e Valdemar. Hanno tutt’e due un certo «complesso», a proposito del quale – come puoi ben constatare Gleeson-oracolo– a dispetto dell’accezione volgare, non una sola volta è tirato in ballo… il Padre.
Io non sapevo neanche chi fosse quell’uomo! – dice, a sua discolpa, Edipo.
Il parricidio è, dunque, solo un incidente di percorso. E lo stesso incesto non è che un effetto collaterale del «destino» di Edipo. L’uno e l’altro, non sono che conseguenze di una fatalità da prendere, mai come qui, con la dovuta cautela etimologica. Fato è, alla lettera, «ciò che è stato detto». Fato è il «detto» che precede, anticipa e dà una direzione all’«esistenza» umana di Edipo. Fato è il «detto» che custodisce il Senso del suo «ex-sistere»: anche qui, alla lettera, del suo essere «esposto», posto fuori dal suo proprio essere… per venire qui, tra gli uomini, a esserci. Perché noi tutti ex-sistiamo sulla parola – ciascuno della sua Tebe.

Il solco è già segnato. Per ogni bambino che nasce, la strada è già tracciata dal Mito della sua Gente.
Edipo e Valdemar – questo hanno in comune: che sono entrambi alla fine di questa, che è la loro, ma anche la nostra via fatale. La via delle favole, delle scaramanzie e delle credenze, delle speranze e delle illusioni, e soprattutto dei giuramenti, su cui tutto un Popolo – chissà da quanto tempo, e al prezzo di quali e quanti roghi e inquisizioni, e verso quale sbocco – è incamminato.
Prima che Edipo venga al mondo, l’Oracolo, augh!, ha già parlato. E ha già fatto di lui un essere «mitico».

È solo quando si spoglia di ogni mitologia, cioè solo alla fine della sua vita, che Edipo mette a nudo l’insensatezza di questa «bolla» che è la sua esistenza tracciata contro lui stesso dal Detto di Tebe. L’«umano», nell’ora «fatale», si sgonfia – che si tratti di un palloncino, o all’opposto di una grossa balla, non fa differenza: quando suona l’ora di uscire dall’esserci e di tornare alla nudità del proprio essere, tutto il Detto, qualunque liquefazione-MagritteMito – ora che è passato tutto quanto da un’esistenza che l’ha incarnato – si scioglie, si liquefa, si sbriciola come il cadavere di Valdemar nelle mani del suo Dottore.

Essere, essere stati solo la carne di un mito altrui – non è poco: è Niente. Per essere un «uomo» Edipo, come chiunque di noi, deve prima diventare «nulla». Deve accecarsi, mutilarsi e soprattutto maledirsi chissà quante volte, per diventare un «uomo» agli occhi della sua Gente. Bisogna che si annienti in lui ogni «qualità», perché sia poi riconosciuto come l’incarnazione piena del Detto Umano. Come la tragico-eroica Figura che, al pari delle (sedate) Eumenidi, segna il Confine della Parola, al di là del quale ogni «dire», ogni mito, ogni racconto, si rende al suo (originario e insensato) silenzio.

L’aldilà del principio di piacere – è il Territorio del nostro essere silente, del nostro essere nulla di ciò che si dice di noi. Non c’entra il padre, non c’entra la madre – se non perché si fanno complici, entrambi, del «dettato» oracolare. Nel «complesso di Edipo» c’entra soltanto la Potenza della Parola «fatale» che anticipa, precede e dà una direzione all’«essere» di ciascuno di noi, ancor prima che venga al mondo.
Bisogna essere «senza qualità» per esserci. Le «qualità», le detiene la Parola dell’Oracolo: è Lei che le dispensa – iniziandoci all’esserci, a esistere asserviti al dettame dei suoi princìpi.

Ma, al di là dell’esserci, e qui poco importa se davvero è un «piacere» esserci – oltre il Detto che socializza il «piacere» quale principio della nostra esistenza, non c’è più niente. Niente che si possa rappresentare. Niente che si possa dire. Niente che si possa opporre alla Potenza del Detto, del Mito, del Racconto a cui tutto un Popolo ha rimesso il destino dei suoi membri – tutti in viaggio nella stessa «bolla di sapone». Su, avanti, che nessuno faccia più la fesseria di Orfeo – di voltarsi a guardare indietro!
Di te faremo un «uomo»: sentenzia l’Oracolo. E «uomo», Edipo lo diventa realmente solo quando realmente non è più nulla di «ciò che è» di là dall’esserci, e là finalmente assolto dai lacci del «piacere» e, va da sé, del «dispiacere».

Bianchi-genere

Di là, dice Freud così come Lacan lo interpreta, c’è solo vita con l’attitudine a morire. C’è solo essere desti, ma come sonnambuli che continuano a dormire. E, dormendo, viaggiano e sognano «ricette d’immortalità», eterni ritorni, resti e frantumi d’illusioni, echi di favole che il tempo ancora non ha avuto il tempo di ammutolire.
Di là dalle Simplegadi – come vedi, siamo sempre alla solita Frontiera – nel recinto sacro del Silenzio, il nostro Niente è lì che ci aspetta all’appuntamento muto dell’essere. Non c’è parola che possa «dirlo»: è l’Antico dei Giorni che aspetta solo l’ora di mettersi a dormire. Perché, se c’è un posto al mondo dove una briciola d’essere ancora ci sopravvive, è proprio e solo nei sogni che dormiamo.

L’uomo è un sogno, io stesso non sono che un sogno già sognato dall’Antico dei Giorni: io è più Lui che me. Nel mio «io» io ci sto di straforo, di sguincio, collaterale traverso, abbastanza ammaccato, e tuttavia «complessato» quanto basta per essere, pure io, edipica mente diventato un «pezzo d’uomo».
È l’Oracolo che bisognerebbe portare dal Dottore – perché ci mandate me a Colono? Io, quell’uomo, che voi dite essere «mio padre», io nemmeno sapevo chi fosse. E «mia Dalì-cioccolatomadre», è stata la Gente a «darmela». Io, tutto immaginavo fuorché un incesto: con lei altro non cercavo che di congiungermi con la Sposa dei miei sogni. Ma la Sposa dei miei sogni, anche quella ahimé, è stato l’Antico dei Giorni che l’ha sognata per me! Come lui stesso racconta, fu il suo, un sogno sognato prima del Diluvio. Prima che la Nave Argo andasse a sbattere contro le Rupi Cozzanti, e una scheggia del suo legno diventasse il mio «io».

Ora che quel legno è marcito, non mi resta che ritornare all’essere. Ora che la «balla» del Mito s’è sgonfiata, tutto quello che posso lasciar «detto» è solo una tardiva ritorsione del Detto contro se stesso. Solo per maledire la sua maledizione, che ha preteso d’incarnarsi nel mio essere, e – dagli oggi, e dai domani – l’ha «complessato» fino a farne un masochista del suo proprio «niente», un miscredente che si accanisce contro quel «nessuno» che è il suo essere irrappresentabile.
Perciò, se ho ancora un po’ di mito appiccicato addosso, per favore strappatemelo – quello è «io», è Edipo, è Valdemar che chiede: fate in fretta, ché ho solo voglia di dormire in santa pace!