Lacan – Il verbo e le trippe

… finché il soggetto si situa nel registro dell’io [finché continua a porsi delle domande del tipo: io chi sono? io cosa faccio? io cosa dico e penso?], tutto è in effetti dominato dalla relazione narcisistica [nota: Lacan non dice dominato dal suo essere Narciso, ma dalla relazione narcisistica: nessuno è Narciso, o tutti lo siamo, ma solo quando in un modo o nell’altro siamo presi, catturati in una relazione narcisistica; dunque, il Soggetto è la Relazione, la Relazione è al di là degli «io» tra cui scorre – la Relazione, è il Discorso, il Racconto dell’Es, il Reame dei «si dice», che la struttura e la detta].

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Moore-labirinto

Qualunque cosa lei faccia, in qualunque forma maneggi il pensiero, ossia, non le dispiaccia, sempre in forma parlata, la domanda manterrà tutto il suo valore. Infatti, finché il soggetto si situa nel registro dell’io, tutto è in effetti dominato dalla relazione narcisistica. Non evochiamo proprio questo quando diciamo per esempio che, in ogni specie di dono, c’è un’ineliminabile dimensione narcisistica? Lei crede che il soggetto finirà per trovare la sua strada abbandonando la questione? O come?

DURANDIN: – Riformulandola e prendendone coscienza. […] Un esercizio di linguaggio può essere un esercizio di riformulazione del pensiero. E a partire da che? A partire dall’esperienza del fatto che si cade allora in cose un po’ misteriose e ineffabili. È in fin dei conti la realtà. La realtà, se ne prende coscienza tagliandola, articolandola. Ma è tuttavia qualcosa prima di essere nominata.

È innominabile.

DURANDIN: – Quel che succede nelle budella è innominabile, ma finisce per nominarsi.

Ma tutto ciò che lei sente, fin nelle budella, come giustamente lei si esprime, non può nemmeno occuparsi della serie di reazioni vago-simpatiche se non in funzione della catena di questioni che avrà introdotto. Per questo lei è un uomo. Ogni particolarità, ogni orecchio-bizzarrobizzarria, il ritmo stesso delle sue reazioni vago-simpatiche, dipendono dal modo in cui le questioni si sono introdotte nella sua storia storicizzata e storicizzante, dal momento in cui lei ha incominciato a parlare. Il che va ben al di là dell’addestramento.

Per evocare un tema spesso presente in Freud, in funzione del carattere significativo con cui le si sarà presentato per la prima volta l’essersela fatta addosso, potrà accadere in seguito, a un’età in cui non lo si fa assolutamente più, che lei ricominci. L’averla lasciata scappare è stato interpretato come un segno, sia che lei abbia perso la faccia o che si sia collegato a un’emozione erotica – rilegga Il caso clinico dell’uomo dei lupi. Ha assunto un valore in una frase, un valore storico, un valore di simbolo, che continuerà ad avere, oppure no. Ma in ogni caso, a partire dal valore che la sua reazione trippale ha preso per la prima volta, si farà una differenziazione a livello delle sue trippe e del suo tubo digerente, e la catena degli effetti e delle cause sarà per sempre un’altra. Se non è questo quel che ci insegna la psicoanalisi, allora non ci insegna assolutamente nulla.

In definitiva, il pensiero incluso nel termine deverbalizzazione [che lei usa] è il seguente – tutte le parole del soggetto non fanno altro che porre falsi problemi. Si può forse anche solo immaginare che quest’idea possa dare la soluzione di quel che si cela nella questione che il soggetto si pone? Non si tratta piuttosto di fargli capire fino a che punto la dialettica dell’amor proprio, nel caso specifico, abbia fatto parte del suo discorso? E che egli pone autenticamente la sua questione, in quanto questo è il ruolo dell’io nelle sue relazioni umane, e ciò in ragione della sua storia, che bisogna fargli ricostruire completamente?

Nella posizione dell’ossessivo, per esempio, tutto ciò che è dell’ordine del dono è preso in una rete narcisistica da cui non può uscire. Non si tratta forse di esaurire fino all’ultimo termine la dialettica del narcisismo perché ne trovi la via d’uscita? Bisogna farlo battere in ritirata in modo che non articoli più una parola, o al contrario spingere il discorso fino in fondo in modo che si trascini tutta la storia?

