La teoria «volgare» dice: c’è un Rimosso, uno Stesso originario che, proprio per via della rimozione, ritorna sì, ma mascherato e spostato, in modo che rimane poi difficile «identificarlo». Esso ha comunque un’«identità», sia pure perduta per strada – e tutta la «terapia» starebbe nel ritrovarla.
Deleuze dice: c’è la Ripetizione di niente e di nessuno di «identificabile», anzi la Ripetizione di «qualcuno» che non vuole, non sa e non ha alcun interesse a farsi «identificare». Che è totalmente estraneo al concetto (cosciente) di «identità».
L’abbiamo già notato altrove: non è solo per una questione di pudore, che al nostro essere, se «manca» la Notte, viene a mancare ciò che vi è di più bello nella Bellezza tinta della luce del Giorno: viene a mancare quella «mancanza d’essere» che ci chiede di essere ascoltata nel suo nero mistero. Che ci chiede, soprattutto, di essere affrancata dalle risposte e dalle ricette più o meno facili. Che ci chiede, in poche parole, di essere «percepita» in tutta la sua «piccolezza» in quanto a significato – per dispiegare tutta la sua «grandezza», la grandeur della sua follia, in quanto insensatezza di una domanda sempre aperta, di un problema irrisolto, di una ricerca libera e selvaggia, di un anelito all’aldilà del bisogno e della fame, dell’utile e del sensato…
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La ripetizione si costituisce attraverso i travestimenti degli «oggetti virtuali» prelevati dalla realtà; se ciò accade, [non è per via di un conflitto «psichico» tra reale e immaginale, ma] è perché la ripetizione dipende dall’oggetto virtuale come da un’istanza immanente la cui peculiarità è innanzitutto lo spostamento.
Perciò, invece di pensare che il travestimento si spieghi con la rimozione, al contrario, proprio perché la ripetizione è necessariamente mascherata, in virtù dello spostamento caratteristico del suo principio determinante, è semmai la rimozione che si produce come una conseguenza attinente alla rappresentazione [cosciente, simbolica] del Presente. Cosa che Freud intende chiaramente, quando cerca un’istanza più profonda di quella della rimozione, a rischio di concepirla ancora sullo stesso modello, come una rimozione detta «primaria».
Non si ripete perché si rimuove, ma si rimuove perché si ripete. O, che è la stessa cosa, non si maschera perché si rimuove, ma si rimuove perché si maschera, e si maschera in virtù del fuoco determinante della ripetizione. Come il mascheramento non è secondo rispetto alla ripetizione, così la ripetizione non è seconda rispetto a un termine fisso [il trauma primitivo], supposto ultimo o originario [ovvero lo Stesso Ripetuto, remoto e rimosso, nel qual caso ci sarebbe dunque prima la Rimozione, e poi la Ripetizione che deforma, maschera e sposta lo Stesso]. […]
È vero che l’inconscio desidera e non fa altro che desiderare. Ma nel momento in cui il desiderio trova, nell’oggetto virtuale, il principio della propria differenza dal bisogno, esso si manifesta non come una potenza di negazione, né come l’elemento di un’opposizione, ma piuttosto come una forza di ricerca, interrogativa e problematica, che si sviluppa in un campo diverso da quello del bisogno e della gratificazione.
Le domande e i problemi non sono atti speculativi, che a questo titolo resterebbero assolutamente provvisori e segnerebbero l’ignoranza momentanea di un soggetto empirico [quell’ignorante che, a detta di Kierkegaard, non suscita ironia].
Le domande e i problemi sono atti viventi che investono l’oggettistica tutta speciale dell’inconscio: atti destinati a sopravvivere allo stato provvisorio e parziale che tocca viceversa le risposte e le soluzioni.
[Le domande «inconsce» restano, le risposte e le soluzioni «consce» passano, hanno vita breve].
I problemi «corrispondono» al mascheramento reciproco dei termini e dei rapporti che costituiscono le serie reali [di «oggetti virtuali», di frammenti immaginali]. Le domande come fonti di problemi «corrispondono» allo spostamento dell’oggetto virtuale in funzione del quale le serie si sviluppano.
[I problemi si mascherano in altre forme di apparizione, le domande si spostano in altri luoghi di interrogazione].
Appunto perché si confonde col proprio spazio di spostamento, il fallo, come oggetto virtuale, è sempre designato, al posto dove manca, con enigmi e indovinelli. Anche i conflitti di Edipo dipendono innanzitutto dalla domanda della Sfinge. La nascita e la morte, la differenza dei sessi, sono temi complessi di problemi prima di essere termini semplici di opposizione.
