Ciò che, di un mito cosmogonico, ci colpisce prima di tutto è che esso è continuamente ripetuto: il mito è continuamente recitato, e questo fatto implica che la cosmogonia non cessa di essere ripetuta simbolicamente.
Abbiamo già altrove evidenziato il significato religioso e metafisico della ripetizione dei gesti esemplari, e ciò ci dispensa dall’esporre qui nel dettaglio tutti gli aspetti di questo problema. A prima vista, la ripetizione ci appare come un atteggiamento negativo di fronte all’esistenza. Ripetendo all’infinito gli stessi gesti esemplari, gli stessi scenari mitici, si abolisce ogni spontaneità creatrice e si paralizza ogni iniziativa personale; si finisce per girare in tondo, si vive in un eterno ritorno.
Da un certo punto di vista, si può perfino dire che l’ideale dell’uomo arcaico e, in generale, dell’uomo antecedente alla Legge di Mosè, può essere simbolizzato con un cerchio. Ma questo lo si deve comprendere tenuto conto della concezione del Tempo nelle società pre-giudeo-cristiane: la concezione del Tempo circolare, del Tempo ciclico, insomma dell’Eterno ritorno.
Per noi che siamo nutriti di valori religiosi giudeo-cristiani, tale concezione appare cupa e pessimistica – ma per un «primitivo», e così pure per un Orientale, non ha nulla di terrificante. Per loro, il Tempo circolare è il Tempo cosmico, vale a dire l’Anno. L’Eterno ritorno è l’eterno ritorno del giorno dopo la notte e della primavera dopo l’inverno.
Ciò che un «primitivo» esprime col suo ideale religioso e metafisico della ripetizione, è il desiderio che l’Anno si ripeta indefinitamente, con le sue quattro stagioni, le sue lunazioni e i suoi giorni e le sue notti. Il «primitivo» non è poi così sicuro che questo ciclo perfetto del Tempo circolare ricomincerà sempre con ogni nuovo Anno. Egli ha paura di una disarticolazione apocalittica delle stagioni e di una regressione catastrofica nel Caos primordiale.
In breve, il «primitivo», l’uomo dell’eterno ritorno, desidera, in fondo, di poter ricominciare indefinitamente l’Anno; questo desiderio non ha niente di assurdo.
Noialtri, civilizzati, speriamo nella stessa cosa ma con questa differenza: che, per noi, il Tempo cosmico è un dato certo; noi non dubitiamo più che il mattino seguirà alla notte e che la primavera succederà all’inverno. Anche un ideale fondato sull’eterna ripetizione del Tempo cosmico ci sembra puerile o assurdo – e questo proprio grazie al fatto che la rivelazione giudaica ci ha dato accesso al Tempo storico e che, per noi, Dio si è manifestato nella Storia.
Abbiamo aperto questa parentesi sulla concezione del Tempo presso i «primitivi» per comprendere meglio il significato religioso della ripetizione. Per i «primitivi», ripetere vuol dire non tanto mantenere, quanto far venire all’esistenza. Per quanto paradossale possa sembrare, la ripetizione è, per l’uomo arcaico, creatrice. Con ogni ripetizione di un gesto esemplare, qualche cosa di nuovo viene all’esistenza. Questo risulta chiaramente dall’analisi del meccanismo dei riti: tutte le volte che è reiterato, il rito effettua una nuova creazione.
Grazie al rito, il mito cosmogonico può essere applicato in innumerevoli circostanze e a proposito delle situazioni più svariate. Il principio creatore del mito cosmogonico risiede proprio in questa polivalenza funzionale.
Se un mito diviene, infatti, modello esemplare, ciò significa che esso contiene nel suo modo d’essere un invito ad applicarlo a delle nuove situazioni. Si può perfino andare oltre e dire che l’uomo delle società tradizionali, grazie all’esemplarità del mito, trova il coraggio di affrontare le situazioni nuove e di vincere delle difficoltà inattese. In fondo, il mito cosmogonico gli rivela come si fanno le cose – e questo ha un’importanza straordinaria, della quale è difficile apprezzare la vera portata.
Per diventare homo sapiens, l’uomo ha dovuto cominciare con l’essere un homo faber. Ciò che ci sembra adesso di un’evidente semplicità era, all’inizio, un grande mistero: fare delle cose, creare, era un’attività sovrumana. Soltanto gli Dèi e gli Eroi Civilizzatori erano, col loro modo d’essere, creatori. Gli Dèi e gli Eroi Civilizzatori delle società arcaiche non erano però gelosi delle loro prerogative; al contrario incitavano gli uomini a imitarli, a imitare le loro opere.
