Pantagruele, nel ritirarsi, scorse Panurge sul loggiato che, tutto preso nella fantasmagoria delle sue fantasie, dimenava la testa, e gli disse: «Mi sembrate un sorcio nella pece, che tanto più si sforza di liberarsi, e tanto più vi s’impiastra. Allo stesso modo voi, sforzandovi di venir fuori dai lacci della perplessità, vi rimanete irretito più di prima. Io non ci vedo che un solo rimedio. Sentite: ho spesso inteso dire a mo’ di volgare proverbio che certi matti la danno a bere ai saggi. Ebbene, poiché le risposte dei saggi non vi hanno a pieno soddisfatto, consultate un pazzo; può darsi che, così facendo, vi troviate più soddisfatto e contento secondo il vostro gusto. Voi sapete quanti principi, re e repubbliche, sono stati salvati, quante battaglie vinte, e quanti dubbi risolti dal parere, consiglio e predizione dei matti. Non è necessario ricordarvi gli esempi.
«Vi basterà questa considerazione: colui che è tutto intento ai suoi affari privati e domestici, scrupoloso e vigilante nel governo della sua casa, la cui mente non è mai sviata da altro pensiero, e che non perde mai occasione di acquistare e ammassare beni e ricchezze, e che sa ovviare cautamente agli inconvenienti della povertà, costui, voi lo chiamate savio in questo mondo, benché sia sciocco nella stima delle Intelligenze celesti; per comparire saggio davanti a queste conviene, voglio dire saggio e presaggio per aspirazione divina, e atto a ricevere il dono della divinazione, bisogna invece dimenticare se stessi, uscire fuor di sé, sgombrare i propri sensi d’ogni terrena affezione, purgare il proprio spirito da ogni umana cura, e metter tutto in non cale. Il che, volgarmente, è considerato follia.
«Ecco perché il volgo ignorante chiamò Fatuo il grande vaticinatore Fauno, figlio di Pico, re dei Latini. E allo stesso modo vediamo che tra gli attori, alla distribuzione delle parti, i personaggi dello Sciocco e del Buffone sono sempre affidati agli attori più abili ed esperti della compagnia.
Analogamente dicono i matematici che uno stesso oroscopo si ottiene alla natività dei re e degli sciocchi. E citano l’esempio di Enea e di Corebo (che Euforione sostiene essere stato pazzo), i quali ebbero lo stesso genetliaco. Non reputo d’uscir di proposito se vi racconto ciò che disse Giovanni Andrè sopra un canone di certo rescritto papale, indirizzato al sindaco e ai borghesi della Rochelle, e dopo lui Panormo, riguardo allo stesso canone, e il Barbatia riguardo alle Pandette, e, recentemente, Giasone nei suoi Consigli, a proposito di Ser Giovanni, pazzo insigne di Parigi, bisavolo di Quaglietta. Il caso è questo.
«A Parigi alla Rosticceria del Castelletto, davanti alla bottega del rosticciere, un facchino mangiava il suo pane condito dal fumo dell’arrosto e, per via di quel profumo, lo trovava tanto saporito. Il rosticciere lo lasciava fare. Alla fine però, quando quello ebbe finito d’ingurgitare, il rosticciere te lo abbranca per il colletto e pretendeva che gli pagasse il fumo del suo arrosto. Il facchino diceva di non aver danneggiato in niente quegli arrosti, di non aver preso nulla di suo, e di non essergli debitore di nulla. Il fumo in questione vaporava fuori della bottega; in un modo o nell’altro andava perduto; non s’era mai udito che a Parigi si fosse venduto per la strada fumo d’arrosto. Il rosticciere replicava ch’egli non era obbligato a nutrire i facchini col fumo del suo arrosto e minacciava, se non fosse stato pagato, di togliergli gli arnesi del mestiere.
