Mastro Eckhart – Modicum et iam non videbitis me

Ho detto in latino una parola, scritta da san Giovanni nel Vangelo che si legge in questa domenica. Nostro Signore la rivolse ai suoi discepoli: «Un poco, appena un poco, e subito non mi vedrete» (Giovanni, 16: 16). Se qualcosa, anche minimo, aderisce all’anima, «non Dalì-vanitas-vanitatummi vedrete».
Sant’Agostino pose la domanda su cosa sia la vita eterna, e rispose dicendo: mi chiedi che cosa sia la vita eterna? Domandalo e ascolta la vita eterna stessa! Nessuno sa cosa è il caldo meglio di chi ha caldo; nessuno sa cosa è la saggezza meglio di chi ha la saggezza; nessuno sa cosa è la vita eterna meglio della vita eterna stessa. Nostro Signore Gesù Cristo dice: «Questa è la vita eterna, che si conosca te, Dio, soltanto come unico vero Dio».

Chi conoscesse Dio di lontano, attraverso una mediazione o in una nuvola, non vorrebbe separarsi da Dio per un attimo, neppure in cambio dell’intero mondo. Cosa pensate allora, quanto straordinario sia, se si contempla Dio senza mediazione? Dice nostro Signore: «Un poco, appena un poco, e subito non mi vedrete». Tutte le creature che Dio ha mai creato o potrebbe creare, se volesse, tutto questo è, nei confronti di Dio, «un poco, appena un poco». Il cielo è così grande e ampio che non ci credereste se ve lo dicessi. Se si prendesse uno spillo e si toccasse il cielo con la sua punta, la parte del cielo colta dalla punta dello spillo, in rapporto al cielo e al mondo intero, sarebbe più grande del cielo e del mondo in rapporto a Dio.

Perciò è detto molto esattamente: «Un poco, appena un poco e non mi vedrete». Finché brilla in te ancora qualcosa della creatura, per quanto piccolo sia, tu non vedi Dio.
Perciò l’anima dice nel libro dell’Amore: «Ho corso in qua e in là, ho cercato colui che la mia anima ama, e non l’ho trovato» (Cantico dei cantici, 3: 2). Essa ha trovato angeli e molte altre cose, ma non colui che la sua anima amava.
Dice ancora: «Appena sono andata avanti un poco, solo un poco, ho trovato colui che la mia anima amava» (Cantico dei cantici, 3: 4); proprio come se volesse dire: appena ho sorpassato tutte le creature, che sono un poco, un poco soltanto, ho trovato colui che la mia anima amava.
L’anima, che vuole trovare Dio, deve sorpassare tutte le creature.

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Sappiatelo: Dio ama l’anima così fortemente che, se si togliesse a Dio di amare l’anima, gli si toglierebbe la sua vita e il suo essere, e lo si ucciderebbe, per quanto si possa dire così; infatti, proprio quello stesso amore con cui Dio ama è lo Spirito santo, e questo stesso amore è lo Spirito santo. L’anima deve davvero essere qualcosa di grande, se Dio l’ama tanto fortemente.

Un maestro dice nel libro dell’anima (Aristotele, De anima, 2: 419a.15): l’occhio potrebbe percepire una formica o una mosca nel cielo, se non vi fosse interposto alcun elemento intermedio. Così ha parlato, con verità, indicando il fuoco e l’aria, ed altre cose, che sono tra il cielo e l’occhio.
Un altro maestro dice: se non vi fosse alcun elemento intermedio, l’occhio non vedrebbe niente. Entrambi hanno ragione.

