Nasodicapra fu mandato a chiamare, e arrivò l’indomani. Panurge, al suo arrivo, gli donò un vitello grasso, un mezzo maiale, due botti di vino, un carretto di grano e trenta franchi in moneta spicciola; poi lo condusse davanti a Pantagruele e, in presenza dei gentiluomini di camera, gli fece questo segno: sbadigliò piuttosto a lungo e, sbadigliando, faceva davanti alla bocca col pollice della mano destra, la figura della lettera greca detta Tau, reiterandola frequentemente. Poi levò gli occhi al cielo e li torceva nella testa come una capra che abortisce; e ciò facendo tossiva e sospirava profondamente. Dopodiché, additò la mancanza della sua braghetta, quindi, sotto la camicia, prese a piene mani il suo pistolese, e lo sbatacchiava melodiosamente tra le cosce; indi s’inchinò piegando il ginocchio sinistro, e restò così, con le braccia conserte sul petto.
Nasodicapra lo guardava con curiosità, poi levò la mano sinistra in aria a dita chiuse meno il pollice e l’indice, le unghie dei quali accoppiava mollemente insieme.
«Capisco, – disse Pantagruele, – ciò che vuol dire con questo segno: indica matrimonio, e per di più anche il numero trenta secondo la dottrina dei Pitagorici. Voi vi sposerete».
«Tante grazie, – disse Panurge volgendosi verso Nasodicapra, – tante grazie, mio architriclinio, mio comite, mio aguzzino, mio sbirro, mio bargello».
Poi Nasodicapra levò in aria, più in alto, la detta mano sinistra, stendendone tutte e cinque le dita, e allontanandole l’una dall’altra quanto più poteva.
«Qui, – disse Pantagruele, – più ampiamente ci insinua, per via del significato del numero quinario, che vi sposerete. E sarete, non solo fidanzato, promesso e sposato, ma che coabiterete inoltre e spingerete avanti la festa. Infatti, Pitagora chiamava il numero quinario numero nuziale, cioè: nozze e matrimonio consumato, per la ragione che il cinque risulta composto da tre, che è il primo numero dispari e superfluo, e da due che è il primo numero pari: come da maschio e femmina accoppiati insieme. Difatti a Roma, un tempo, il giorno delle nozze si accendevano cinque fiaccole di cera e non era lecito accenderne di più, fossero pure le nozze più ricche, né di meno, fossero pure le nozze più indigenti. Inoltre, i Pagani in passato imploravano per gli sposi cinque dèi, o meglio un dio per cinque benefizi, cioè: Giove nuziale, Giunone presidentessa della festa, Venere la bella, Peitò la dea della persuasione e del bel parlare, e Diana soccorritrice nei travagli del parto».
«Oh, – esclamò Panurge, – questo bravo Nasodicapra! Gli voglio regalare un podere presso Cinays e un mulino a vento in quel di Mirabello».
Dopodiché, il muto starnutì con insigne veemenza e scotimento di tutto il corpo, volgendosi a sinistra.
«Virtù di un bue di legno! – osservò Pantagruele, – che cosa succede? Questo non è buon segno. Denota che il vostro matrimonio sarà infausto e sfortunato. Questo starnuto (secondo la dottrina di Terpsione) è manifestazione del demone socratico: il quale, fatto a destra, significa che si può con tutta sicurezza e allegramente fare e andare ciò che e dove si è deliberato; gli inizi, progressi e successi, saranno buoni e fortunati. Ma se lo starnuto è a sinistra, sarà tutto il contrario».
«Voi prendete le cose sempre per il loro cattivo verso, – disse Panurge, – e state sempre a turbarle come un novello Davo. In questi starnuti non ci credo per niente, e di cotesto vecchio pelosissimo Terpsione non ho conosciuto mai altro che imposture».
«Tuttavia, – osservò Pantagruele, – anche Cicerone afferma di lui non so più bene cosa, nel secondo libro del De divinatione».
Panurge intanto si volse a Nasodicapra e gli fece questo segno: rovesciate le palpebre degli occhi all’insù, torceva le mandibole da destra a sinistra, e tirò fuori circa mezza lingua dalla bocca. Ciò fatto, aprì la mano sinistra, eccetto il dito medio che tenne eretto perpendicolarmente alla palma, e in questa guisa se la mise sul posto della braghetta; la destra la tenne chiusa a pugno, salvo il pollice che tenne dritto all’indietro, in direzione dell’ascella destra, e se la posò al di sopra delle natiche, nel luogo che gli Arabi chiamano al katim [il sigillo]. Subito dopo cambiò: compose la mano destra com’era la sinistra e la pose al posto della braghetta, e compose la sinistra com’era la destra e se la pose sull’al katim, e reiterò questo cambiamento di mani per nove volte. Alla nona volta, rimise le palpebre degli occhi nella loro posizione naturale, e lo stesso fece delle mandibole e della lingua, poi gettò uno sguardo bieco su Nasodicapra, facendo andare le labbra come fanno le scimmie in riposo o i conigli quando brucano un fascio d’avena.