«Il facchino dà mano al bastone e si mette sulla difesa. L’alterco ingrossò, e il popolo, badalucco, di Parigi accorreva da ogni parte alla disputa. Là si trovò giusto a proposito Ser Giovanni, il pazzo, cittadino di Parigi. Avendolo visto, il rosticciere chiese al facchino: “Vuoi tu che chiamiamo giudice della questione il nobile Ser Giovanni?”.
“Sì, sangue di Dio”, rispose il facchino.
E allora Ser Giovanni, dopo aver sentita la questione, comandò al facchino di tirar fuori dalla cintura una moneta d’argento. Il facchino gli mise in mano un tornese del re Filippo; Ser Giovanni lo prese e se lo pose sulla spalla sinistra, come per verificare se il peso fosse giusto; poi lo fece risonare sul palmo della mano sinistra, come per assicurarsi che fosse di buona lega; poi se lo pose sulla pupilla dell’occhio destro, come per vedere se fosse di buon conio. Tutto ciò fu fatto tra il più gran silenzio del popolo a bocca aperta, in fiduciosa attesa del rosticciere e disperazione del facchino. Alla fine fece risuonare più volte la moneta sul banco della bottega. Poi, con aria di maestà presidenziale, tenendo in pugno la sua bacchetta come fosse uno scettro, e calcando in testa il cappuccio di finta martora tutto a orecchiette di carta crespata, prima tossì almeno due o tre volte, poi disse ad alta voce: “Sentenzia la Corte che il facchino che ha mangiato il suo pane condito del fumo dell’arrosto, ha debitamente pagato il rosticciere col suono del suo danaro. Ordina la detta Corte che ciascuno si ritiri nella sua ciascuneria, senza le spese, e per le sue buone ragioni”.
«Questa sentenza del matto parigino apparve assai equa ai dottori di legge, anzi ammirevole, al punto che essi dubitano, nel caso la questione fosse andata al Parlamento di Parigi, o alla Sacra Rota di Roma, o magari fra quegli antichi Areopagiti, che sarebbe stata più giuridicamente risolta. Pensate pertanto se volete prender consiglio da un pazzo».
«Per l’anima mia – rispose Panurge. – Altroché se lo voglio! Mi pare che il budello mi s’allarghi. L’avevo prima ben chiuso e costipato. Ma come abbiamo scelto prima per consigliarci il fior fiore della sapienza, così vorrei ora che a presiedere alla nostra consultazione fosse un matto che sia però matto in grado sovrano».
«Triboletto – disse Pantagruele –, mi sembra competentemente matto».
«Sì – rispose Panurge. – Propriamente e totalmente matto».
«Matto fatale».
«Matto fuorigiri».
«Matto di natura».
«Matto in bequadro e in bemolle».
«Matto celeste».
«Matto terrestre».
«Matto gioviale».
«Matto beato e folleggiante».
«Matto mercuriale».
«Matto grazioso e scherzoso».
«Matto lunatico».
«Matto coi fiocchi».
«Matto erratico».
«Matto a pendaglio».
«Matto eccentrico».
«Matto a sonagli».
«Matto etereo e giunonico».
«Matto ridente e venereo».
«Matto artico».
«Matto di soppiatto».
«Matto eroico».
«Matto da torchio».
«Matto geniale».
«Matto di prima fermentazione».
«Matto predestinato».
«Matto di mosto».
«Matto augusto».
«Matto originale».
«Matto cesareo».
«Matto papale».
«Matto imperiale».
«Matto concistoriale».
«Matto regale».
«Matto da conclave».
«Matto patriarcale».
«Matto parrocchiale».
«Matto speciale».
«Matto sinodale».
«Matto leale».
«Matto episcopale».
«Matto ducale».
«Matto dottorale».
«Matto popolare».
«Matto monacale».
«Matto feudale».
«Matto fiscale».
«Matto dominante».
«Matto stravagante».
«Matto principesco».
«Matto magistrale».
«Matto pretoriale».