Se si studia una qualsivoglia società «primitiva», si constaterà che in essa tutti i comportamenti e i costumi, senza eccezione, erano considerati istituiti dagli Dèi o dagli Antenati mitici. Gli uomini ripetono quindi i gesti degli Esseri divini e semidivini e, facendo questo, divengono, anch’essi, creatori.
Si intuisce come le cose siano successe: di fronte a una situazione nuova e apparentemente senza via d’uscita, l’uomo si è ricordato che conosceva già la soluzione, poiché disponeva della formula creatrice per eccellenza: quella con cui la Potenza divina aveva trasformato il Caos e le Tenebre in un Cosmo di luce.
Orbene, per il «primitivo», ogni situazione disperata e apparentemente senza uscita si presenta come un Caos. Anche noi, moderni, diciamo a proposito di una situazione inestricabile, che siamo nelle tenebre, che non ne vediamo una soluzione. «Vedere» la soluzione, significa ritrovare la luce e, di conseguenza, scoprire una struttura. Per l’uomo arcaico come per il moderno, uscire da un vicolo cieco, risolvere una questione apparentemente insolubile, significa, prima di tutto, riuscire a orientarsi, strutturare l’amorfo, «cosmizzare» il caotico.
(Eliade, Spezzare il tetto della casa)
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… la cosmogonia non cessa, dice Eliade, di essere ripetuta simbolicamente.
Ora, quello che dovremmo provare a comprendere è proprio questo: che se dici ripetizione, dici atto (creativo) simbolico – e, dunque, che non ci sarebbe bisogno di precisare /ripetuta simbolicamente/, se non fosse in giro ahimé diffuso il convincimento che si tratti piuttosto di un atto «psicologico».
Quello che dovremmo qui provare a comprendere è che la Ripetizione è sempre simbolica, e cioè che essa istiga il linguaggio immaginale a scoprire nelle sue stesse corde, quando queste sono particolarmente «eccitate», un’altra «lingua» ancora più intima, più potente, più magica: la Ripetizione ripete la creazione del Primo Simbolo, la Ripetizione «crea» i primi Segni dell’alfabeto, e questi segni saranno a pieno titolo dei Simboli quando giungeranno a essere condivisi da un gruppo, da una Tribù, da un Popolo.
Se la Ripetizione è «creativa» è proprio solo e perché è nel Reame dei Segni che si gioca la sua partita. La Ripetizione gioca a «creare» Segni, dietro cui mascherare la propria insignificanza, e a diffondere Simboli, grazie a cui tenere al riparo in incognito la propria indifferenza a ogni forma, e nelle cui sembianze spostarsi fulmineamente da un «territorio» all’altro della nostra Immaginazione. È la Ripetizione che spinge il nostro primitivo linguaggio immaginale a «confluire» nel linguaggio simbolico. Essa è la Dikê che a fatica governa il Paese dei «si dice» (Parmenide). È Lei l’oscura matrice della Fama, della Chiacchiera, e della Vox Populi.
… tutte le incongruità del pensiero derivano da un’insufficiente riflessione su quelli che sono l’identità o i caratteri dell’identità, quando si tratta di un essere inesistente come la parola, o la persona mitica, o una lettera dell’alfabeto, le quali non sono altro che diverse forme del SEGNO, nel senso filosofico [non convenientemente considerato, è vero, dalla filosofia stessa].
(de Saussure)
La Filosofia ha preso un’altra strada, per millenni ha preso la strada opposta: ha fatto del suo concetto di «identità», di «stesso» o «medesimo», il fondamento della sua «ontologia». In Principio essa ha posto, per millenni, lo Stesso, l’Uno, il Quieto, l’Isotropo, il Continuo: ha immaginato così lo Spazio originario, prima cioè che sulla scena irrompesse l’Altro, il Differente, il Due, l’Inquieto, il Movimento. Ci sarebbe, dunque, in principio una Identità – fino al giorno in cui, per via di una catastrofe in cielo, o per una qualche iradiddio, ecco comparire accanto al «dio» un «diavolo». Che so? un rompiscatole, un guastafeste, uno che non doveva presentarsi e che invece…
Invece, da un po’ di tempo a questa parte, anche tra i filosofi si sta facendo strada l’idea di uno Spazio ontologico originario dove coesistono differenze (simboliche e/o diaboliche) distribuite in modo tale da generare qua e là avvistamenti di «galassie» più o meno illusorie – fino cioè a creare «strutture» in cui articolare in uno stesso intreccio più differenze.
È l’Idea di uno Spazio «parlante» molteplici lingue – non di un «in cui» quale sfondo muto, «oggettivo», e indifferente agli avvenimenti che vi avvengono, ma di uno Spazio che non cessa mai di «dire» ciò che gli succede, e tutte le differenze che, di volta in volta, gli tocca «patire». È l’idea di uno Spazio dello scoprirsi vicendevole delle sue voci, del raggiungersi a distanza delle sue reciproche «informazioni».
