Viveva una volta una ragazza chiamata «Seta di Mais» (conserviamo la parola «seta» che in inglese indica i filamenti che ricoprono la pannocchia). Essa si era messa in testa di sposare il Sole, e chiese a una santa donna come arrivare fino a lui. Questa le consigliò di fare il viaggio in varie tappe, trascorrendo ogni notte presso i topi.
La prima sera, la ragazza chiese ospitalità ai «topi delle capanne» che le dettero per cena fagioli di terra appena raccolti. Essa offrì loro in cambio del grasso di bisonte perché si ungessero le mani irritate da quel lavoro faticoso e inoltre delle perle di pietra azzurra.
La seconda sera, la stessa scena si ripeté presso i topi dal petto bianco, e la terza presso i topi dal lungo naso. Ai topi con la borsa, che l’accolsero la quarta notte, essa in cambio dei soliti fagioli offrì grasso di bisonte e polpette di mais, di cui aveva una provvista.
La sera del giorno seguente, «Seta di Mais» giunse alla capanna della stirpe celeste. Colpita dalla sua bellezza, la «Vecchia di lassù» la fece entrare. I suoi figli, Sole e Luna, occupavano ciascuno l’angolo opposto della capanna, e la loro vecchia madre fece sedere la ragazza dalla parte di Luna. Quando più tardi dal mondo terrestre venne su anche una donna cheyenne, la vecchia la mandò a sedere dalla parte dove Sole aveva l’abitudine di dormire.
Sole capì che la madre lo danneggiava a profitto del fratello e se ne lamentò, ma quella rispose che Luna riceveva poche richieste di matrimonio.
Quando venne l’ora del desinare, la vecchia servì a Sole, che era cannibale, un bollito di mani, orecchie e pelle umana. Egli mangiò di buon appetito insieme alla moglie cheyenne.
Ciascuna delle due mogli diede alla luce un figlio. Dato che Sole voleva che il nipote diventasse cannibale, Luna prolungò la notte per dare la possibilità a «Seta di Mais» di fuggire col bambino.
Quest’ultimo crebbe nel villaggio materno, al quale i dieci fratelli della moglie cheyenne dichiararono guerra. Mutato in uccello-tuono, Luna combatté insieme alla famiglia della propria moglie, uccidendo i dieci fratelli; suo figlio uccise e decapitò il cugino, figlio del Sole, ne bruciò il corpo su un rogo e offrì la testa allo Spirito delle acque. Poi diventò capo dei guerrieri fra i Mandan.
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Chi è «Seta di Mais»? Senz’altro un modesto doppione dell’eroina del mito eziologico, «Stelo di Mais», che del resto nell’omologo mito degli Hidatsa si chiama «Seta di Mais».
Sembra che numerosi miti chiamino «Seta di Mais» qualsiasi personaggio, purché di sesso femminile; è possibile anche che due distinte eroine portino entrambe questo nome nel corso dello stesso mito. E quando questo accade, ciò si deve al fatto che le loro avventure presentano tratti comuni: la sinonimia delle une spiega l’omonimia delle altre.
Progenitrice di un popolo, o umile bellezza di villaggio, «Seta di Mais» manifesta sempre un atteggiamento ambiguo nei confronti del matrimonio.
Nella prima funzione, l’eroina mette alla porta il Sole che voleva imparentarsi con gli uomini sposandola; e così diventa responsabile della sua ostilità. Nell’altra funzione, respinge tutti i pretendenti del luogo; quando i fratelli o la madre glielo rimproverano, lei sbatte la porta e se ne va in capo al mondo per sposare un orco.
Riesca o meno nella sua impresa, le conseguenze sono ugualmente disastrose; essa porta nel villaggio la guerra, l’incesto, la discordia e la gelosia coniugale, oppure vi porta un’orchessa omicida, nascosta sotto le apparenze di una graziosa fanciulla, che personifica i rigori dell’inverno e la carestia.
Semplificando molto, si potrebbe dire che, quando il sole vuole importare se stesso come sposo, l’eroina lo esporta sotto forma di orco; ma quando essa esporta se stessa come sposa, importa orchi reali o metaforici.
È vero che l’eroina procaccia anche il mais che, durante la sua assenza, aveva cessato di crescere. Ma sia che fondino i riti agrari o quelli della caccia, i miti che hanno «Seta di Mais» come eroina giocano su una duplice opposizione.
In quanto produzione stagionale, il mais è ora vicino, ora lontano. Ed esso rappresenta anche una delle tante produzioni stagionali, fra le quali figura al primo posto la selvaggina, che costringe gli uomini ad abbandonare il mais per inseguirla d’estate o per attirarla d’inverno in fondo alle vallate.
