I capostipiti dei Mandan uscirono dalle profondità della terra, nel punto in cui essa forma un’altura sulla riva dell’oceano. Erano quattro, e portarono con sé il mais. Il loro capo si chiamava «Mantello ben Imbottito». Egli aveva due fratelli, il maggiore chiamato «Orecchini Fatti d’Involucri di Pannocchie di Mais» e il minore «Testa Calva come un Sonaglio di Zucca». I tre uomini avevano una sorella chiamata «Stelo di Mais Ondeggiante».
Il capo era il sacerdote del mais e ne insegnò la coltivazione e i riti agli altri uomini. Possedeva un mantello che bastava irrorare d’acqua perché cadesse la pioggia. «Mantello ben Imbottito» insegnò agli abitanti della terra a vestirsi, a costruire i villaggi e a coltivare i campi. Fece disporre le capanne in fila come si fa per piantare il mais, divise i campi fra le varie famiglie e nello stesso tempo distribuì i chicchi di mais, i fagioli, i semi di zucca e di girasole.
A quell’epoca, la sorella passava tutto il giorno nei campi a sorvegliare i lavori agricoli. Un giorno, uno straniero volle farle visita, ma lei si rifiutò di riceverlo. Per tre volte egli rinnovò il tentativo con lo stesso risultato. Quell’uomo era il Sole. Quando si ritirò per l’ultima volta, predisse che quello che la ragazza piantava non sarebbe cresciuto.
Il giorno dopo, fin dall’alba il caldo fu così intenso che il mais appassì. Al crepuscolo la ragazza girò per i campi stendendo il mantello e cantando parole sacre. Le piante si rianimarono. Per quattro volte di seguito, il sole bruciò i campi, ma ogni volta la ragazza li riportò in vita grazie al suo mantello e alle sue invocazioni.
***
Non insisteremo qui sulla straordinaria somiglianza che certe versioni presentano rispetto al mito d’origine dei Warrau venezuelani. Si tratta sempre dell’introduzione delle arti del vivere civile, e soprattutto dell’agricoltura o di ciò che la costituisce fra i Warrau, cioè l’estrazione del midollo di palma, che, come il mais dei Mandan, è un alimento sacro.
Gli antenati salgono o discendono, sempre attirati dall’abbondanza che regna nel nuovo mondo che hanno scoperto alcuni di loro mandati in esplorazione. Troppo grossa o troppo pesante, una donna incinta compromette i loro sforzi. Alcuni Indiani arrivano sulla terra promessa, gli altri – fra i quali figurano i maestri stregoni (Warrau) o il signore del mais (Mandan) – rimangono prigionieri, e la loro assenza priva gli uomini di aiuto e di protezione. Poi si svolge un conflitto con gli spiriti delle acque.
I Mandan considerano il sole e i membri della sua famiglia come creature demoniache, incendiarie, cannibali e responsabili di altre calamità. I riti in onore della «Stirpe di lassù» avevano l’unico scopo di placare questi esseri mostruosi: «Era il Sole a seminare la morte durante le spedizioni di guerra; portava i cadaveri in cielo, nella capanna della madre, che glieli preparava per i pasti. Ma egli cercava di non uccidere sia quelli che aveva favorito ispirando loro dei sogni, sia gli uomini preposti agli altari del suo culto, che gli facevano offerte periodiche». Queste consistevano in brandelli di carne e dita tagliate (Bowers). Lo stesso ricercatore dice di aver incontrato gravi difficoltà per conoscere i riti della «Stirpe di lassù», perché essi appartenevano a cerimonie tribali tenute segrete e perché coloro che vi avevano partecipato temevano la morte se le avessero divulgate).
Una grande cerimonia annuale detta /okipa/ o «imitazione» (dei bisonti) aveva la funzione ufficiale di commemorare il diluvio al quale erano scampati gli antenati e di favorire la riproduzione dei bisonti. Tutto il pantheon tribale, il regno animale e perfino gli esseri cosmici comparivano sotto le sembianze di danzatori dipinti con colori sgargianti, in costume oppure mascherati, che facevano varie entrate successive, da soli o in gruppo.
Per i primi due giorni, questi danzatori sfidavano ripetutamente un essere invisibile chiamato Oxinhede, «il folle», che si vedeva finalmente apparire il terzo o il quarto e ultimo giorno.
Indossava soltanto un coprisesso di pelo di bisonte, una calotta dello stesso materiale e una collana di paglia di mais; talvolta era mascherato e aveva tutto il corpo dipinto di nero e ricoperto da cerchietti bianchi che rappresentavano le stelle. Un cerchio rosso sul petto raffigurava il sole, mentre una mezzaluna rossa sulla schiena raffigurava la luna. Una decorazione a denti di sega intorno alle labbra suggeriva l’idea di una bocca larga con le zanne affilate. Completavano la sua acconciatura un sesso posticcio, fatto con un bastone e due piccole zucche, e una lunga canna in fondo alla quale era attaccato un simulacro di testa umana. I bambini lo temevano, perché si diceva che veniva dal sole e che mangiava la gente. Sognare il Folle era presagio di morte vicina.
Respinto dagli altri officianti, questo demonio cercava di turbare la festa; seminava il terrore, prediceva la morte dei partecipanti sotto i colpi del nemico e voleva impedire il ritorno dei bisonti, che doveva essere invece garantito da una buona esecuzione delle danze. Prima di espellerlo gli venivano fatte delle offerte. Appena si accorgeva dei doni, egli si volgeva verso il sole e, a gesti, gli spiegava come fosse trattato bene; rimproverava all’astro di mantenere le distanze e lo invitava a unirsi a lui.
