Artaud – Lo scisma d’Irshu

Fabre d’Olivet, nella Historie philosophique du genre humain, parla lungamente di una primitiva separazione d’essenze, che bisogna intendere insieme sul piano divino e sul piano umano – la seconda azione [quella umana] non essendo che il riflesso e, per così Fabre-dOlivet-coverdire, il contraccolpo storico dell’altra: l’azione celeste che, all’origine di tutto, non mette in gioco che delle forze pure.

Resta il fatto che molto tempo dopo lo stabilirsi degli Indù sulle terre del Pallisthan, i popoli, grandi dilettanti in metafisica, cominciano a disputare per una questione di princìpi che ha fatto scorrere molto più sangue di tutte le guerre moderne, e per un tempo molto più lungo.

Mentre in secoli barbari, come quelli nei quali viviamo, le più alte questioni spirituali non vanno oltre i mezzi per poter distribuire una sovrabbondanza di cibo fra popoli estenuati e che muoiono letteralmente di fame, la preistoria ha conosciuto tempi gloriosi per l’uomo, in cui questi poteva ancora far la guerra per delle idee.

Per coloro cui interessa la questione, e per cui la metafisica è qualcosa di più appassionante che la ricerca delle posizioni più propizie all’amore fisico, cioè per quelli il cui spirito, che in questo non fa che seguire la propria legge organica, è ancora capace, quando occorre, di elevarsi sino ai princìpi, attraverso i gradi di una giusta astrazione, si può dire – e in ciò non faccio che seguire Fabre d’Olivet – che gli uomini hanno creduto per lungo tempo all’esistenza di un solo principio di natura spirituale da cui tutto dipende.

Ma un giorno questi medesimi uomini, basandosi per questo sullo studio della musica, fanno una scoperta che sgomenta. Essi scoprono che l’origine delle cose è doppia, mentre essi la credevano semplice; e che il mondo lungi dallo scaturire da un solo principio è il prodotto di una dualità combinata. Impossibile dubitarne: i fatti sono là; i fatti, cioè l’analisi trascendentale della musica, o piuttosto dell’origine dei suoni.
Per quanto in alto si risalga nella generazione dei suoni si trovano due princìpi che operano parallelamente e si compongono per far nascere la vibrazione. E al di fuori di frustrazione-paintquesto non vi è che l’essenza pura, l’astratto non analizzabile, l’assoluto indeterminato, «l’Intelligibile» infine, come lo chiama Fabre d’Olivet.

E fra «l’Intelligibile» e il mondo, la natura, la creazione, vi sono appunto l’armonia, la vibrazione, l’acustica che è il primo passaggio, il più sottile e il più malleabile che unisca l’astratto al concreto.
Più che il gusto, più che la luce, più che il tatto, più che l’emozione passionale, più che l’esaltazione dell’anima eccitata dalle ragioni più pure, è il suono, è la vibrazione acustica che rende conto del gusto, della luce, e dell’esaltazione delle più sublimi passioni.
Se è doppia l’origine del suono, tutto è doppio. E qui comincia lo sgomento. E l’anarchia che genera la guerra, e il massacro dei partigiani. E vi sono due princìpi, l’uno è maschio e l’altro è femmina.

Ma, ed ecco la ragione della guerra: i partigiani del Maschio non credono alla coesistenza dei princìpi, e per essi il Maschio intelligibile rimane solo, all’origine di tutto.
E in un paese come l’India in cui si crede nella preminenza di un solo principio di natura maschile, lo scisma d’Irshu rappresenta in un’epoca pre-storica la rivolta dei partigiani della donna condotti da Irshu contro i partigiani dell’uomo comandati da Tarak’hyan, fratello d’Irshu.

La guerra termina con la disfatta della donna, i cui partigiani rifluiscono in disordine su di uno spazio immenso e vengono a insabbiarsi sulle rive del Mediterraneo.
Col tempo il loro nome si deforma: e da Palli che essi erano (cioè i Pastori) diventano Yoni (la Vagina), e infine Pinksha (i Rossi), dal nome dei mestrui che si spartiscono in pasti inconfessabili.

Rosso, alterato dal giallo degli umori mestruali, ecco l’origine della porpora di Tiro, celebre in tutta l’antichità.