Un genere di vita puramente agricolo terrebbe la popolazione sempre nel villaggio, e avrebbe dunque un aspetto incestuoso. Ma l’abbandono del villaggio, che è implicito nella caccia nomade e nella guerra in terre lontane, porta con sé tutti i pericoli delle avventure esogamiche. È significativo che queste ultime si svolgano nel paese della sposa-bisonte, i cui parenti ostili tramano per sopprimere il genero.
Come avviene negli altri miti sulle spose degli astri, le versioni mandan pongono dunque il problema dell’arbitrato fra il vicino e il lontano. […]
«Seta di Mais» vuol farsi sposare da personaggi lontani e soprannaturali che si rivelano cacciatori o cannibali, se non entrambe le cose insieme. Oppure cerca di sedurre il proprio figlio, e quindi di imporgli un’unione ravvicinata: in questo caso agisce essa stessa in qualità di personaggio soprannaturale, come signora del mais.
Questo figlio del signore della caccia (e solo di questa) sfugge all’incesto con la madre, che è anche la madre del mais (e solo di questo), sposando due donne rispettivamente associate al mais e al bisonte. E così per la prima volta si instaura un equilibrio fra l’agricoltura e la caccia, ma esso rimane precario in quanto le due donne non si somigliano: una è tollerante, l’altra è gelosa. Affinché regni l’armonia, sarà necessario che la sposa vegetale [la sposa Mais] si sacrifichi pur continuando a vegliare da lontano sull’eroe, e che quest’ultimo trionfi dei pericoli in cui l’ha gettato la sposa animale [la sposa Bisonte]. Consacrato cacciatore e guerriero, solo a questo prezzo gli verrà restituito il mais.
Il pensiero mandan non cerca dunque di definire i termini intermedi fra l’agricoltura, la guerra e la pace. Viceversa, esso si sforza di dimostrare che le forme estreme sono inconciliabili e che bisogna prendere atto della loro contraddizione. Da ciò derivano senza dubbio il tono tragico e la fosca grandezza dei miti, come pure i supplizi, più feroci che altrove (così sembra), che i penitenti si infliggevano nel corso delle cerimonie: cerimonie il cui simbolismo, più ricco anche per questa ragione, non riesce a limitarsi a un unico piano. Anche la differenza di tono fra le due versioni principali del mito sulle spose degli astri sarebbe incomprensibile, se non si facesse attenzione che una rimanda ai riti del Mais, e l’altra a quella della «Stirpe di lassù».
Durante la sua marcia verso la dimora del sole, «Seta di Mais» sosta presso quattro specie di roditori. L’inglese mice, usato dall’informatore, indica probabilmente famiglie e generi assai diversi che non cercheremo di identificare con sicurezza. Basterà notare che i «topi delle capanne» che l’eroina visita per primi, suggeriscono, proprio per questo appellativo, un rapporto di contiguità e di familiarità con gli esseri umani, mentre il quarto gruppo, quello dei «topi con la borsa», si distacca forse dagli altri dal punto di vista tassonomico e non sembra essere molto amico degli Indiani: i «topi con la borsa» hanno fama di saccheggiare i campi e gli orti. I Siouan delle Pianure li temono per un’altra ragione: credono che questi animali tirino frecce d’erba che provocano ulcerazioni al viso, certo a immagine delle borse facciali di cui sono provvisti e in cui ammucchiano il cibo.
Ammetteremo dunque che l’eroina ottiene, nell’ordine, l’aiuto di animali sempre meno familiari e sempre più ostili: una progressione che la condurrà al sole, il quale non si contenta di saccheggiare gli orti come i «topi con la borsa», ma addirittura li distrugge.
Il sole, per giunta, è anche cannibale, e in ciò differisce dunque dai «topi con la borsa», ai quali l’invitata destina la sua provvista di polpette di mais, unico termine agricolo di una triade in cui altri termini sono il grasso di bisonte (prodotto dalla caccia) e le perle di pietra, che appartengono all’abbigliamento e non all’alimentazione.