Il primo dice: se non vi fosse alcun elemento intermedio, l’occhio potrebbe percepire una formica nel cielo. Ed ha ragione. Se non vi fosse alcuna mediazione tra Dio e l’anima, essa vedrebbe senz’altro Dio; infatti Dio non conosce mediazione, e non può sopportare mediazione. Se l’anima fosse completamente nuda e spoglia di ogni mediazione, anche Dio sarebbe per lei nudo e spoglio, e le si darebbe completamente. Finché l’anima non è spoglia e nuda di ogni mediazione, per quanto piccola, non vede Dio. Se vi fosse tra il Chagall-blue-portraitcorpo e l’anima una qualche mediazione, anche della larghezza di un capello, non vi sarebbe mai una vera e propria unione. Se è così per le cose corporali, lo è molto di più per quelle spirituali. Boezio dice: se vuoi conoscere puramente la verità, abbandona piacere e paura, fiducia, speranza e sofferenza. Il piacere è mediazione, paura è mediazione, fiducia speranza e sofferenza – tutto è mediazione. Finché rivolgi a queste cose lo sguardo, ed esse a loro volta rivolgono lo guardo a te, tu non vedi Dio.

L’altro maestro dice: se non vi fosse mediazione, il mio occhio non vedrebbe nulla. Se pongo la mano sull’occhio, non vedo la mano; ma se la tengo davanti a me, la vedo immediatamente. Ciò deriva dalla materialità, che la mano possiede: essa deve essere prima depurata e raffinata nell’aria e nella luce, per poter poi essere introdotta come immagine nel mio occhio. Lo potete osservare in uno specchio: se lo tenete davanti, la vostra immagine appare nello specchio. L’occhio e l’anima sono un tale specchio, che tutto quel che è tenuto davanti ad esso vi appare. Perciò io non vedo la mano o la pietra, ma piuttosto vedo un’immagine della pietra; ma questa stessa immagine non la vedo in un’altra immagine o in un elemento intermedio, ma la vedo immediatamente e senza immagine, perché l’immagine stessa è l’elemento intermedio, non ve n’è un altro; infatti l’immagine è senza immagine, la corsa senza corsa – essa è causa della corsa –; la grandezza è senza grandezza, ma piuttosto la rende grande; perciò è immagine senza immagine, giacché non viene vista in un’altra immagine. La Parola eterna è la mediazione e la stessa immagine, che è senza mediazione e senza immagine, perché l’anima, nella Parola eterna, colga Dio, e lo conosca immediatamente e senza immagine.

C’è una potenza nell’anima, l’intelletto, che fin dall’inizio, appena prende coscienza di Dio o lo gusta, ha in sé cinque proprietà. La prima è quella di essere libera dal qui e dall’ora. La seconda è quella di non aver somiglianza con niente. La terza è quella di essere pura e senza commistione. La quarta è quella di essere operante o ricercante in se stessa. La quinta è quella di essere un’immagine.

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In primo luogo: è libera dal qui e dall’ora. Qui e ora significano il tempo e il luogo. «Ora» è la più piccola parte del tempo, non è frammento o parte del tempo, ma piuttosto un sapore del tempo, una punta e una estremità del tempo. E tuttavia, per quanto piccolo possa essere, deve andarsene; tutto deve andarsene quel che tocca il tempo, o il sapore del tempo. Dall’altro lato: è libera dal qui. «Qui» significa il luogo. Il luogo in cui io sono è davvero piccolo. Tuttavia, per quanto piccolo possa essere, deve sparire, se si deve vedere Dio.

In secondo luogo: non è simile a niente. Un Maestro (Maimonide) dice: Dio è un’essenza simile a niente, e che non può assomigliare a niente. San Giovanni dice: «Noi saremo chiamati figli di Dio». Ma se dobbiamo essere figli di Dio, dobbiamo essere simili a lui. Come dunque può dire il maestro: Dio è un’essenza simile a niente?
Lo dovete comprendere così: in quanto questa potenza è simile a niente, in tanto proprio è simile a Dio. Essa è simile a niente, proprio come Dio è simile a niente.

