Schneider – Il suono primordiale

Ci sono «simboli» che, in realtà, non sono che immagini sonore, simboli la cui base non è altro che una immagine trasferita sul piano acustico. Al contrario, nella musica naturale, la base del simbolo è il suono, e la visibilità deriva da una visualizzazione posteriore al suono.
(Schneider)

Il linguaggio simbolico è fatto, insieme, di immagini e suoni – è dunque sia linguaggio immaginale elevato alla potenza sonora («immagine trasferita sul piano acustico», dice chiave-musicaSchneider), sia anche linguaggio sonoro («musica naturale») capace da sé di evocare e suscitare immagini.
In natura, sarà bene ricordarlo, non c’è musica. La musica, anche la più rozza e primitiva, è già cultura. Allora, cosa intende Schneider (che queste cose le sa benissimo) quando parla di «musica naturale»?
Intende il grido animale, il gemito, il riso, lo strillo e il pianto – e tutte le espressioni sonore «analfabetiche». Intende i «nomi divini», intende le voci «spontanee» della Natura.

Se dunque, nel primo caso, quello dell’immagine elevata a suono, voce, canto e parola, l’acustica è di fatto al servizio dell’immaginazione, è suo strumento «artistico», espediente cioè della sua «rappresentazione», nel secondo invece, là dove i «suoni naturali», simboleggiando tra loro, creano «ritmi» che, da soli, già «manifestano» quello che hanno da «manifestare» (negli intervalli «nuziali» di quinta, di quarta, ecc.), l’immaginazione che ne scaturisce è solo un effetto secondario, soggettivo, e illusorio dell’ascoltatore.
In questo secondo caso, dice Schneider, laddove i «suoni naturali» si sposano tra loro senza nessuna immagine, senza nessuna mediazione visiva, è possibile mettere a fuoco la natura puramente acustica delle origini del linguaggio simbolico.
In principio è il Suono.

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onde-sonore

La tradizione brahmanica parla di un suono primordiale (il brâhman) che, costituendo il primo sacrificio, è inteso come il primo atto creatore. Questo sacrificio sonoro primordiale, che si situa nell’elemento Akâsa e la cui natura è inudibile, si manifesta soltanto dopo la nascita dell’elemento aria.
È dunque col sacrificio del primo soffio vitale che sorge il primo simbolo cosmico. Nel nostro mondo, l’elemento aria costituisce la prima realtà in cui il ritmo creatore può manifestarsi pronunciando se stesso. Tale brâhman che percorre l’aria per imprimerle il proprio ritmo percettibile è «la migliore formulazione possibile»; grazie a essa il ritmo inudibile e trascendente giunge a trasparire (a farsi udibile), al fine di creare il mondo primordiale. E la Kena Upanisad ci dice: «Benché il brâhman si trovi al di là del tempo, esso è ugualmente il luogo d’origine di tutti gli esseri del mondo».

Tale problema di formulazione che grazie al suono sa darsi una forma percettibile pronunciando se stessa, è anche la fonte di tutta la creazione materiale, che sorge quasi da una pietrificazione dei ritmi sonori.
Le formule iniziali sono dunque sempre acustiche, caratterizzate talora come un riso, un grido di gioia o di dolore, o un lamento; ed è solo dopo tale manifestazione spesso duplice, che la materia comincia a formarsi.
In un canto del decimo libro del Rig Veda si legge che in principio gli dèi crearono la stella-taroccoformulazione del canto, poi il dio Agni, e alla fine i doni (gli oggetti concreti) del sacrificio.

Nei miti della creazione il suono primordiale udibile e invisibile ci è spesso rappresentato con l’immagine delle acque nelle tenebre. Per questo il Satapatha Brâhmana ci dice che tali onde sonore hanno la loro sede nella voce di Prajâpati.
Simili metafore, che identificano i suoni con le acque, sono peraltro luoghi comuni della mitologia. Spesso si attribuisce alle voci divine un suono simile ai fragori dei torrenti.