Tre termini fortemente marcati: semi coltivati, oggetti manufatti, prodotti della caccia, evocano per contro tipi di attività che non sono praticate dai roditori. Questi offrono alla loro invitata umana fagioli di terra, pianta rampicante che ha rami, fiori e frutti di due specie. I semi aerei, troppo piccoli, non val la pena di coglierli, ma gli Indiani apprezzavano molto i grossi semi che crescono sotto terra. Poiché la raccolta era faticosa, le donne alle quali era riservato questo lavoro preferivano saccheggiare i nidi di certi topi dei campi, che accumulano enormi riserve di semi. Le Indiane Dakota, vicine ai Mandan, affermavano però che esse lasciavano ai topi sempre un po’ di cibo in cambio: ossia un’uguale quantità di chicchi di mais o qualche atro prodotto che i topi mangiano volentieri: «Esse dicevano che rubare agli animali costituiva una cattiva azione, ma che un equo scambio non è un furto» (Gilmore).
Come si vede, il racconto mitico si ispira a un caso reale e, di rimando, lo giustifica. Infatti, quest’uso ha un significato assai profondo, trattandosi di un tipo di attività economica a metà strada tra l’agricoltura e la caccia, poiché i fagioli di terra, prodotto vegetale, provengono dagli animali. Ed è un tema frequente dei miti quello secondo cui il topo rappresenta l’ultima selvaggina della quale ci si nutre prima della completa carestia.
Ora, il mito evoca questa attività intermedia in occasione di un viaggio che avvicina una donna e un uomo, l’agricoltura e il cannibalismo: cioè i poli estremi di una serie in cui soltanto la caccia può rivestire la funzione di termine medio.
Abbiamo detto che tra l’agricoltura e il suo limite sociologico, ossia l’incesto, da una parte, la caccia e il suo limite sociologico, ossia la guerra, dall’altra, i Mandan non concepivano un giusto mezzo. Non si vede infatti come l’intera tribù avrebbe potuto sopravvivere grazie alla sola attività dei roditori. Ma per quanto irrisoria potesse essere questa ipotesi, il mito doveva egualmente richiamarla. Pur non presentando una soluzione pratica, tale ipotesi permette di cogliere sul piano speculativo la norma dello scambio: atto mediatore che mantiene gli estremi in equilibrio, in mancanza di uno stato semplice che possa sostituirli. Il fatto che lo scambio appaia nel mito in una forma così discreta che rischia di passare inosservata e che si verifichi con personaggi infinitamente modesti quali sono i più piccoli fra i roditori, non deve nascondere l’importanza del tema.
Procedendo a una sostituzione di spose, la madre degli astri fa il contrario di una scelta sbagliata: infatti la donna cheyenne, proveniente da un popolo nemico, è adatta al Sole cannibale; e «Seta di Mais», l’eroina nazionale, è adatta a Luna nella sua duplice qualità di protettore dell’agricoltura e dei Mandan. Senza questo accorgimento, «Seta di Mais» non avrebbe potuto sfuggire al Sole, poiché essa ha bisogno dell’aiuto di Luna per riuscire a compiere un’evasione che in tutte le altre versioni fallisce.
Ma non è questa la sola divergenza fra i miti che narrano di lei.
Secondo una versione, Luna sposa una ragazza mandan dai denti aguzzi «che mangia come un lupo», e Sole sposa un rospo femmina privo di denti; secondo l’altra [la nostra], Luna sposa «Seta di Mais», ragazza mandan, e Sole sposa una ragazza cheyenne, cannibale.
Se ammettiamo che le ragazze dei due racconti sono commutabili, ne consegue che i tipi di spose si riducono a due quando si sommano le versioni: la moglie terrestre (femmina umana) e la moglie acquatica (rana); oppure i due tipi di moglie terrestre (ragazza mandan e ragazza cheyenne). Una conferma ci viene dal rituale.
Dopo la sconfitta del Folle che si verifica il terzo o quarto giorno dell’/okipa/, questo personaggio malefico, fino a poco prima scapolo incallito, si trasforma in un pagliaccio libidinoso. Egli imita i bisonti in fregola e finge di attaccare le giovani. A varie riprese, recita una scena grottesca con due danzatori travestiti da donna, una saggia e l’altra folle.
Dapprima fa la corte a quella saggia offrendole la sua collana di paglia, ma quella lo respinge. Si rivolge allora alla seconda, che accoglie le sue profferte con entusiasmo. Questi due personaggi incarnano «Seta di Mais» e la ragazza cheyenne. Poiché quest’ultima viene ridicolizzata, è lecito supporre che, da questo punto di vista, la ragazza cheyenne priva di denti è incapace di far rumore mangiando.
A questo punto è come se si avesse:
a) (silenzio : rumore) : : (femmina priva di denti : femmina provvista di denti) : : (femmina non cannibale : femmina cannibale)
e come se, per conseguenza, fosse la moglie mandan, e non la moglie cheyenne, a trasformare la rana.
Ma la contraddizione scompare se si osserva che l’eroina mandan assomma nella sua persona due termini della serie precedente: è provvista di denti, e [tuttavia] non è cannibale.
