C’è da ridere e da piangere, tanto di tutte quelle assicurazioni di aver compreso e aver afferrato le idee più alte, quanto del virtuosismo con cui molti, in un certo senso molto esattamente, sanno rappresentarle in abstracto: … c’è da ridere e da piangere quando si vede che tutto quel sapere e comprendere non esercita nessun potere sulla vita degli uomini, la quale non esprime nemmeno alla lontana ciò che essi hanno compreso, ma piuttosto esattamente il contrario.
Davanti a questo spettacolo tanto triste quanto ridicolo ci vien fatto di esclamare involontariamente: ma, diamine, com’è possibile che l’abbiano compreso? è proprio vero che l’hanno compreso?
E allora quel vecchio Saggio ironista ed etico (Socrate) risponde: o mio caro, non crederci mai; a questo modo non l’hanno compreso, ché se l’avessero compreso in verità, allora la loro vita anche lo esprimerebbe, allora farebbero ciò che hanno compreso.
C’è dunque comprendere e comprendere, e sono due cose diverse. Chi ha compreso questo – beninteso, non nel primo modo di comprendere – costui è eo ipso iniziato a tutti i segreti dell’ironia.
È proprio questa la contraddizione che interessa l’ironia. Intendere come fenomeno comico il caso di un uomo che realmente non sa una certa cosa, è un genere molto basso di comicità e indegno dell’ironia. Per es., non c’è nulla di profondamente comico nel fatto che siano vissuti degli uomini che credevano che la terra stesse ferma – giacché non erano meglio informati. Probabilmente il nostro tempo farà una figura analoga di fronte al futuro in possesso di più progredite conoscenze fisiche.
La contraddizione interessa qui due epoche diverse; mancando perciò un punto di coincidenza più profondo, una tale contraddizione non è essenziale, e quindi neanche essenzialmente comica.
Ma che un uomo stia lì e dica che cosa è giusto – e quindi l’abbia compreso – e poi, quando deve agire, faccia ciò che giusto non è – dimostrando così che non l’ha compreso – ecco, questo sì che è infinitamente comico.
È infinitamente comico che un uomo, commosso fino alle lacrime, col viso bagnato non solo dal sudore ma anche dalle lacrime, si metta a sedere e leggere o ascoltare una rappresentazione dell’abnegazione, della generosità di sacrificare la vita per la verità – e poi subito dopo, con due salti, quasi ancor con le lacrime agli occhi, si mette a lavorare con tutte le forze, col sudore del suo volto, secondo le sue possibilità, per far vincere la falsità.
È infinitamente comico che un oratore, con l’espressione della verità nella voce e nella mimica, profondamente commosso e commovente, esponga la verità in maniera da scuotere gli uditori, affronti tutto il male, tutte le forze dell’inferno con un atteggiamento così deciso, con uno sguardo così disinvolto, con un passo così sicuro da destare ammirazione…: è infinitamente comico che egli quasi ancora vestito dell’armatura bellica, pieno di viltà e paura, scappi davanti alla più piccola avversità.
È infinitamente comico che uno comprenda tutta la verità, comprenda com’è meschino e gretto il mondo, ecc. – che egli lo comprenda e poi non riconosca ciò che ha compreso; poiché quasi nello stesso momento egli va a braccetto della stessa meschinità e grettezza, e si lascia onorare da questo mondo e lo onora, cioè lo riconosce.
Ah, quando si vede qualcuno che assicura di aver compreso completamente come Cristo andava per il mondo in forma di un servo umile, povero, disprezzato, schernito, come dice la Scrittura: lasciandosi sputare addosso… – quando poi vedo lo stesso uomo rifugiarsi così premurosamente in un posto dove si sta bene e sistemarsi nella posizione più sicura; quando lo vedo, con un’ansietà come se si trattasse della vita, evitare ogni soffio di vento contrario da destra o da sinistra, così felice, così arcifelice, così estremamente lieto – perché non gli manca nulla: così gongolante che persino ne ringrazia Dio con commozione – di essere sotto ogni rispetto onorato e stimato da tutti: allora dico spesso a me stesso e fra me stesso: «Socrate, Socrate, Socrate, è mai possibile che quest’uomo abbia compreso quanto dice di aver compreso?».
Così ho detto, desiderando nello stesso tempo che Socrate avesse ragione. Perché sembra veramente che il cristianesimo sia troppo severo, e poi non corrisponde neanche alla mia esperienza, ritenere un tal uomo un ipocrita.
No, Socrate, io ti posso comprendere: tu lo fai apparire un pagliaccio, come un tipo ameno, ne fai oggetto di riso; tu non hai niente in contrario, anzi tu approvi se io lo arrangio e lo presento come un tipo comico, purché lo faccia bene.
Socrate, Socrate, Socrate! Certo bisognerebbe invocare tre volte il tuo nome, e non sarebbe troppo invocarlo dieci volte se potesse giovare a qualcosa.
