Colli – Il contatto metafisico

A designare l’immediatezza, con un’intenzione soltanto allusiva, può servire il termine «contatto». Il suggerimento viene dalla generica prospettiva della conoscenza come relazione tra soggetto e oggetto.
Contatto sarà qualcosa dove soggetto e oggetto non si distinguono, e più precisamente, ciò di cui un’espressione primitiva è espressione [cfr. Mastro Eckhart: ciò di cui finestra-sedial’immagine originaria è immagine]: in esso non vi è soggetto che determini né oggetto che sia determinato – ma la memoria testimonia il nesso tra il soggetto che rappresenta e ciò che era prima [il Passato che non passa, che coesiste], come pure tra l’oggetto rappresentato e ciò che era prima [quando era pura immediatezza irrappresentabile].

Nella bruta impressione sensoriale soggetto e oggetto sembrano confondersi, ma già la sua localizzazione in un organo di senso avverte che le condizioni rappresentative sussistono ancora, e che il distacco [dall’immediatezza] permane.
L’impressione sensoriale rimanda dunque a un fondamento ulteriore [al di là dell’organo di senso]: risulta postulata una confluenza, dove soggetto e oggetto cessano di essere tali. Interpretando l’irrappresentabile secondo la struttura rappresentativa, si può dire che esso è il contatto tra soggetto e oggetto.

Con ciò è dichiarata la mancanza di rigore nell’uso di «contatto»: fuori della rappresentazione i termini «soggetto» e «oggetto» non hanno senso, mentre in contatto dovrebbero essere proprio il soggetto e l’oggetto, che continuerebbero così a esistere anche fuori della rappresentazione.
Il contatto, come elemento metafisico, dev’essere comunque soltanto un limite inconoscibile, postulato dalla struttura dell’apparenza, e al quale l’espressione, analizzata, rimanda. […]

Il contatto non si può definire in un punto. E anzitutto occorre distinguere, come già fece Aristotele, tra contatto e punto di contatto.
Se consideriamo la sfera della rappresentazione sotto la categoria della quantità, secondo le prospettive dello spazio e del tempo, entro cui sono collocate le espressioni prime e tutte le loro determinazioni di soggetti e oggetti, risulta allora postulato come fondamento quantitativo della rappresentazione il concetto di continuità.

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Orbene, il punto di contatto in sé non esiste, poiché ogni quantità continua è ovunque divisibile nel senso di non lasciare nulla in mezzo. Invalidi sono quindi da giudicare i tentativi di affermare il punto di contatto, che in ogni tempo sono stati compiuti allo scopo di dominare razionalmente la quantità continua: vano è pensare, con Aristotele o Dedekind, a un’unificazione delle parti (synapsis) o a un elemento separatore tra due classi di un sistema continuo.

Si trasferisca ora il discorso dalla sfera matematica a quella metafisica: se il contatto si definisse in un punto, riemergerebbero soggetto e oggetto, e il punto definito apparterrebbe o all’uno o all’altro. A entrambi non potrebbe, poiché ogni parte di ciò che si dice oggetto è tale solo per un soggetto a esso estraneo.
Dunque il contatto non può essere un punto e non rimane che pensarlo come divisione tra due segmenti in cui si spezza una linea. In tal caso il contatto di soggetto e oggetto verrebbe espresso mediante un vuoto rappresentativo, poiché tale è la suddetta divisione, in quanto, secondo la quantità, la linea è la stessa cosa dei due segmenti, di cui l’uno indicherebbe il soggetto e l’altro l’oggetto.

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Con il taglio di una linea continua, che è una rappresentazione, si accenna quindi a qualcosa che alla rappresentazione non appartiene, e che simbolicamente chiamiamo contatto, toccamento, congiungimento.
Ed è proprio dall’analisi della rappresentazione – in questo caso, del concetto universale di continuità – che emerge qualcosa di non dominabile dalla rappresentazione, con cui si allude dunque all’irrappresentabile. Il non dominabile è quel vuoto che si apre in mezzo, e che il tessuto della continuità non dovrebbe ammettere.

Ma per definizione il continuo può essere tagliato, e allora come si potrà evitare che la divisione cada tra due segmenti, i quali sono in contatto nel senso limitato che tra essi non c’è nulla?
Il contatto è così l’indicazione di un nulla rappresentativo, di un interstizio metafisico, che però è un certo nulla, poiché ciò che esso non è, il suo intorno rappresentativo, gli dà una determinazione espressiva.

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Ma come può insinuarsi il ricordo [come può il contatto lasciare una traccia di sé] nella rete della rappresentazione? Se noi ricordiamo l’immediatezza, ciò è possibile, in termini di una deduzione, perché tra quella immediatezza e il nostro ricordo c’è qualcosa di comune. E se la conservazione non presupponesse un possesso, cioè se il nostro ricordo non partecipasse in qualche modo di quell’immediatezza, esso non potrebbe neppure sussistere, né esprimerla attraverso la rappresentazione.
Certo, questo elemento comune non si può spiegare mediante il soggetto e l’oggetto, che nell’immediatezza sono assenti. Nell’irrappresentabile la sfera dell’espressione trova un limite, che essa non può ridurre a sé, ma che deve interpretare, appunto perché essa stessa lo testimonia.