Riscriveremo dunque la formula nel seguente modo:
b) [silenzio : rumore] : : [rana (priva di denti) : ragazza mandan (provvista di denti + non cannibale] : : [ragazza mandan : ragazza cheyenne],
il che equivale a dire dal punto di vista della voracità:
c) moglie cheyenne > moglie mandan > moglie-rana.
In effetti, la moglie cheyenne, cannibale, è più vorace della moglie mandan, non cannibale, la quale, coi suoi denti di lupo, è più vorace della rana senza denti.
Rispetto alla sposa straniera e alla sposa animale, la sposa appartenente alla propria gente occupa dunque una posizione ambigua [è «dentata» come la straniera cheyenne, e insieme è «non cannibale» come la rana].
Ora, si ricorderà che il mito fondatore dei riti del mais metteva in posizione diametralmente opposta gli antenati ctoni, usciti dalle profondità della terra ove si nutrivano di mais, e il popolo celeste, che non solo è carnivoro, ma cannibale.
Fra questi termini estremi, l’acqua riveste la funzione di termine mediatore, e l’acqua è l’elemento connotato dalla rana. […]
Il termine mediatore, non essendo né superiore né equivalente ai termini polari [che media, il cielo e la terra], ma partecipando della natura di entrambi, si rivela superiore al fuoco celeste e distruttore, del quale allontana la minaccia, e inferiore alla solida terra (come dimostra la vittoria della donna sulla rana), benché resti vero che, in assoluto, il cielo ha il sopravvento sulla terra: la «Stirpe di lassù» perseguita senza posa gli esseri umani.
A loro modo i miti riconoscono l’equivoco: infatti il Sole si inganna nel preferire la rana per il fatto che essa lo può guardare in faccia; oggettivamente, è la rana che l’ha ingannato, manifestando così la potenza dell’acqua nei confronti del cielo stesso.
Ma, se da questo punto di vista, la creatura terrestre è inferiore a quella acquatica, da un altro punto di vista essa può misurarsi meglio col cielo. Grazie ai suoi denti da lupo e alla sua masticazione rumorosa, in lei le divinità celesti e cannibali trovano una persona a cui parlare.
(Lévi-Strauss, Le origini delle buone maniere a tavola)
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Le potenze celesti trovano nella Donna Umana finalmente un essere a cui rivolgere la parola – trovano una bocca che «fa rumore» quando mangia, e ne deducono: questa è quella che stavamo cercando, questa bocca è talmente affamata che è disposta a «tradire» il silenzio, questa bocca pur di mettere a tacere il bisogno e la mancanza «di ciliegie» non ha paura di affogare nelle parole che consumerà, è una bocca ignara di condannarsi, parlandole, a una «vita breve». A una vita da vivere nel Conflitto irriducibile… tra il Mais e il Bisonte, tra la morbida peluria della Spiga, e la ruvida scabrosa furia del Bestione. Tra l’Amore e la Guerra.
La Donna, in quanto essere che s’intrattiene a «parlare» con la «Stirpe di lassù», sia essa nella funzione di progenitrice (vedi la nostra Eva) o nei panni dell’umile Rosaspina che finisce per pungersi se solo si avventura al di là dei divieti e i tabù della Casa, in ogni caso, deduce Lévi-Strauss, «porta nel villaggio la guerra, l’incesto, la discordia e la gelosia coniugale». Porta tra la Gente il «conflitto», l’«opposizione», la «contraddizione»… – quella che, a quanto pare, i Mandan si sarebbero rassegnati a non poter in nessun modo più «mediare».
Due più due fa quattro. Il Conflitto, dice il Racconto, entra nel mondo dalla porta dell’immaginazione umana. Il Conflitto non è innato nell’uomo – questo sta dicendo il Racconto. Sta dicendo che in mezzo a noi uomini il Conflitto entra solo a partire dal momento in cui la Donna lo importa dalla Parola delle potenze celesti con cui si è intrattenuta (fino addirittura a sposarne una).
Sarà bene ripeterlo (tanto lo so, ciascuno avrà le sue mille buone ragioni per non comprenderlo): il Conflitto è loro, la disputa è degli astri. Sono le stelle che litigano tra loro… non io e te, chiunque tu sia. Il «peccato» di Eva è che il suo desiderio l’ha immischiata in una faccenda più grande di lei – una faccenda tra le potenze celesti della cui Langue lei può a stento comprendere solo ciò che vuole comprendere. È questo suo ardente volere, questo suo incontentabile desiderare che la spinge al di là delle «mele».