Si crede che il mondo abbia bisogno di una repubblica, oppure si crede di aver bisogno di un nuovo ordine sociale o di una nuova religione: ma nessuno pensa che è soprattutto di un Socrate che abbisogna il nostro mondo, smarrito nella massa delle conoscenze.
Ma è chiaro; se ci si pensasse, ci sarebbe meno bisogno di lui, e tanto meno se ci pensassero in molti. La cosa di cui un errore ha più bisogno è sempre quella a cui si pensa meno – naturalmente, perciò altrimenti non sarebbe più un errore.
Quindi, ciò di cui il nostro tempo avrebbe molto bisogno è una correzione ironico-etica; forse è l’unico rimedio di cui ha bisogno – perché, è evidente, è ciò a cui pensa meno; è diventato estremamente necessario che noi, invece di andare oltre Socrate, ci accontentiamo di ritornare a questo principio socratico: che comprendere e comprendere sono due cose diverse – non come un risultato intellettuale che alla fine porta gli uomini nella più profonda miseria, perché [l’aver compreso intellettualmente] annulla di nuovo la differenza fra comprendere e comprendere – ma come la concezione etica per la vita di tutti i giorni.
La definizione socratica, dunque, si aiuta così!
Se uno non fa il bene è segno che non lo ha neanche compreso; il suo comprendere è un’illusione; la sua assicurazione di aver compreso indica una direzione sbagliata; l’assicurazione ripetuta di voler andare al diavolo se non aveva compreso, dimostra una distanza astronomica nella quale sta facendo il giro più lungo possibile.
Ma così la definizione ancora non è esatta.
Se uno fa ciò che è giusto, certamente non pecca; e se non lo fa, non l’ha neanche compreso; se l’avesse compreso, in verità, si sentirebbe subito indotto a farlo, diventerebbe subito una raffigurazione viva del suo atto di comprensione: ergo il peccato è ignoranza.
Ma allora dov’è lo sbaglio?
Lo sbaglio consiste nel fatto – di cui anche la concezione socratica, ma soltanto fino a un certo punto, si accorge e a cui cerca di rimediare – che manca una determinazione dialettica circa il passaggio dal comprendere al fare.
È in questo passaggio che comincia il cristianesimo; e procedendo per questa via arriva a dimostrare che il peccato sta nella volontà e a porre il concetto di ostinazione e, per fare il punto, aggiunge il dogma del peccato originale – perché il segreto della speculazione, per quanto riguarda il problema del comprendere, è precisamente di lavorare senza un punto fermo, come uno che cuce senza un punto fermo, perciò può meravigliosamente continuare a cucire senza fine, cioè a far passare il filo. Il cristianesimo, invece, ferma il filo mediante il nodo del paradosso.
Nell’idealità pura, dove non è in questione il singolo uomo reale, il passaggio è necessario (nel sistema ideale, infatti, tutto procede per necessità), ovvero non c’è nessuna difficoltà connessa al passaggio dal comprendere al fare. Questo è il carattere della grecità (ma non della concezione socratica; Socrate era troppo decisamente etico per poter pensare così).
E precisamente lo stesso è, in fondo, il segreto della filosofia moderna, perché consiste nel principio cogito ergo sum, pensare è essere (dal punto di vista cristiano, invece, si dice: ti sarà fatto come credi; oppure: come credi, così sei, credere è essere). Vista da questa angolazione, la filosofia moderna non è né più né meno che paganesimo. Ora, questo non sarebbe il male peggiore: trovarsi in affinità con Socrate non è certamente il livello più basso. Ma ciò che nella filosofia moderna è decisamente antisocratico è che essa vuole far credere, a sé e a noi, che questo suo sistema ideale è cristianesimo.
Nel mondo della realtà, invece, dove si tratta del singolo uomo, questo passaggio minimo dal comprendere al fare non avviene sempre cito citissime; non è, per dirlo in tedesco, in mancanza di un’espressione filosofica: geschwind wie der Wind [veloce come il vento]. Al contrario, qui comincia una storia molto lunga.
Nella vita [reale] dello spirito [del pensiero, della mente] non c’è mai stasi (in fondo non si può nemmeno parlare di un suo stato, perché in essa tutto è in atto); sicché, se un uomo, nello stesso momento in cui ha conosciuto il bene, non lo fa – allora si affievolisce il fuoco della conoscenza. E poi c’è anche il problema, di che cosa pensa la volontà di ciò che si è conosciuto.
La volontà è un principio dialettico e tiene sotto di sé tutta la natura inferiore dell’uomo. Se a questa non piace ciò che l’uomo ha conosciuto, non ne risulta certamente che la volontà si metta subito a fare il contrario di ciò che ha compreso l’intelligenza: opposizioni così forti sono certamente molto rare.