Dice Parmenide: «Qualcosa di concatenato è ciò da cui comincio: colà infatti ritornerò di nuovo». La circolarità dell’esperienza conoscitiva è ciò che fa concludere alla Gertler-giostracompattezza del fondo della vita.
Con questo si allude a qualcosa di più che a un eterno ritorno delle cose uguali, che è soltanto una legge della rappresentazione. Tale ritorno è colto da Parmenide appunto come l’espressione dell’«ora», del presente, dell’immediatezza non apparente e nascosta, «lontano dal sentiero degli uomini». L’eterno ritorno assicura che, fuori della rappresentazione, «ciò che è» è incrollabilmente concatenato a «ciò che è», senza gli interstizi dell’apparenza. La circolarità della conoscenza è la garanzia del possesso di un presente inesteso.

Così l’immediato s’intreccia con l’espressione, e l’extrarappresentativo viene trascinato nell’immanenza. Il contatto metafisico non è un principio trascendente, di cui tutte le serie temporali siano un’espressione a posteriori. La fatalità irreversibile del tempo vale entro l’espressione circoscritta, ma nell’apparenza complessiva, per l’inesausta circolazione delle serie espressive, ogni istante di tempo è il ricordo di un cominciamento.

E il cominciamento – in sé fuori del ricordo e quindi anche fuori del tempo – è ogni volta un contatto, che risulta così dedotto dall’eterno ritorno, dal tessuto temporale dove non soltanto ogni dopo è un prima e ogni prima un dopo, ma dove ogni momento allude a un inizio e lo esprime.
Il presente è intrecciato a questo tessuto, pur senza appartenervi: ovunque si voglia coglierlo lungo il fluire del tempo, il filo si spezza e il presente precipita laggiù nell’abisso.

(Colli, Filosofia dell’espressione)

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Dalì-miraggio

… l’immagine al di là dell’immagine, quell’Immagine di cui è immagine solo la prima immaginazione infantile, quell’Irrappresentabile, quella che non ha nessun Presente se non nella «falsificazione» che ne elabora la Memoria ogni volta che se la rappresenta – dunque: quel Passato là, quel Reale Primitivo, quel Tempo immemoriale… è il Grande Paradosso di tutte le sapienze.
Non ne sappiamo niente. Sappiamo a stento dire che è il Niente di tutte le nostre rappresentazioni. Dargli una qualunque «identità» equivarrebbe ad assoggettarlo alle nostre mediazioni simboliche.

Se, per es., diciamo che l’immagine è mestiere degli occhi, se cioè la rinviamo a un organo di senso, e la riempiamo di colori, con ciò stesso l’avveleniamo e, insieme, ci accechiamo alla sua immediatezza «senza immagine», per ridurla a questa o a quella forma epifanica.
L’Immagine di cui la prima immaginazione è immagine, è la Forma Vuota a cui, non solo gli occhi, ma tutti i nostri organi di senso rinviano come al loro infondato Fondamento. Quella Forma è, per così dire, la placenta condivisa da Madre e Figlio. Il Figlio, il Ricordo, «ha» e soprattutto «è» qualcosa della Madre, l’Immediatezza. Il Figlio è immagine del Narciso-miraggioSenza Immagine. O, come diceva Platone, è immagine dell’Idea Vuota, del Manco irrappresentabile.

Tra Madre e Figlio c’è una placenta, che è tutt’e due e, insieme, nessuno dei due. Che li unisce e li separa, per diventare essa, poi, la loro terza «persona».
Un tempo, essa fu tutt’e due. Oggi, il Ricordo è diventato il nuovo Soggetto, e la Madre che fu il suo Passato, è ridotta a Oggetto delle sue rappresentazioni. E tra di loro non rimane che la traccia di un certo «contatto» che fu.
Il Grande Paradosso è che, quanto più prova a renderselo «presente» questo oggetto fantasmatico della sua Matrice, tanto più la Memoria lo rigetta nel posto sbagliato, nel Passato che passa delle sue rappresentazioni temporali, perdendone così di vista l’«eterno ritorno».

Nel grembo dell’Immediatezza, nel suo fluire continuo, non c’è iato, né rottura, né spezzatura alcuna: tra «ciò che è» e «ciò che è» non c’è nessun vuoto. È la nostra rappresentazione che, nel tentativo di interpolarvi il suo Presente, s’imbatte nella Forma Vuota del suo Passato Irrappresentabile.
È la poppa della Nave Argo che, alla presenza delle Simplegadi, si distacca dal suo Passato immemoriale. E per quanto non sia più altro che un relitto della Nave che fu, è tuttavia, ci dice a modo suo Colli, pur sempre fatta dello stesso «legno». Partecipa della sua «natura», malgrado sia ogni giorno di più infettata di «cultura».

È una delle soluzioni proposte dallo stesso Platone: se le Idee e le Cose non avessero niente in comune, come potremmo anche solo pensarle, le Idee? Se non ci fosse il Passato «senza memoria», e se questo Passato non lasciasse, esso, almeno una traccia del suo «passare», da dove spunterebbe fuori un minimo ricordo? Se l’immediatezza di questo Passato non cedesse da qualche parte, se non accusasse una qualche debolezza, infermità o «mancanza d’essere», da dove una qualunque «mediazione»? Se non fosse il Passato stesso a volersi ingannare e falsificare… da dove tutta la nostra «realtà» simbolica?