Nel Conflitto noi uomini ci caschiamo in quanto esseri parlanti la loro Langue, la Parola delle Stelle, delle Potenze Celesti, o degli Dèi – a seconda del clima del Racconto.
Guarda Goethe: il Prologo del nostro Conflitto, dice, è una certa questione tra Dio e Mefistofele. Loro si appiccicano, e noi ne paghiamo le conseguenze. Le paghiamo, perché accecati dal miraggio di Elena la Bella quale incarnazione suprema del Verbo con cui s’intrattiene fino a farsi plagiare il nostro desiderio, accecati a tal punto da non vedere che è tutta la Tribù degli Achei a muovere guerra nel nome di Elena la Bella – da non vedere d’essere intrappolati in un Miraggio Universale.
Due più due fa ancora quattro. Freud ha ragione a dire che la nostra vita psichica sorge dal Conflitto. Ma da qui a dedurre che il Conflitto è la materia prima del nostro essere, da qui a esportare il Conflitto anche nell’aldilà del piacere, s’imbocca una via in cui più non ci si raccapezza. Ed eccolo a litigare con Jung. La disputa non è tra loro… è nelle parole che si scambiano, la trappola è lì, e invece proprio loro, i Maestri, non la vedono e ci cascano. È ancora la stessa trappola, quella in cui caschiamo tutti: la Langue che il desiderio ha preso a parlare, prima ancora di comprenderla.
Io e tu, tu e io – mi sai dire dov’è il conflitto, finché ci desideriamo in silenzio?
Finché ciascuno nei suoi sogni sogna l’altro, e finché lo sogna in un sogno senza parole [com’è il sogno infantile non ancora elaborato] – mi sai dire dov’è l’appiccico che non sia di pura libido afrodisiaca?
Il diavolo non ci ha ancora messo la coda nel mio e nel tuo desiderio – finché questo è allo stato [infantile] di immaginazione muta. Fino ad allora il desiderio non incontra opposizioni, non s’imbatte in un divieto, ignora il rifiuto e la negazione, è al riparo dal dover scegliere, dal dover fare aut-aut tra il Mais e il Bisonte, tra l’Amicizia e la Guerra. Questo non è che l’orizzonte del nostro mondo psichico: è solo di qua dalla soglia delle Simplegadi che al desiderio è imposto lo sguardo del Conflitto, solo dal momento in cui il suo miraggio è «catturato» dal Miraggio della sua Tribù. Il conflitto è nella Langue della Tribù – non mi stancherò mai di ripeterlo.
Là sono mais e bisonti, qua saranno guelfi e ghibellini – in ogni caso il conflitto è nel Racconto, il conflitto è della Macchina Simbolica della Tribù. Perfino Empedocle prende un abbaglio «psichico» quando pensa che a far girare il mondo siano Amore e Discordia.
Il mondo «creato» dal Racconto, il mondo dell’esserci, il Reame dell’Es, oh – certo, questo sì che nasce cresce e si pasce del Conflitto. Ma fino a quando non cade nella Langue della sua Tribù, nessun essere – dico, nessuno di quegli esseri che possono diventare umani, e come tale avventurarsi nel Reame Afrodisiaco – nessuno incontra ancora il Conflitto.
Incontra la Differenza, questo sì. E là dove a ciò che incontra «sottrae» una qualunque differenza, non è che un pezzo di mondo tutto ciò che preleva – mai l’Intero. Le forze che agiscono e fanno girare questo mondo precoce (non ancora «psichico», e dunque puramente e semplicemente «spiritoso», proprio perché tutto di sola e pura libido, tutto e solo una pazziella spirituale, una pagliacciata del Folle che si finge «furioso» come fosse lui Orlando, il paladino impazzito della sua Gente).
Perciò, correggi quel verso, Empedocle! – le forze che agitano le profondità mute della nostra immaginazione, sono Amore e Dominazione. Sono Eros e Afrodite. Sono l’Amante (l’immaginazione attiva) e l’Amata (l’immaginazione passiva). Madre e Figlio differiscono ma senza contraddirsi, – Eros ama, e Afrodite lo domina – sicché l’atto «erotico» è spiritosamente tale, perché gratuito, senza scopo, attuato per niente, come pura riverenza e accondiscendenza all’«oggetto virtuale» che lo domina e lo ispira.
Elementare, Watson! La memoria ama l’«oggetto virtuale» del suo Passato Immemoriale. A spingerla ad «agire» è la potenza innominabile che la domina dal fondo silente del suo pathos, dal sottosuolo muto del suo «linguaggio amoroso».