Non c’è il minimo dubbio che questo sabotatore rituale cercasse di avvicinare il sole all’umanità, con tutto il seguito di calamità che questa congiunzione poteva arrecare. Anche in questo caso, dunque, il mantenimento del sole a buona distanza (giacché esso è sorgente di vita se resta sufficientemente lontano) è in rapporto funzionale con la concessione delle piogge benefiche.
Il nostro mito Mandan ci fa sapere che l’appetito «cannibalesco» del sole si estende anche ai prodotti agricoli.
Ora, la cerimonia Sherenté del Grande Digiuno presentava un’evidente connessione con l’agricoltura: «se la siccità si prolungava troppo o diventava troppo intensa, gli Sherenté attribuivano questa minaccia contro i raccolti alla collera del sole» (Nimuendaju).
I Mandan conoscevano almeno due equivalenti del Gran Digiuno, fra i quali il digiuno di quattro giorni, seguito dalle mortificazioni che i guerrieri si infliggevano durante l’/okipa/. Inoltre, i sacerdoti del mais, che rappresentavano una notevole frazione degli uomini adulti (35 persone) si assoggettavano a numerose proibizioni, alcune delle quali di ordine alimentare, durante il periodo in cui crescevano le piante coltivate. Parecchi di questi divieti si estendevano a tutta la popolazione.
Se, durante questo periodo, gli Apinayé cantavano in gloria del sole, i Mandan se ne guardavano bene, tanto erano sicuri della sua inimicizia. Anche per ottenere che la temperatura salisse nel corso di un inverno particolarmente rigido, essi rivolgevano suppliche al vento del sud e non al sole.
Fra il sole e la terra, era dunque necessario che l’acqua rivestisse la funzione di termine mediatore. «Mantello ben Imbottito», il primo sacerdote del mais, spiegò agli Indiani che, per ottenere molta pioggia e un buon raccolto, essi dovevano cantare parole sacre ogni primavera, quando le anatre e gli altri uccelli acquatici risalivano verso nord.
A quell’epoca era di rigore anche un rito di sudorazione. In una cabina ben chiusa, venivano irrorate d’acqua delle pietre arroventate, in numero di quattro come le visite del Sole alla fanciulla chiamata «Stelo di Mais»: «Queste pietre sono nostre nemiche come lo fu il sole», precisa un informatore. Quando venivano deposte nella cabina, l’officiante enumerava i quattro nemici che sperava di vincere. E quelli che penetravano all’interno della cabina surriscaldata imitavano le oche selvatiche e altri uccelli acquatici (Bowers).
Da tutti questi riti risulta un sistema che riflette la correlazione dei miti con la struttura sociale. I Mandan erano divisi in due metà matrilineari, associate rispettivamente all’oriente e all’occidente. Non conosciamo i nomi di queste due metà, ma al momento dell’erezione della capanna cerimoniale, a cui i loro membri collaboravano soltanto per la parte assegnata a ogni metà, questi ultimi mettevano delle offerte nelle buche che avevano scavato e soltanto dopo vi infilavano i pali. Tali offerte consistevano in chicchi di mais giallo dalla parte orientale, in peli di bisonte intrecciati dalla parte occidentale (Bowers).
All’opposizione mais/bisonte, che simboleggia l’organizzazione sociale, corrisponde quella fra uccelli acquatici e sole nei miti e nei riti considerati.
Fra questi quattro termini, gli uccelli da una parte, il mais dall’altra, sono quelli più strettamente collegati all’acqua. Quest’ultima fa dunque parte dell’una e dell’altra coppia, in quanto elemento ambiguo che dipende dal cielo per quel che riguarda gli uccelli, dalla terra per quel che riguarda il mais (non dobbiamo infatti dimenticare che quest’ultimo proviene dal mondo ctonio):
Questo schema riserva all’acqua una posizione equivoca nella quale si trova la chiave di certe apparenti anomalie nel pensiero mitologico dei Mandan. Ma esso rimane parziale, non avendo la pretesa di ricostruire un sistema totale, di cui illustra soltanto un aspetto. Di fatto, il mais e i bisonti compaiono talvolta insieme in certi riti e in certi miti.
Celebrata d’estate, nel momento in cui le foglie del salice raggiungono il loro maggiore sviluppo, la festa dell’/okipa/ incoraggia la moltiplicazione dei bisonti. Ma essa inverte i riti agrari, in quanto questi connotano l’acqua celeste chiamata mentre l’/okipa/ connota l’acqua terrestre respinta.
Dal canto loro, i riti invernali per chiamare i bisonti invertono al tempo stesso i riti del mais, fondati sul mito dell’/okipa/, e questa stessa cerimonia: si svolgono nel cuore dell’inverno, quando le giornate sono più corte; e consistono in preghiere rivolte al vento del nord perché scateni sulle pianure le tempeste che cacceranno le mandrie verso valle; infine, esigono un silenzio assoluto e la sospensione di ogni attività.
D’altra parte, i miti che li fondano associano sia i bisonti e il mais, sia il sole e gli uccelli. Di conseguenza, i termini che abbiamo preso in considerazione rimangono gli stessi, e l’esame di altri riti o miti ci obbliga semplicemente a individuare nuove combinazioni. Il sistema completo non aggiungerebbe elementi supplementari al sistema parziale, semmai ne arricchirebbe le dimensioni.
(Lévi-Strauss, Le origini delle buone maniere a tavola)