Fino a Hegel, a occhio e croce, la Filosofia si è tenuta all’oscuro di una tale percezione dello Spazio. Sempre tenendosi al riparo del Principio di Identità, ha relegato la Differenza (la singolarità, l’eccezionalità) nel Negativo, nel Difettivo, nel Menomato – nel «diabolico», irrazionale, anti-umano – quando invece la Differenza è la «voce viva» dello Spazio, anche ovviamente di quello «abitato» dall’Uomo e dal suo linguaggio.
Il primato dell’identità, comunque la si voglia concepire, definisce il mondo della rappresentazione. Ma il pensiero moderno nasce proprio dal fallimento della rappresentazione, come dalla perdita delle identità, e dalla scoperta di tutte le forze che agiscono sotto la rappresentazione dell’identico.
(Deleuze, Differenza e ripetizione)
Forze – le forze della Ripetizione – che dell’identità si prendono gioco. Ne fanno il loro gioco creativo. E se lo giocano, sulla nostra pelle, ai confini tra la pazzia e la pazziella, tra il Differente da cui si viene, e lo Stesso a cui si va, una volta passata la soglia della Sovrana Dikê – appena entrati attivamente nel Paese Simbolico, nel Mondo della Rappresentazione /ivi compreso il Rito dei popoli primitivi, e tutto il Teatro arcaico/.
Un Teatro, dice Eliade, dove si ripetono gesti esemplari. Dove s’inscena un Racconto «ereditato» dalla Ripetizione degli Antenati. Non solo di gesti, ma anche di parole. Il rito è sempre la rappresentazione di un mito – né più né meno di quanto il mito è sempre la dizione di un rito.
La Ripetizione li lega – associa, intreccia, in un unico abbraccio il mito e il rito, il dire e il mimare, il cantare e il danzare; e perciò è Simbolo, o Diavolo, quel che «stringe» in un unicum, in una illusoria «identità»: il suo minimo numero è la Diade, la coppia di due differenze, di due «atomi» immaginali, di due «oggetti parziali», di due «metà» di quella che poi la rappresentazione spaccerà per un’unica mela, per lo stesso frutto proibito: dacché lo mangia, dacché si nutre del concetto di Stesso, l’Uomo è diventato un animale che parla «simbolico».
Ma che vuol dire parlare «simbolico»?
Vuol dire ripetere la combinazione cosmogonica – ripetere il primo gesto creativo, il primo atto della nostra «umana» intelligenza, allorché scopre il Simbolo.
Lo scopre alla confluenza di due fiumi immaginali, di due serie di connessioni mentali, l’una all’altra estranea, distante e indifferente – quand’ecco, d’un tratto, magicamente, le acque dell’una confluiscono in quelle dell’altra. Sono acque differenti, che però assieme ammiccano a una sola allusione, e confessano d’essere strette in una sola simpatia, e sono pronte a giurare promettere e sperare d’essere inviate nel nome di uno Stesso.
Questo «stesso» non è che una Differenza che si è differenziata in due serie di connessioni immaginali, per poi ripetere se stessa (e la sua propria assenza di identità!) incrociando due tessere di due puzzle differenti e distanti tra loro – come a dire: eccomi, dammi un nome, e io… ci sono!
La Ripetizione è cosmogonica perché ripete la sua differenza a dispetto delle voci del Popolo che si consacrano all’Uno, allo Stesso, al Solo Dio. Ripete ogni volta la sua presenza-assenza, ripetendosi ogni volta mascherata, ogni volta dislocata altrove, e solo alla Parola, solo al Nome lascia una chance unificante della sua «eterna» doppiezza. L’illusione stabilizzante della sua «eterna» fuga nell’insensatezza.
Proprio là, ai confini tra la pazzia e la pazziella /beata la lingua che ripete questa saggia differenza/ proprio là la creazione non cessa un istante di ripetersi, e ripetendosi di differenziarsi all’infinito, articolando vecchie e nuove strutture di coesistenza delle differenze, combinando e scombinando le sue «creature» linguistiche, ad alcune concedendo il talento artistico, ossia la vicinanza più prossima al linguaggio dell’inconscio e della natura, ad altre invece ordinando di sprofondare nella Terra Vergine di segni e di simboli, là dove tutto è linguaggio diabolico di differenze incompatibili e intolleranti tra loro – là dove la Ripetizione non incontra rime, assonanze, simpatie musicali, ritornelli linguistici, e mai ha la fortuna di «trovare» la combinazione che le apra le porte alla Provenza eterna, alla Pazziella, all’Illusione dei Nomi.