Rimane da definire la collocazione del simbolo in relazione al tempo e allo spazio.
Secondo la filosofia delle Upanisad, il mondo primordiale, avvolto nelle tenebre, esisteva unicamente nel tempo, mentre lo spazio concreto si era sviluppato soltanto con la fioritura della luce e la parziale metamorfosi dei ritmi sonori in concrezioni materiali.
L’Atharva Veda ci dice: «Il tempo ha creato tutto». Da tale affermazione deduciamo che, se il suono udibile era considerato quale proto-forma delle acque, il ritmo udibile appariva come la base del tempo creatore.

Nella situazione anteriore alla creazione, un suono inudibile riposa in un tempo immobile (il «non-tempo»). L’attività creatrice del tempo deriva dal suo farsi sonoro, che tramuta il tempo puro in durata vissuta, cioè in quella melodia cosmica che prefigura il moto nel mondo.
Una durata vissuta è, secondo Bergson, la «continuità indivisibile e indistruttibile di una melodia, in cui il passato entra nel presente e forma con esso un tutto indiviso, che permane indiviso e anzi indivisibile malgrado ciò che a ogni momento vi si aggiunge» (La pensée et le mouvant).

Ridotta alle sue fasi essenziali, la creazione percorre generalmente tre fasi.
Il primo suono-sacrificio che «si dispiega» (tale è l’espressione tecnica nell’esecuzione del sacrificio brahmanico) è un canto di lode, una sorta di sacrificium laudis che in mezzo alle tenebre fa nascere il mondo acustico e lo incoraggia a crescere.
Poi, all’apparire dell’alba, una parte dei ritmi sonori si tramuta in luce, inizialmente sonora; e da tale luce sonora si liberano materie ancora sottilissime, diafane o flessibili, e i primi elementi di un linguaggio articolato. (Nella tradizione vedica tutta questa seconda fase che si aggiunge alla prima è opera del dio Indra).
Durante la terza fase, che si sovrappone alla seconda, i ritmi si consolidano e si concretano nella materia compatta. Così sorge un universo distinto in tre zone, suddivise talora in cinque, sette o nove zone minori diverse.

Kandinsky-sound

La prima zona è oscura e acustica; la terza, che corrisponde allo stato attuale della nostra terra, è concreta e luminosa. La seconda zona costituisce un regno intermedio, immerso nella penombra della sua luce sonora. Tale mondo intermedio è il modello di tutti i santuari futuri, destinati a far da ponte tra il primo e il terzo regno, ossia tra il cielo e la terra.
In un altro modo di rappresentazione, queste tre parti del mondo sono raffigurate come il sonno, il sogno e la veglia. Poiché la materia sottilissima del regno intermedio è ancora tutta vibrante di ritmo, in essa ogni azione è per metà concreta e per metà musicale.

Per questo tutti gli atti degli dèi che abitano tale zona avvengono mediante il canto o l’uso di uno strumento musicale. Il dio del tuono batte il grande tamburo delle nubi, i cacciatori saettano con archi musicali, e per bere l’alimento della parola creatrice servono i cembali.
Queste forme di musica e questi strumenti costituiscono i primi simboli rituali. Gli dèi hanno quindi voluto trasmetterli agli uomini, affinché i loro ritmi potessero trasparire sulla terra e creare un legame tra gli dèi e gli uomini. A questo proposito, la Brhadâranyaka Upanisad, dopo aver sottolineato l’impossibilità di cogliere la suprema realtà, ci dice: «La situazione somiglia a quella del gioco del tamburo. È impossibile chiamata-alle-armitoccare i suoni che escono da un tamburo; eppure, non appena è impugnato, un tamburo o la sua bacchetta, ci si è egualmente impadroniti del suono». […]

Man mano che la penombra [di questo «mondo di mezzo» che è il culto] cede il passo alla luce del giorno, le impressioni ottiche si fanno poco a poco preponderanti. L’intelletto e l’azione concreta sopravanzano, e il puro ritmo acustico arretra, soffocato dall’immagine e dal pensiero concettuale.
Il rito si sforza allora di frenare con un compromesso tale evoluzione. Per ricondurre la coscienza degli uomini al centro acustico della loro esistenza, si suscitano danze rituali, le cui movenze devono simboleggiare i ritmi sonori. Inoltre, ogni atto concreto è accoppiato a un testo, le cui parole esprimono esattamente ciò che i gesti compiono. In tal modo ogni movenza corporea è penetrata da suoni, capaci di dare forza effettiva all’azione concreta.