«Matto di prima tonsura».
«Matto totale».
«Matto cotale».
«Matto elettorale».
«Matto patentato in pazzia».
«Matto curiale».
«Matto commensale».
«Matto di primo pelo».
«Matto primo della classe».
«Matto trionfale».
«Matto caudatario».
«Matto volgare».
«Matto supererogatorio».
«Matto domestico».
«Matto collaterale».
«Matto esemplare».
«Matto alterato».
«Matto raro e peregrino».
«Matto babbuino».
«Matto aulico».
«Matto migratorio».
«Matto civile».
«Matto di rama».
«Matto popolare».
«Matto solitario».
«Matto familiare».
«Matto gentile».
«Matto insigne».
«Matto con le pigne».
«Matto favorito».
«Matto predone».
«Matto latino».
«Matto di nuova coda».
«Matto ordinario».
«Matto screziato».
«Matto temuto».
«Matto farneticante».
«Matto trascendente».
«Matto di sottobarba».
«Matto sovrano».
«Matto tronfio».
«Matto speciale».
«Matto superimpapaverato».
«Matto metafisico».
«Matto corollario».
«Matto estatico».
«Matto di levante».
«Matto categorico».
«Matto zibellino».
«Matto predicabile».
«Matto cremisino».
«Matto decumano».
«Matto granatino».
«Matto ufficiale».
«Matto borghese».
«Matto di prospettiva».
«Matto mal costrutto».
«Matto logaritmico».
«Matto di gabbia».
«Matto algebrico».
«Matto modale».
«Matto cabalistico».
«Matto di seconda intenzione».
«Matto talmudico».
«Matto d’almanacco».
«Matto d’amalgama».
«Matto eteroclito».
«Matto compendioso».
«Matto da Summa».
«Matto abbreviato».
«Matto abbreviatore».
«Matto iperbolico».
«Matto da moresca».
«Matto antonomastico».
«Matto col bollo».
«Matto allegorico».
«Matto mandatario».
«Matto tropologico».
«Matto incappucciato».
«Matto pleonastico».
«Matto titolare».
«Matto capitale».
«Matto tapino».
«Matto cerebrale».
«Matto burbero».
«Matto cordiale».
«Matto ben mentulato».
«Matto intestinale».
«Matto rammollito».
«Matto epatico».
«Matto coglione».
«Matto splenetico».
«Matto scolaro».
«Matto ventoso».
«Matto sventato».
«Matto legittimo».
«Matto culinario».
«Matto d’Azimut».
«Matto d’alto fusto».
«Matto d’Almicantarat».
«Matto girarrosto».
«Matto proporzionato».
«Matto lavapiatti».
«Matto d’architrave».
«Matto catarroso».
«Matto da piedistallo».
«Matto di pietra».
«Matto di paragone».
«Matto da ventiquattro carati».
«Matto celebre».
«Matto bizzarro».
«Matto solenne».
«Matto da martingala».
«Matto annuale».
«Matto a bastoni».
«Matto da festival».
«Matto a mazzetta».
«Matto ricreativo».
«Matto di ramo fiorito».
«Matto di campagna».
«Matto di buona misura».
«Matto allettante».
«Matto claudicante».
«Matto privilegiato».
«Matto antiquato».
«Matto zotico».
«Matto zoticone».
«Matto ordinario».
«Matto a tutto busto».
«Matto a tutte l’ore».
«Matto sgargiante».
«Matto in diapason».
«Matto sgargiato».
«Matto risoluto».
«Matto indefesso».
«Matto geroglifico».
«Matto da rebus».
«Matto autentico».
«Matto modello».
«Matto di valore».
«Matto da tutore».
«Matto prezioso».
«Matto a doppia piega».
«Matto fanatico».
«Matto alla damaschina».
«Matto fantastico».
«Matto da intarsio».
«Matto linfatico».
«Matto a faccia di lepre».
«Matto panico».
«Matto baritonale».