(Prima dell’opposizione dei sessi, determinata dal possesso o dalla privazione del pene, c’è la «quaestio» del fallo che determina in ciascuna serie la posizione differenziale dei personaggi sessuati.)
È possibile che in ogni domanda, in ogni problema, come nella loro trascendenza in rapporto alle risposte, nella loro insistenza attraverso le soluzioni, nella maniera con cui conservano la propria apertura, ci sia per forza qualcosa di pazzesco.
È sufficiente che la domanda, come in Dostoevskij o in Šestov, sia posta con sufficiente insistenza per far tacere ogni risposta in luogo di sollevarne, e qui essa scopre la sua portata propriamente ontologica, il (non)-essere della domanda che non si riduce però al non-essere del negativo.
Non ci sono risposte o soluzioni originarie né ultime; soltanto ci sono i problemi-domande con l’aiuto di una maschera dietro ogni maschera e di uno spostamento oltre ogni luogo. Sarebbe ingenuo credere che i problemi della vita e della morte, dell’amore e della diversità dei sessi, siano esauriti nelle loro soluzioni nonché nelle loro posizioni scientifiche, quantunque soluzioni e posizioni sopravvengano di necessità e debbano intervenire a un certo momento nel vivo del processo del loro sviluppo.
I problemi concernono l’eterno mascheramento, le domande l’eterno spostamento. I nevropatici, gli psicopatici esplorano forse a prezzo delle loro sofferenze questo fondo originario ultimo, gli uni domandando come spostare il problema, gli altri, dove porre la domanda. Proprio la loro sofferenza, il loro pathos, è la sola risposta a una domanda che non cessa di spostarsi in sé, a un problema che non cessa di mascherarsi in sé. Ciò che è esemplare e li trascende, non è quello che dicono o quello che pensano, ma la loro vita. Essi testimoniano di questa trascendenza, e del gioco più straordinario del vero e del falso così come si stabilisce, non più al livello delle risposte e delle soluzioni, ma negli stessi problemi, nelle stesse domande, vale a dire in condizioni tali che il falso diviene il modo di esplorazione del vero, lo spazio proprio dei suoi travestimenti essenziali o del suo spostamento fondamentale: lo pseudos è qui divenuto il pathos del Vero.
La forza delle domande viene sempre da una parte che non è quella delle risposte, e fruisce di un libero fondo che non si lascia risolvere. L’insistenza, la trascendenza, lo statuto ontologico delle domande e dei problemi non si esprimono sotto la forma di finalità di una ragione sufficiente (a che pro? perché?), ma sotto la forma discreta della differenza e della ripetizione: «che differenza c’è?», e «prova a ripetere!». Non c’è mai differenza, e ciò non perché essa si risolva nella risposta, ma perché non è se non nella domanda, e nella ripetizione della domanda, che ne assicura lo spostamento e il mascheramento.
I problemi e le domande appartengono dunque all’inconscio, ma anche l’inconscio è per natura differenziale e iterativo, seriale, problematico e interrogativo. Quando si domanda se l’inconscio è in fin dei conti opposizionale o differenziale, inconscio delle grandi forze in conflitto o dei piccoli elementi in serie, delle grandi rappresentazioni opposte o delle piccole percezioni differenziate, si ha l’aria di rinnovare antiche esitazioni, persino antiche polemiche, fra la tradizione leibniziana e quella kantiana. Ma se Freud propende nettamente verso un postkantismo hegeliano, cioè verso un inconscio di opposizione, perché poi rende un tale omaggio al leibniziano Fechner, e alla sua finezza differenziale che è propria di un «sintomatologo»?
In realtà, non si tratta affatto di sapere se l’inconscio implica un non-essere di limitazione logica, o un non-essere di opposizione reale. Difatti questi due non-essere sono comunque le figure del negativo. Non essendo né limitazione né opposizione, né inconscio della degradazione, né inconscio della contraddizione, l’inconscio concerne i problemi e le domande nella loro differenza essenziale rispetto alle soluzioni-risposte: (non)-essere del problematico, che rifiuta ugualmente le due forme del non-essere negativo, in quanto queste ultime non reggono se non le proposizioni della coscienza.
La celebre espressione secondo la quale l’inconscio ignora il No, va presa alla lettera. Gli oggetti parziali sono gli elementi delle piccole percezioni. L’inconscio è differenziale, e di piccole percezioni, ma proprio per questo differisce essenzialmente dalla coscienza, e concerne i problemi e le domande, che non si riducono mai alle grandi opposizioni o agli effetti d’insieme che la coscienza raccoglie (via, questa, già indicata dalla teoria leibniziana).
(Deleuze, Differenza e ripetizione)