(Artaud, Eliogabalo, Appendice 1)

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Fenici

Fabre d’Olivet (1767-1825), la fonte di Artaud, sosteneva che all’origine dei Fenici ci fosse il c. d. «scisma d’Irshu», che egli riteneva di poter dedurre dai testi sacri indù, azzardandosi addirittura a datarlo, a occhio e croce, intorno al 3.200 a. C.
I Fenici sarebbero stati gli eredi «moderni» dei vecchi partigiani del Principio Femminile – Afrodisiaco – Notturno del «mondo umano», di contro ai sostenitori del Principio Maschile – Erotico – Diurno e Luminoso. Insomma: se i primi predicavano qualcosa come «il Verbo s’è fatto carne», i secondi opponevano loro il dogma secondo il quale, in principio, è piuttosto «la carne che s’è fatta Verbo e Simbolo».

Scrive Fabre d’Olivet: «I settatori della facoltà femminile, chiamati dapprima Palli, i Pastori, avendo preso per simbolo del loro culto il segno distintivo di questa facoltà, chiamato Yoni in sanscrito, furono soprannominati in seguito Yonijas, Yawahas, Ionioï, cioè Ioni; e poiché, per delle ragioni misteriose che è inutile spiegare qui, avevano preso per insegna il colore rosso tendente al giallo, si diede loro anche il nome di Pinksha, o di Fenici, che significa i Rossi».

Per quanto romanzata e fantasiosa sia, ad Artaud la «filosofia» di Fabre d’Olivet presta una sorta di cornice mitologica, entro la quale collocare quello che lui chiama «lo sgomento della scoperta», ovvero l’intuizione [pitagorica] che l’Inizio dell’Umano, l’Inizio del Suono a cui l’Umano affida il suo Verbo, non è né maschile né femminile, ma doppio, Borda-tromboneandrogino, e che il minimo numero, come dirà poi Aristotele nel solco di Platone, non è Uno – ma la Diade, ovvero la coppia di due princìpi, la complicità di due «differenze». O meglio ancora: la «congiunzione» di due «oggetti parziali», le nozze di due «frammenti immaginali», fluenti ciascuno in un flusso (di connessioni) differente.

Sulla scorta di Fabre d’Olivet, anche Artaud immagina delle forze pure che, fluendo nella corrente dell’«Immaginazione Umana», attraggono a sé certi «oggetti» nei quali s’imbattono, mentre altri li lasciano perdere. Si tratta di Pure Forze Immaginali – di veri e propri fiumi che scorrono nel Fiume dell’Immaginazione. Tra loro non c’è, non subito perlomeno, né conflitto né opposizione; tutt’al più, essi scorrono in principio ignorandosi a vicenda, ciascuno raccolto nel proprio letto virtuale.

Gli uomini, scrive Artaud, hanno creduto per molto tempo all’esistenza di un solo principio. Hanno fatto guerre e sono sempre pronti a farne nel nome di un Uno. Eppure, come dice tra le righe Lacan, se il Due non avesse mai patito la sua disparità, mai e poi mai l’Uno sarebbe venuto in mente a qualcuno, né mai gli sarebbe stato innalzato un altare.
La Diade è «più antica» dell’Uno. L’uno non è il «numero più piccolo». Per fare l’uno ci vogliono due «mezzi». Per scrivere Tao ci vogliono due ideogrammi. Per ogni presunta «unità» occorrono due «oggetti parziali» di due serie differenti – l’una femminile, e l’altra maschile. Una qualità e una grandezza, direbbe Aristotele.