Ma la volontà lascia passare un po’ di tempo in modo di avere un interim, cioè: stiamo a vedere fino a domani come vanno le cose! Nel frattempo la conoscenza si oscura sempre di più e gli istinti più bassi prendono sempre di più il sopravvento; ahimé, il bene si deve fare subito, appena conosciuto (ecco la ragione perché nella pura idealità il passaggio dal pensare all’essere si fa con tanta facilità, perché qui tutto si fa subito); ma la forza della natura bassa sta nel tirare le cose per le lunghe. Così, poco a poco, la volontà non ha più nulla in contrario che la cosa si faccia, ma chiude quasi un occhio.
Quando così la conoscenza è divenuta abbastanza oscura, allora l’intelligenza e la volontà possono intendersi meglio; finalmente vanno completamente d’accordo, perché l’intelligenza ora ha preso il posto della volontà e riconosce che è perfettamente giusto ciò che vuole lei.
Una gran massa di uomini forse vive così: a poco a poco essi riescono ad oscurare la loro conoscenza etica o etico-religiosa che li vuole portare a decisioni o conseguenze che non garbano alla loro natura inferiore, e si danno a estendere invece la loro conoscenza estetica e metafisica, la quale, dal punto di vista etico, è distrazione.
Ma con tutto ciò non siamo ancora andati più in là della concezione socratica; perché, direbbe Socrate, se questo avviene, ciò dimostra che un tal uomo non ha compreso ciò che è giusto. Cioè: la grecità [pur sapendolo] non ha il coraggio di dichiarare che l’uomo possa consapevolmente fare ciò che non è giusto, e che egli, pur conoscendo il bene, possa fare il male, e così se la cava dicendo: se uno fa il male, è segno che non ha compreso il bene.
Esatto, e più in là nessun uomo può dire da se stesso che cosa sia il peccato, proprio perché egli è nel peccato; tutto quello che dice del peccato in fondo non è altro che un palliativo per il peccato, una giustificazione, un’attenuazione peccaminosa. Perciò il cristianesimo comincia da un’altra parte, dichiarando che è necessaria una rivelazione divina per illuminare l’uomo sull’essenza del peccato, per chiarire che il peccato non significa che l’uomo non abbia compreso il bene, ma che egli non vuole comprenderlo, e che non lo vuole [il bene].
Ecco, in merito a questa distinzione tra il non poter comprendere e il non voler comprendere, Socrate non dà nessuna spiegazione, mentre resta il grande maestro per tutti gli ironisti e nel maneggio della distinzione tra comprendere e comprendere.
Socrate dichiara che colui che non fa il bene, non l’ha neanche compreso, mentre il cristianesimo risale un po’ più addietro, dicendo che non l’ha compreso perché non lo vuole comprendere, e ancora che non vuole comprendere perché non vuole il bene.
Il cristianesimo insegna invece che un uomo fa il male (ecco la vera ostinazione) sebbene comprenda il bene, o tralascia di fare il bene benché lo comprenda.
Insomma, la dottrina cristiana del peccato è tutta piena di rimproveri contro l’uomo; essa è un’accusa, è il diritto di sporgere querela contro l’uomo che la divinità si permette di rivendicare.
(Kierkegaard, La malattia mortale)
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C’è dunque, se ho capito bene, il poter comprendere e il voler comprendere – e non sono la stessa cosa! c’è una dote naturale d’intelligenza, ma c’è anche una altrettanto naturale volontà in ciascuno di noi – c’è un «principio di realtà», direbbe Freud, ma c’è anche quella certa cosa chiamata «libido», desiderio, volere che, alla «regola di costanza», riesce sempre a scippare un’«eccezione», una «variabile», un «vattelapesca».
La grecità, secondo come la vede Kierkegaard, non è giunta fino a cogliere questa distinzione. Ha trattato il campo della comprensione come una terra estranea alla volontà, aliena al desiderio. Se uno comprende o meno, non è per colpa sua, è fatto così, è di natura tonto o intelligente. Se è cattivo e fa il male, è perché è scemo, tardo di comprendonio. Che colpa gli si può imputare? poverino, è nato così, e perciò non comprende che con la sua cattiveria non fa che peggiorare il mondo in cui vive, il che l’obbligherà a essere ancora più cattivo.
È in queste circonlocuzioni «ironico-etiche» (l’ignoranza fa del male a se stesso, finché non giunge a comprendere d’essere ignorante) che Socrate circoscrive la distinzione che pure fa, tra comprendere e comprendere. Tra l’ignoranza dotta e la dottrina degli ignoranti. Sebbene Kierkegaard gli riconosca di essere un grande maestro di acrobazie verbali, e a dispetto della sua ironia, Socrate però non va fino in fondo alla questione.
In fondo – risalendo quanto più addietro possibile, il comprendere è già alla radice un volere. Perciò l’uomo può comprendere, sin dal principio, nei limiti del suo volere. Può comprendere solo ciò che vuole comprendere. E questo è, secondo Kierkegaard, il «peccato originale» dell’uomo – l’essere cioè il raggio d’estensione della sua conoscenza «piegato» solo ad assaggiare un misero «frutto proibito» ai suoi desideri.