Allora Nasodicapra sollevò in aria la mano destra tutta aperta, poi introdusse il pollice destro fino alla prima articolazione, fra la terza falange del dito medio e dell’anulare, stringendole forte attorno al pollice, e rinserrando a pugno le altre due falangi e il mignolo. Quindi posò sull’ombelico di Panurge la mano così atteggiata, agitando continuamente il pollice suddetto, e poggiando la detta mano sul mignolo e sull’indice come su due gambette. E cominciò, così zampettando, a salire con quella mano successivamente dal ventre allo stomaco e al petto, fino al collo di Panurge, e poi al mento, e gli mise in bocca il detto pollice agitandolo; poi glielo sfregò sul naso e, salendo più su fino agli occhi, simulava di volerglieli schiacciare col pollice.
Qui Panurge s’arrabbiò, e cercava di sciogliersi e allontanarsi dal muto. Ma Nasodicapra insisteva, toccandogli sempre, con quel pollice agitato, ora gli occhi, ora la fronte e gli orli del berretto.
Alla fine Panurge sbottò gridando: «Perdio, matto che siete, se non mi lasciate vi prendo a pugni! se mi seccate ancora, vi faccio una bella maschera con la mano su quella vostra porca faccia».
«È sordo, – disse allora fra’ Giovanni, – e non può sentire ciò che gli dici, coglione! Fagli segno di una gragnuola di pugni sul muso».
«Che diavolo vuol significare questo matto ciarlatano? – disse Panurge. – Mi ha quasi fatti neri gli occhi. Ah perdio (da jurandi), vi offrirò io un bel piatto di sberle, con contorno di doppi buffetti».
E si liberò di lui, facendogli una pernacchia. Ma il muto, vedendo che Panurge si allontanava, lo rincorse, lo fermò per forza e gli fece questo segno: abbassò il braccio destro verso il ginocchio tanto quanto poté stenderlo, stringendo a pugno le quattro dita e infilando il pollice tra il medio e l’indice; poi, con la sinistra, si sfregava sopra il gomito del detto braccio destro, e a poco a poco così sfregando alzava in aria la mano destra fino al gomito e anche più in su; poi all’improvviso l’abbassava come prima, e continuava a intervalli ad alzarla e ad abbassarla, mostrandola a Panurge.
Panurge, sempre più arrabbiato, alzò il pugno per colpire il muto; ma per riguardo a Pantagruele presente, si trattenne.
E allora Pantagruele disse: «Se v’irritano i segni, oh quanto più v’irriteranno le cose da essi significate! La verità concorda con la verità. Il muto sostiene e dichiara che sarete sposato, becco, bastonato e derubato».
«Al matrimonio consento, – disse Panurge; – ma rifiuto tutto il resto. E vi prego di farmi il favore di credere che nessun uomo al mondo ebbe mai, in fatto di donne e di cavalli, tanta fortuna quanta è a me predestinata».
(Rabelais, Gargantua e Pantagruele, 3: 20)
***
Eravamo a buon punto, se vi ricordate. Avendo consultato la Sibilla, raccolte le foglie sparse della sua sentenza, e provato invano a interpretarne il responso, i nostri «eroi» si decidono a rimettere «l’ultima parola» a chi la parola non ce l’ha, anzi a chi non l’ha mai avuta, essendo muto dalla nascita – insomma, a chi dalla Parola non è mai stato contaminato, e perciò, si presume, essere immune da menzogne e inganni.
Lo vedi, com’è sottile, il nostro poco serio Rabelais? Pazziando e ridendo, predice il sentiero che sarà battuto nei secoli a venire, anticipa la ricerca della linguistica, della psicoanalisi e perfino, era ora!, della filosofia dei giorni nostri.
Tu che dici? saranno finite qui le sorprese?
Esserci, dice il Filosofo, è «soggiornare» nel Paese dei Segni e delle Parole. La chiave del nostro «sistema nervoso», dice dal canto suo l’Analista, è… una parola: magari sarà lunga quanto un intero canto della Commedia o, al contrario, breve quanto è breve la magia di una vaga rima o assonanza, ma in ogni caso è una parola. Significato e significante, s’affretta a dire il Linguista, ecco chi furono i Reali Seduttori dei nostri Antenati: l’uno disceso dal cielo, l’altro emerso dal mondo sotterraneo, vennero a scritturarli per un Dramma Cosmico: perfino gli dèi incapparono in questo grandguignol che è la nostra Langue – l’Oceano che ci avvolge, l’Oceano che nelle sue onde ci coinvolge, l’Oceano che nella sua corrente ci travolge.