«Matto lambiccato».
«Matto moschettato».
«Matto simpatico».
«Matto a prova d’archibugio».
Pantagruele: «Se ci fu qualche ragione un tempo a Roma per chiamare Quirinalia le feste dei pazzi – in Francia si potrebbe a ragione chiamarle Tribolettinalia».
Panurge: «Se tutti i pazzi portassero il sottocoda, avrebbero le natiche ben scorticate».
Pantagruele: «Se come il dio Fatuo, del quale abbiamo dianzi parlato, fosse anche lui marito della dea Fatua, suo padre sarebbe Buondì, e sua nonna Bonadea».
Panurge: «Se tutti i pazzi corressero il palio, lui, sebbene abbia le gambe storte, sovrasterebbe tutti gli altri d’una spanna. Andiamo dunque da lui senza perdere tempo, e ne avremo qualche bella risposta, sono sicuro!».
(Rabelais, Gargantua e Pantagruele, 3: 37-38)
***
Il nostro povero Panurge ha bussato a tutte le porte. Nessuno però gli ha dato garanzia che, dopo le nozze, non ci saranno le corna! Né l’astrologo, né il buon frate conventuale, né il teologo, né il dottore, né l’uomo di legge, e neanche il filosofo sono riusciti a rassicurarlo. Anzi, ciascuno di loro, in un modo o nell’altro, gli ha sbattuto sul muso l’amara verità, e cioè che «le corna sono naturale appannaggio del matrimonio». Si metta pure l’anima in pace: nessuno, e dunque neanche lui, potrà sfuggire a questa regola nuziale.
In tutto questo, come dubitarne?, è Rabelais che da dietro le quinte della sua Commedia se la spassa. A chi faremo fare, si domanda, la parte dell’Idiota in cotale messinscena? A chi, se non al comune viandante che – si può essere più ingenui? – si aggira nel Reame della Parola per avere una risposta alla sua domanda? A chi, se non a chi dai Sapienti della Parola s’aspetta la Ricetta che faccia al caso suo?
Il «pellegrinaggio» di Panurge non è che la metafora di questa ingenuità, che affligge tutti noi, tant’è che, in questo momento, siamo a passeggio proprio tra le parole, e in cerca di che cosa? – se non della parolina magica che, a quanto pare, manca alla formula del nostro incantesimo?
Tutti cerchiamo la Parola che risponda a quella nostra indefinita domanda inconscia che è, in senso lato, sempre una domanda di congiunzione e di accoppiamento – e sempre, soprattutto, un problema. E la materia prima di ogni problema, si sa, è il dubbio, l’enigma, la perplessità.
Il problema propriamente «umano», è che la nostra domanda finisce per rimettere il suo destino ultimo al Responso verbale. È che la consegniamo alle parole nell’illusione che le parole facciano tutt’altro che quello che realmente fanno, e cioè nient’altro che farci girare in tondo da uno «spero prometto e giuro» all’altro. Nient’altro che un raggiro ci offrono, un modo per ingannare noi stessi a proposito di quella domanda.
Le parole ci scippano la nostra domanda, e ce la traducono in lingua volgare. Il nostro desiderio, lo obbligano o quantomeno lo spingono a omologarsi al logos popolare. Il desiderio di ciascuno di noi è, dunque, sempre il desiderio dell’altro. È così differente alla radice, e così invece uguale a quello degli altri una volta «nominato».
Sì, tu dici che il tuo è un desiderio singolare, che nessuno l’ha mai provato, non al modo tuo, ma poi, per esempio, lo chiami amore, odio, amicizia, disgusto, piacere o come altro ti pare, ed ecco – s’è disperso nella Moltitudine, s’è perso sulla via lastricata delle voci della Piazza.
Ora che ha un’«identità», non è più se stesso. La parola gli ha tolto di bocca il sapore della sua differenza. L’ha alienato al suo «paradiso» narcisistico.