Sapete, tutte le creature per natura stanno in caccia ed operano al fine di diventare simili a Dio. Il cielo mai ruoterebbe, se non andasse in cerca di Dio o di una somiglianza a lui. Se Dio non fosse in tutte le cose, la natura non opererebbe né desidererebbe niente in nessuna cosa, giacché, che tu ne abbia gioia o dolore, che tu lo sappia o no, la natura Delaunay-creativitàcerca e tende a Dio nel segreto, nella parte più intima.
Per quanto assetato possa essere un uomo, egli rifiuterebbe la bevanda che gli venisse offerta, se non vi fosse in essa qualcosa di Dio. La natura non desidererebbe né cibo né bevanda, né vesti né alloggio, né alcuna altra cosa, se non vi fosse niente di Dio; essa sempre cerca nel segreto e sta in caccia per trovare Dio in tutte le cose.

In terzo luogo: è pura e senza commistione. La natura di Dio è tale che non può soffrire molteplicità o commistione di alcun genere. Così anche questa potenza non ha molteplicità o commistione di sorta; niente di estraneo è in essa, e non può introdurvisi. Se io dicessi di un bell’uomo che è pallido e nero, gli farei torto. L’anima deve essere completamente senza molteplicità. Se qualcuno attaccasse qualcosa al mio cappuccio o vi ponesse qualcosa, chi lo tirasse, tirerebbe insieme quel che vi è attaccato. Quando io me ne vado di qui, tutto quel che è su di me se ne va con me. Se si trascina via ciò su cui un uomo ha costruito, si porta via anche lui. Ma se un uomo fosse fondato sul nulla e non aderisse a nulla, rimarrebbe completamente immobile anche se il cielo e la terra fossero capovolti, perché non sarebbe attaccato a niente, e niente a lui.

In quarto luogo: è sempre interiormente in ricerca e operante. Dio è una tale essenza che sempre abita nel più profondo. Perciò l’intelletto ricerca sempre nell’interno. Al contrario, la volontà va verso l’esterno, verso quel che ama. Se, ad esempio, venisse da me un amico, il mio volere con il suo amore si effonderebbe verso di lui, e troverebbe in ciò la sua soddisfazione. Dice san Paolo: «Conosceremo Dio come siamo conosciuti da lui» (1 Corinzi, 13: 12). San Giovanni dice: «Conosceremo Dio come egli è» (1 Giovanni, 3: 2). Se devo essere colorato, devo avere in me quel che appartiene al colore. Non sarò mai colorato, se non ho in me l’essenza del colore. Mai posso vedere Dio, se non là dove egli stesso si vede. Perciò un santo dice: «Dio abita in una luce inaccessibile» (1 Timoteo, 6: 16). Nessuno si scoraggi per questo: ci si trova sulla strada o nell’entrata, e questo è bene; ma la verità è lontana, perché questo non è Dio.

In quinto luogo: è un’immagine. Ebbene, fate attenzione e ricordate bene, perché tutta la predica sta in questo. L’immagine e l’immagine originaria sono così completamente uno donna-divisionismoed unite l’una all’altra, che non vi si può riconoscere alcuna distinzione. Si può ben pensare il fuoco senza calore e il calore senza fuoco; si può anche pensare il sole senza la luce e la luce senza il sole, ma non si può riconoscere alcuna distinzione tra immagine e immagine originaria.

Dico ancora di più: Dio, con la sua onnipotenza, non può riconoscere in ciò alcuna distinzione, perché insieme vengono generate ed insieme muoiono. Se mio padre muore, non muoio perciò io. Quando muore, non si può più dire «è suo figlio», ma piuttosto si dice «era suo figlio». Se si fa bianco il muro, in quanto è bianco è uguale ad ogni bianchezza. Se si fa nero, allora è morto a ogni bianchezza. Vedete, lo stesso è qui. Se sparisse l’immagine formata secondo Dio, se ne andrebbe anche l’immagine di Dio.