Ma se ne esce? ecco il dilemma: si può uscire dall’Oceano? e cosa, chi si diventa una volta (estaticamente) usciti? si esce e si ritorna, o si esce e non si torna più? e se si esce e non se ne ritorna, dov’è che si finisce se non dove Oceano – la Langue – pretende, nel suo puro spirito di Gendarme, che sia il Confino? dove, se non in un manicomio, reale o surreale? dove, se non nel ghetto in cui la Chiacchiera, la Parola di Oceano, include tutti gli «erranti», per escluderli dal suo Senno?
Nervi e parole, essere è non esserci, è non esserci ancora entrati nel Reame degli Inganni e delle (magiche) Menzogne. Andiamo da uno che non parla! – consiglia il savio Pantagruele a Panurge. – E saprai, senza raggiri e infingimenti simbolici, se ti conviene questo sposalizio tra nervi e parole.
La Langue – il Discorso dell’Uomo, lo scorrere in cui e di cui l’Uomo racconta e si racconta – ecco, questa è la Casa in cui Cenerentola farà per sempre la sguattera. Salvo che il Principe di un altro Reame, un estraneo alla sua Casa, non sia capace di prendere le «misure» ai suoi piedi!
E già, i nervi parlano «la lingua dei piedi», scandiscono la metrica e la ritmica degli istinti ctoni, anelano al Significante che emerge dal fondo senza fondo, dalle «bassezze» e dalle oscure profondità dell’immaginazione, e perciò, presto i nervi vagano lungi dal «focolare» domestico, i nervi sconfinano al di là del Paese della Fame e del Bisogno, in cerca del gratuito e dell’inutile… ma le parole, no, le parole parlano «la lingua della testa», e vagheggiano altre avventure, e si appassionano ai «viaggi in piroga», alle lettere, ai numeri e alle arti della civiltà, e aspirano al Significato, al Senso, all’Oriente, al Polo dei desideri.
Dunque, la domanda è: basta regredire all’infralinguaggio immaginale, al linguaggio muto dei nostri primissimi tempi – per affrancarci dagli Inganni e dalle Menzogne? – ammesso e non concesso che realmente sia quello che vogliamo.
«Facciamo l’esperimento – suggerisce Pantagruele. – Andiamo a vedere come la pensa un muto!».
Il risultato, come ben si vede, è un disastro: finisce che a Panurge saltano i nervi, se non si divincola quanto prima dalla stretta «carnale» di Nasodicapra. Non è possibile coniugare la «verità» dei gesti muti con la «verità» dei propri simboli nuziali. Non si può sposare essere a esserci, se non nel proverbiale auspicio che ne trae Pantagruele: sposato sì, ma cornuto e mazziato!
Eravamo a buon punto (nella nostra comprensione del Racconto), quando a un tratto l’intreccio si è complicato. Non immaginavamo di correre un simile rischio: le corna, le mazzate, e che altro… solo perché uno s’innamora?
Panurge non è dei fessi, e perciò vuole premunirsi. Vuole sapere in anticipo quale fine farà il suo desiderio. Vuole guardarsi la salute, e il portafoglio!
Ma, per sapere il futuro – gli fa capire Pantagruele – bisogna avventurarsi a ritroso nel proprio Passato. Ed eccola qui la complicazione: se è vero che l’Oceano non fa altro che «sposare» l’uno all’altro i libidinosi flutti «parlanti» delle sue onde, ovunque tra loro propagando congiunzioni, confluenze, unioni e matrimoni, è anche vero però che, dal momento in cui parliamo, è l’Oceano stesso, la stessa Langue che ha fatto un «salto» irreversibile nel Simbolico, elevando così di una potenza linguistica la sua antica immaginazione muta. O come dicevano i platonici una volta: la sua Immaginazione Assoluta.
La nostra immaginazione, no, non è più «assolta» dalla contaminazione, non più incontaminata dall’esaltazione linguistica delle parole. E dunque, se ha, come Panurge, un rebus da risolvere, non è vagheggiando la perduta purezza linguistica del suo Passato Muto, che ne viene a capo.
Altro che scorciatoie! A Mastro Dante servirono cento canti per giungere oltre la parola. Tanto era la lunga la sua parola che dovette correrla avanti e indietro centomila volte prima d’imboccare alla rovescia il pertugio del suo antico balbettio.
La complicazione introdotta da Rabelais nel suo stesso racconto, l’inceppo sul sentiero aperto da questo matto maestro dei suoi guaritori a venire, è il nodo della questione: da dove il poetico se non dalle più remote nozze dell’Immaginazione? Da dove – se non da quelle prime nozze in cui, invece di saltarci i nervi, saltammo noi con tutto il bagaglio delle nostre immaginazioni a una più elevata e profonda potenza linguistica. Solo gli sciocchi tornano allo stato selvaggio e bestiale. L’uscita, se mai c’è, è dall’altra parte. Non nel futuro, ma nel Passato – là dove il Passato per la prima volta parlò, e così divenne Presente (che bugia! che inganno!) a se stesso. L’esserci divorziò dall’essere, mentre i nervi rimisero il loro destino alle parole.