Insomma, Panurge ne dovrà fare di strada prima di prendere atto che i Sapienti della Parola sanno fare solo questo mestiere: promettere una Ricetta ai malati, una Soluzione ai problematici, e soprattutto un’Assoluzione ai peccatori.
Ora pro nobis!
Intanto, quel mattacchione di Rabelais, da dietro le quinte, se la ride. La sua Commedia è fatta di parole. Ora pro nobis! Lui, il Super-Poeta, il Dupin della «lettera rubata», il Super-Intelligente che ha trasceso matematica e poesia in un sol balzo, non s’è guadagnato altro che il diritto a fare lui la parte dello Sciocco, lui quella del Buffone, o dello Scemo del Villaggio. Lui, la parte del Folle nell’/okipa/ dei Mandan – perché la Folla rinsavisca, perché il Villaggio intenda il gioco a cui sta giocando.
Ora pro nobis! Siamo tutti persi in questa valle, e nessuno sa più la via per risalire sul monte!
E se forse qualcuno ancora c’è, qualcuno che in mezzo a noi parla, e non è né Filosofo, né Dottore, né Scienziato, né Poeta /sia ringraziato iddio che lo ha risparmiato da queste mitologie neanche tanto mascherate/ ebbene, dice il Comico Rabelais, costui è il Pazzo.
Neanche il Parlamento di Parigi o la Sacra Rota pontificia saprebbe mai dirimere la questione delle questioni – la Domanda delle Domande: come ci si può sciogliere dai lacci della Parola? Se è la Parola a creare le questioni, come si può a parole uscire dal Questionario?
Se pure viaggia come tutti noi nel Reame della Parola, il Pazzo di Rabelais, come il Folle dei Mandan, ha la giusta «schizofrenia» del sì e no, del «sia questo che quello», dell’andata e del ritorno da monte a valle, e anche viceversa.
Ci vorrebbero due Fiumi, dice il Racconto: uno che scende qui sulla pubblica Piazza, e l’altro che risale per riportare ciascuno di noi alla sua ciascuneria – alla sua propria Montagna immaginale. Un fiume di parole serie, che credono in quello che dicono e si prendono sul serio. Ma insieme anche il fiume delle fesserie, delle sciocchezze e delle insensatezze «gratuite».
Ecco: il Pazzo di Rabelais ha questa «gratuità», questa «grazia» di non rimanere mai appiccicato a una «verità». No, non che sappia distinguere il Fiume vero da quello falso. Solo che li percorre entrambi, e perciò non ha difficoltà a fare l’equazione: il fumo dell’arrosto sta al suono delle monete. Il fumo delle nuvole delle nostre immaginazioni sta al suono delle parole che si lasciano scappare di bocca. Dov’è dunque che s’inceppano, e non sanno più svoltare in senso contrario? in quale palude si sono impantanate le mie parole, se cocciutamente m’impediscono di vedere il Fiume Anonimo dove tutto, daccapo, si ricomincia?
L’abbiamo trascritto, parola per parola, l’Ora pro nobis di Rabelais: c’è parso più autentico dell’Elogio della pazzia di Erasmo, a differenza del quale non ha niente da dimostrare, ma sola da mostrare il Matto che ammattisce nella propria giaculatoria, e che saltando di palo in frasca ora rincorre un’omofonia o un’assonanza, ora invece pignolescamente s’alterna a seguire la sia pur esile traccia di una sequenza «logica».
L’abbiamo trascritto, parola per parola, per saggiare la forza di un Ora pro nobis che non ha «niente», ma proprio «niente» da dire, solo il Niente ha da «dire», il Niente che insiste nella Ripetizione – nella reiterazione e nella ridondanza, fino a estenuare la parola, di modo che sulla lunga distanza si arrenda e, come dice Totò, «senza nulla a pretendere», giunga finalmente a far «risuonare» le sue monete sul banco del Cambiavalute.