Questa riduzione dei valori ottici a un substrato acustico non ha, peraltro, nulla di sorprendente, data la grande importanza dell’udito presso i popoli antichi. […]
Quando il ritmo di una tempesta pronuncia se stesso e si dispiega nell’atmosfera, esso si incorpora nel tuono, per trasparirne. Ma poiché gli uomini spesso odono il tuono senza afferrare il valore simbolico di tale fragore, i sacerdoti hanno ideato simboli terrestri che vengono proposti al culto mediante il suono del tamburo, o con l’immagine dell’uccello-tuono, o con la scure del dio del tuono. In questo modo si riconduceva l’attenzione dei fedeli al valore simbolico dei fenomeni.

Ovviamente, il semplice aspetto dell’uccello o della scure suggerisce insieme il frullare delle ali o il grido dell’animale o il risonare della lama, perché è mediante l’udito che l’uomo comunica con le forze sovra-terrestri.
L’Aitareya Brâhmana dichiara expressis verbis che il seggio del brâhman è situato nell’orecchio; e anche san Paolo (Romani, 10: 17) ci dice: Fides ex auditu.
Tuttavia la sola audizione non conduce ancora a una piena partecipazione al simbolo. Non basta ascoltare attentamente il rombo del tuono. È necessario, oltre a ciò, tentare di imitarlo, al fine di prendere corpo in tale ritmo cosmico. Quanto più l’imitazione è fedele, Moshiri-cantantetanto più il cantore fruisce della potenza del simbolo. Alla fine, dice il Satapatha Brâhmana, il cantore può «diventare egli stesso la nube tonante», poiché per la sua voce è assimilato alla nube. […]

La potenza attribuita all’imitazione vocale può essere ugualmente osservata nelle pantomime presso le popolazioni primitive, quando si imita, ad esempio, un animale ritenuto possessore di forze straordinarie.
Un travestimento del corpo non è affatto necessario. Basta una semplice maschera, poiché per l’uditorio il danzatore rimane in ogni modo un uomo. La sua identificazione con l’animale di cui si tratta è fondata essenzialmente sull’imitazione della voce e solo subordinatamente sulla contraffazione dei ritmi corporei. È per la voce che il danzatore è «posseduto».

Nelle pantomime delle superiori civiltà antiche tale realismo era forse più moderato. Tuttavia si prescriveva pure ai brahmani di ruggire come una tigre, al mattino; di strepitare come un’oca, a mezzogiorno; e, al calar della notte, di imitare la voce del pavone.
Se gli inni ad Agni devono ricordare la voce delle bestie feroci; se è giusto avvicinarsi al creatore Prajâpati con una voce dal timbro velato, e al dio del vento con un mormorio, tutto questo prova che l’importanza annessa all’imitazione vocale non è, presso le civiltà superiori, minore che presso i popoli primitivi.

Ricordiamo, infine, anche il clamor assimilationis, con il quale – secondo san Bonaventura – i tetramorfi cantarono innanzi al trono di Dio. Ne segue che il ritmo e la modalità dell’intonazione sono le forze formatrici mediante cui un inno incomincia a vivere e acquisisce la potenza di un simbolo reale.
Simile attuazione suppone, peraltro, che un uomo sappia cantare o parlare in molti modi diversi. Ora, tra tutte le facoltà di contraffazione dei fenomeni esterni, il dono dell’imitazione mediante la voce è considerato come il più degno di nota; per questo è molto probabile che tale pluralità di voci abbia formato il nucleo di quel vecchio concetto secondo cui l’uomo costituisce un microcosmo.

(Schneider, Il significato della musica)