Voglio dirvi una parola – anche se diventano due o tre. Ascoltatemi bene! L’intelletto volge il suo sguardo all’interno e penetra tutti gli angoli della divinità, e coglie il Figlio nel cuore del Padre e nel fondo, e lo pone nel suo proprio fondo. L’intelletto si spinge avanti: non gli bastano la bontà, né la saggezza, né la verità, né Dio stesso.
Sì, in piena verità: Dio non gli basta più di una pietra o un albero. Mai egli ha tregua: penetra nel fondo, dove erompono la bontà e la verità, e coglie l’essenza divina in principio, al principio, dove la bontà e la verità sono uscite, prima ancora di prendere alcun nome, prima che erompa, la coglie in un fondo molto più nobile della bontà e della saggezza. Alla sua sorella, la volontà, Dio invece basta in quanto è buono. L’intelletto divide tutto questo, va oltre, e penetra nelle radici da cui sgorga il Figlio e si effonde lo Spirito santo.

Che il Padre, il Figlio e lo Spirito santo ci aiutino a capire questo e ad essere beati in eterno.
Amen.

(Mastro Eckhart, Sermoni tedeschi)

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Se vuoi andare a capo del tuo essere, abbandona il piacere – dice Boezio.
Dice: abbandona il punto di vista del «piacere», non fidarti di quello che vedi quando guardi il mondo con gli occhi del «desiderio», perché così non puoi contemplare altro che quello che il tuo «volere» vuole vedere. Così non puoi che piegare il tuo «conoscere» all’orizzonte del tuo «volere».
Che peccato! (postilla Kierkegaard). È un vero peccato che tu ti riduca in schiavitù degli «oggetti» della tua libido.
Se vuoi davvero conoscerti, va’ al di là del principio di piacere – a Boezio fa eco, secoli dopo, Freud senza aver letto, suppongo, il suo De consolatione.

Non sarà, per caso, mi domando, anche questa una ripetizione [del problema «piacere», «desiderio», «volere», o comunque lo si voglia chiamare] – una ripetizione, come al solito mascherata e spostata da un «contesto» all’altro, e tuttavia sempre della stessa questione – sempre, cioè, a vertere intorno alla genesi del primo «oggetto virtuale» che sorge nella nostra mente, della prima «immagine» per stare ai termini di Mastro Eckhart?
Se vuoi farti un’idea di che cosa si tratta – abbandona il piacere, va’ al di là del principio di piacere! E troverai la tua «consolazione filosofica», dice Boezio. E forse capirai, sostiene dal canto suo Freud, perché in sogno non ti basta «soddisfare» un certo desiderio, ma Dottori-forze-ascensionalipratichi la sua «allucinazione», per andare (come tutte le creature, dice Mastro Eckhart) «in cerca di Dio», a caccia dell’«oggetto virtuale» che trascende e insieme fonda il tuo desiderio.

Boezio e Freud, l’uno all’insaputa dell’altro, ciascuno dei due nel gergo e nel contesto suo proprio, ci danno la stessa indicazione: andare oltre, a fare oltraggio al «piacere», a cercare di scoprire nella libido l’originaria dimensione d’Oltre [oltre le ciliegie, ricordi?], l’originaria «volontà» di trascendere l’«oggetto» reale della mancanza, per mettersi «in cerca di Dio», di Colui mancando il quale verrebbe a mancare ogni realtà.
Sicché, il problema una volta enunciato in formula mistica, ricompare secoli dopo travestito di psicologia. Dai conventi e dagli eremi di certi trappisti, si è trasferito nelle meditazioni dell’Analista.

Dall’ultimo di Paradiso torna l’eco della Domanda [inconscia]: cos’è questa smania d’Oltre, d’Aldilà, che ci prende fin da bambini? Se è la libido, come ama chiamarla l’Analista, che nei sogni ci spinge all’avventura al di là degli oggetti reali, non sarà per caso la sua, nient’altro che una riscrittura moderna di quella stessa «trascendenza» a cui si appella qui Mastro Eckhart? Non sarà la sua, quella che poi di fatto è nella coscienza dello stesso Freud, una «meta-psicologia»?

