È uno strano aneddoto quello che racconta Ateneo.
Che si tratti di un aneddoto o d’un fatto «reale», se Ateneo ce lo tramanda, è perché vi fiuta una tradizione il cui «sapere muto» è ancora tutto da verbalizzare.
Il fatto, reale o immaginario che fosse, è questo. A calcare il palcoscenico dei teatri nell’antica Roma ci sarebbe stato, tra gli altri, un mimo di nome Memphis, una vera e propria celebrità dei suoi tempi, rinomata per la sua bravura nell’esprimere, e con quale perfezione, e che stile, e che eleganza!, concentrata in una breve danza, l’«essenza» della dottrina pitagorica.
Commenta Santillana: «Non è detto se egli la comprendesse o no: forse ne aveva un qualche barlume e il resto era dovuto al suo raffinatissimo senso espressivo. Aveva per così dire una comprensione morfologica esprimibile soltanto mediante l’azione. Indubbiamente il pubblico non ne capiva più di lui, ma sapeva essere un giudice severo e inesorabile. Dictum sapienti sat [al sapiente basta una parola detta], direbbero i saggi: ma qui mancava anche quell’unica parola. Eppure, i suoi spettatori in delirio gridavano nel loro demotico: “Sei grande!”, e per il benché minimo scarto dalla forma esatta erano pronti con uova e mele marce. Abbiamo qui un caso di comunicazione autentica che non necessita di comprensione e si realizza esclusivamente attraverso la forma (μορφή). Nei riti misterici c’erano cose che “non si potevano dire” (ἄρρετα), ma solo esprimere con l’azione» (Il mulino di Amleto).
A me pare una bella notizia! La notizia sarebbe che, a chi li sa «danzare», non è necessario leggere e rileggere cento volte, fino a impararli a memoria, i vari Pitagora, Platone, Hegel, Aristotele o Marx. È tutta e solo una questione «di forma». O, più precisamente, di forma «muta». Di forma il cui linguaggio è tutto e solo «spettacolo».
E la notizia direbbe anche che, in quanto «umani», noi siamo i suoi spettatori un po’ particolari, perché tanto più «umani» siamo se la riconosciamo, l’Idea diceva Platone, la Forma Vuota dicono altri, dei nostri desideri – se cioè vedendola «danzare», solo da questo minimo spettacolo comprendiamo che il nostro desiderio, il nostro «innominabile» desiderio, differisce da quello di tutti gli altri animali, in quanto si sposa a una forma – non già desiderio di un corpo o di un oggetto, ma della Forma immaginale di cui quel corpo o quell’oggetto inscenano un’epifania più o meno spettacolare.
Narciso s’innamora della forma del suo volto, non di se stesso. Lo specchio in cui la contempla, è solo il luogo dove la sua stessa Immagine (eccola la Donna che lo domina) senza parole, riguardandolo, sembra dirgli: Danzami, e sarò la tua Salomè!
Lo sanno anche i bambini: furono in due a perdere la testa per la Forma evocata dalla danza della bella Salomè: san Giovanni Battista e Antipatre Erode. Tutt’e due rimisero il destino del loro desiderio alla danza dei Sette Veli. Sette quanti sono i colori dell’Arcobaleno, o i veleni che furono mischiati nel filtro magico d’Isotta. E sette sono i cieli per cui, ebbro di mistica libidine, ogni Tristano si deve arrampicare per non perderla di vista, la Maga che l’ha stregato.
È colpa sua se gli è piovuta addosso dalle nuvole, la Forma ballerina?
Ma come può essere, se è soltanto quando ha cessato di piovere, che quell’antipatico di Antipatre Erode può aver visto l’Arcobaleno?
Ha visto spiegarsi a lui dinanzi un ventaglio multicolore: l’ha visto che gli si offriva a fungere da nuovo ponte tra il Terra e il Cielo.
Non pioveva più. S’era interrotto il flusso delle Acque Celesti che irrigavano una volta i campi della sua Immaginazione Muta. S’era spezzato, da sé, il continuum dei suoi umori inconsci.
Una volta immaginava senza memoria. E non c’era bisogno di dire una sola parola. Non c’era ancora un sapiente a cui andare a dirla, dopo tutto. Una volta bastava «danzarla», perché un’immagine fosse, essa sola, tutto il corpus di una dottrina a venire.
Solo un re «poliglotta» come Tiridate può comprendere che un «attore di farse» (dai, hai capito, sto pensando a Totò), solo dunque un Mimo Comico può «unificare» un popolo col linguaggio muto del suo corpo.
Quella là, quella Forma danzata, quella Forma mimata (come non pensare alla «mimesi» platonica?), quella Forma a cui non serve la parola, non giunge mai a essere «detta», e perciò mai diviene «oggetto» del sapere dei sapienti, e ancor meno «oggetto» di desiderio di quegli spasimanti che continuano a fingere di non sapere che il loro desiderio non è, non tutto perlomeno, desiderio di corpo, come succede agli animali, né tantomeno desiderio di oggetto, come tocca ai feticisti – ma desiderio della Forma che hanno vista animarsi in un corpo che, svelandosi, si prestava a fungere da luogo reale di un «frammento» del loro Miraggio. A fungere cioè da «perno equinoziale» intorno a cui far ruotare il Sole dall’uno all’altro «solstizio» del loro innominabile Desiderio.
E i bambini sanno pure come andò a finire… ai due spasimanti.
Andò a finire che al nostro amato san Giovanni Battista fu tagliata la testa in senso proprio, e a quell’antipatico di Antipatre Erode solo (si fa per dire) in senso figurato. Nessuno dei due aveva però una comprensione piena di quello che stava loro succedendo. Forse neanche una minima comprensione di dove la danza di Salomè li stava menando: ciascuno dei due all’ora più esaltata o più eccitata del proprio desiderio.
“Sei grande!”, di colpo scappò detto a Erode. Furono le prime parole al mondo. Erode, il re, non aveva mai visto niente di più diabolicamente seducente dei veli che, a uno a uno, scivolavano via dal corpo della ballerina.
Comprendi? Questo è un punto decisivo.
Quando la danza lo prende, è lo «spettatore» che fa intervenire la parola. È come se fosse il «mutismo» stesso della danza a pretenderlo, quando – cessata la pioggia – la Forma lo eccita a tal punto da caricarsi di una tensione troppo acuta per essere taciuta.
“Sei bellissima!”, le avrà detto quel porco di Erode.
Non pioveva più, da un po’.
L’azione di Salomè non si era arrestata però a una sola rivoluzione celeste. Da un solstizio all’altro, almeno sette volte, dicono le Scritture, o forse settanta volte sette dimenò il seno e il ventre prima di denudarli.
È uno strano aneddoto, e lo racconta un vangelo così assurdo che neanche tra gli «apocrifi» ha potuto trovare posto. Racconta che a Giovanni, rinchiuso tra le sbarre d’una prigione sotterranea, parve a un tratto di udire una voce che gli diceva: «Diglielo! Di’ al re, e pure alla sua ballerina, che quel che darai, lo darai perché sei generoso, e non un vigliacco!».
Che importa se nessuno ci crede?
Quando piegò il collo alla scure del boia, per un attimo Giovanni gioì – poco prima che la sua testa rotolasse ai piedi di Salomè.
Fu il rotolare muto di una maschera di gioia. Dice l’aneddoto che fu un breve passo di danza, nel quale era racchiusa l’«essenza» di tutta la cristianità.