Artaud conferma: l’origine (prima) delle cose – la loro arkhé – è doppia: il luogo di questa origine è là dove le acque di due fiumi – di due diverse «forze naturali» all’opera nel mondo dell’Immaginazione – confluiscono in un solo «gorgo». Là dove due «rumori virtuali», di due distinte e (fino ad allora) separate corde immaginali, a un tratto si richiamano a vicenda, entrano tra loro in simpatia – e, prodigiosamente, vibrano e, vibrando, scoprono il Tesoro.
Il Tesoro, la Vibrazione, è il mondo di mezzo – è lo Spazio Simbolico dove a «parlare» è la Gyurka-arpareciproca Relazione, la Diade, il Numero – l’Armonia di due «differenze».

l’origine delle cose è doppia. Ecco la terribile scoperta che Artaud fa tra le righe dell’ingenua metafisica di Fabre d’Olivet. Artaud, non per niente lo schizofrenico, lo «scisso», l’ultimo «scismatico» del nostro Teatro, pensa il mondo come «prodotto di una dualità combinata», il mondo come la combinazione di una chiave e di una serratura, come l’incontro fortuito di un segreto e di un’epifania.
C’è, a prima vista, bisogno di un bel po’ di funambolismo verbale per starlo a seguire. Poi, però, t’accorgi che il suo non è che un dialetto «leibniziano», sia pure suo parente lontano, rimasto anagraficamente in incognito.

Ripetiamo: l’origine delle cose, se è doppia, deve essere per forza una Ripetizione. Qualcosa deve «tornare», avere un contraccolpo, un riflesso, un pareggio, un accoppiamento. Solo a questa condizione emerge dall’indifferenziato, dal molteplice, dall’innumerevole, dall’innominabile.
Ripetiamo: il minimo numero è la Diade. Artaud non è così lontano da Platone e Aristotele. Artaud non è pazzo. Artaud senza capire una mazza di metafisica giunge là dove i nostri addetti alla metafisica fanno sempre toppa. Artaud è doppio, scisso, schizofrenico e perciò «vede» i disastri causati dai partigiani, che non mancano mai, dell’Uno, del Principio Unico, del Semplice.

Ci è voluto però Deleuze per far fruttificare la «demenza» di Artaud. È stato Deleuze, il «leibniziano», a prestare il suo pensiero a fare da sponda filosofica alle penetranti ingenuità del «pazzesco» Artaud.
E non solo perché ha pensato: (ripetiamo) se è doppia, l’origine – implica necessariamente che vi sia in atto della Ripetizione. No, non solo per questo – perché fin qui la scoperta non ha ancora nulla che «sgomenta».
Deleuze, il «leibniziano», ha pensato più a fondo le origini «schizofreniche» della nostra mente. Deleuze ha pensato: non è l’Identico che si ripete. Ha pensato: la Ripetizione non Picasso-donna-mandolinoimplica lo Stesso – se non come ciò che essa ha da «falsificare», per mascherarsi dietro il suo ideogramma, e spostarsi senza nessuna «identità» che la paralizzi, da una finzione all’altra, da un posto all’altro dello Spazio problematico, interrogativo, perplesso dell’Inconscio.

Deleuze ha pensato: ci sono dei fiumi che scorrono nel Fiume delle Contemplazioni Umane, ci sono flussi da cui le Monadi prelevano i loro «oggetti virtuali», i loro «spezzoni immaginali», che una volta prelevati formano a loro volta dei flussi, delle serie di oggetti parziali, delle «connessioni» puramente copulative (… e… e… e…) che vagano, dapprima insignificanti, per la nostra mente.
Insignificanti fino al momento in cui – ecco il Miraggio, ecco il momento in cui la Ripetizione diviene per la prima volta «creativa» e mette al mondo un mondo, e dà origine alla Cosa delle cose – all’«oggetto x», alla «lettera rubata» alla sua incoscienza, al suo letargo, alla sua indifferenza.

È il momento in cui due «oggetti virtuali» di due serie immaginali distinte e separate – re e regina di due Reami disgiunti e differenti – cospirano tra loro… come il vaso e il mazzo di fiori capovolto fanno tutt’uno, due monadi, due macchine celibi, l’una come Amleto chiusa nella pazzia del suo martirio, e l’altra come Ofelia, patetica prigioniera del convento della sua incrollabile fede, sebbene così distanti e forse l’uno all’altra irraggiungibili, per un istante si sposano in un reciproco «anelito», entrambi alludendo, tutt’e due complici di uno stesso ammiccamento, a quell’aldilà, dove dovrebbe essere l’essere che manca, la Cosa assente, al loro desiderio. La Risposta (che non c’è) al loro Problema. C’è solo la Domanda, il Desiderio, l’Anelito che insieme fanno tra loro vibrare due monadi, due macchine celibi.