Abbandonare dunque il «piacere» come principio, per ricostruire – dice Deleuze – il processo che ci porta a fare del «piacere», o comunque a vedere in esso, il Principio. Andare al di là di ogni «mediazione», anche di quel «poco» che è un piacere «mediare», anche di quell’unghia di terra, anche di quell’ultimo lembo che ci tiene attaccati al «qui e ora»: questa è la strada tracciata da Mastro Eckhart. La strada, a suo dire, l’abbiamo imboccata la prima volta che abbiamo «gustato» Dio [là dove in apparenza non pativamo che un manco di ciliegie]. Abbiamo saggiato, quella volta, in una volta tutte assieme quelle che lui chiama le «cinque proprietà» del nostro intelletto.

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In una volta, tutte assieme: la libertà dal tempo e dallo spazio [in cui ci sono venute a mancare le ciliegie «reali»], l’irriducibile differenza e la purezza incontaminata del nostro intelligere iniziale. E insieme a queste: la capacità di fare, oltre che di interpretare, il mondo. Oltre, cioè, alle virtù patetiche (oltre alla capacità di «sintesi passive»), anche la virtù creativa (la capacità di «sintesi attive»).
Tutto questo, l’abbiamo saggiato grazie alla quinta «proprietà» della potenza del nostro intelletto che è quella di essere immagine di Dio. Di essere, nel suo fondo senza fondo, nell’abisso sconosciuto della sua origine, una monade dell’Immaginazione Creatrice di Dio. Se immagina, se questa potenza parla naturalmente il linguaggio immaginale, è perché essa è alla radice immagine del suo Creatore. Alla radice – là dove essa è «immagine senza immagine», Forma Vuota dell’attitudine umana a sorgere al mondo immaginandolo.

Là dove «è» immagine di Dio, la monade del nostro intelletto non «ha» ancora nessuna immagine, non è «attaccata» né alle ciliegie né ai fichi d’India, a nessuna cioè delle immagini «reali» del suo «volere». Là essa vuole soltanto «essere»: essere unicamente la propria «differenza», ovvero non essere simile a niente e a nessuno, e in questo solo essere simile al suo Creatore: nell’essere, alla radice, «differente». Essere un’altra spazio-tempo-futuristaimmagine della Differenza «divina». Un altro sguardo della sua Immaginazione Creatrice.

Ma cos’è, in parole a noi più vicine, questa «immagine senza immagine», questa immagine indistinguibile dall’immagine originaria, questa placenta immaginale che la potenza del nostro intelletto «condivide» con la sua Matrice «divina»? se è «vuota d’immagini», in che senso la si può chiamare «forma»? si può «formalizzare» il Niente?

La radice, il «fondo più nobile» [e a nessuno noto] del nostro linguaggio immaginale non è nessuna immagine. Ogni immagine a venire è Figlia, e poi nipote e pronipote, della Perla Oscura che è la sua Matrice. Se vuole sapere di se stesso, dice Mastro Eckhart, il Figlio deve cogliersi nell’Intelligenza del Padre, assolvere cioè la propria immaginazione dai suoi «oggetti virtuali» per mettere a nudo la «virtù» che li produce e mette al mondo. Insomma, quella che – sembrerà pure blasfemo, ma bisogna che qualcuno lo dica: quella che il dottor Freud rincorreva «al di là del principio di piacere», e che, forse un po’ cocciutamente, a costo di farsi molti nemici, e sicuramente di essere dai più frainteso, volle chiamare «libido».

Così facendo, Freud non fa che mascherare di nuove tinte psicoanalitiche la vecchia maschera religiosa del problema: virtù, libidine, trascendenza, oltraggio… al di là delle ciliegie, al di là del bisogno, al di là della fame, al di là del questo e del quello, il sentiero conduce sempre altrove.
Conduce là dove l’«immagine senza immagine» è Parola – è «facoltà di parola», di fare segni e di significare, di cogliere e nominare le differenze, di differenziare le proprie immaginazioni, di colorarle avendo già contemplato altrove i colori, quando ancora non erano che differenze indeterminate, allorché non erano che idee e contemplazioni vuote – triangoli senza triangoli, forme trascendentali capaci da sé da generarne il miraggio.