Lawrence-Roma2011

La storia fondamentale dell’ossessivo è di essere interamente alienato nei confronti di un padrone di cui attende la morte, senza sapere che è già morto, tanto da non poter muovere un passo.
Non è forse facendogli cogliere di che cosa è veramente prigioniero e schiavo, del padrone morto, che lei può aspettarsi la soluzione? Non è spingendolo ad abbandonare il suo discorso, ma incitandolo a proseguirlo fino all’ultimo grado del suo rigore dialettico, che lei potrà fargli capire come sia sempre frustrato da tutto in anticipo. Più si concede delle cose, più è all’altro, al morto, che le concede, e si ritrova eternamente privato di ogni specie di godimento della cosa. Se non comprende questo, non c’è nessuna possibilità che lei riesca a venirne fuori.

Lei gli dice che il taglio è sottile. E poi? Lei crede che questa filosofia abbia in se stessa un valore catartico? Certamente no. Quale che sia il suo disprezzo per la questione, non potrà non succedere che lei se la veda continuamente rivenire fuori. Non c’è alcuna ragione che il soggetto arrivi a non avere più un io, se non nella posizione estrema di Edipo alla fine della sua esistenza.
Nessuno ha mai studiato gli ultimi momenti di un ossessivo. Ne varrebbe la pena. Forse c’è in quel momento una rivelazione. Se lei vuole ottenere una rivelazione un po’ più precoce, non sarà certo attraverso l’abbandono della parola.

(Lacan, Il Seminario: 2)

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Mei-gente

Nessuno è, in sé, Narciso – ma dal momento in cui entra nel circolo del dono, è per così dire «invischiato» nella materia narcisistica della Relazione che il dono instaura, nei gesti e nelle parole, tra chi dà e chi riceve.
Macchina di desiderio – mio carissimo io, funzioni solo se diventi macchina di macchina altrui. Solo se ti attacchi a un’altra macchina per dare o per ricevere. Ma sì, anche per rubare, perché lo sanno tutti: è un piacere fare il mariuolo. Tanto più se, giustamente, pensi che l’insignificanza del desiderio è tale che nel suo regime non contano né pesi né misure. Basta solo che stai bene tu.

Se tra di noi ci sono macchine celibi, è perché il Discorso sta macchinando relazioni /magari millenarie/ da cui esse, per una ragione o l’altra, si trovano a essere escluse. Forse non hanno più niente da dare, o forse – peggio – si sono guastate al punto che non possono «ricevere» dalla loro postazione più nessuno stimolo dalla Rete. Peggio ancora: non vedono in giro niente che valga la pena di rubare all’altro, perché all’altro ruberebbero solo un senso di colpa o un piacere sadico.

Comunque sia, per rigore logico, se nessuno è Narciso – o meglio: se Narciso è solo Nessuno (il SI dei «si dice») – che senso ha dire che Tizio o Caio è un «ossessivo»? Forse che l’Ossessione, non è come il Narcisismo, una Relazione che sta nella Parola della Tribù? Forse che non è il Popolo, il Paranoico? Non possiamo dunque concederci nemmeno questo pizzico di ironia, a dispetto di una Moltitudine che si fa forte del Arriaza-metonimiasuo «numero» per imporsi come la Maggioranza, e come tale, pretendere che tutti ci ammaliamo delle sue malattie? Che ognuno sia come i molti, i troppi vanno «salvificamente» dicendo in giro che dobbiamo essere?

Se le cose stanno all’incirca così – se siamo «storicamente» a questo punto del Discorso dell’Uomo, e se vi siamo tutti quanti intrappolati, tutti – uno per uno – a fare la parte del Lupo Incatenato al suo «io»… da che parte, urge la domanda, da che parte si esce da codesto terrificante Labirinto?
Si esce deverbalizzando? – come in qualche modo sembra suggerire Durandin: si esce uscendo dalla Parola, accusando la Parola di porre sempre e unicamente dei «falsi problemi»? e poi per andare a parare dove, se non contro il Muro dell’Innominabile?

Certo, la Realtà [primitiva, naturale] è, essa, l’Innominabile da cui, dal momento stesso che cominciammo a parlare simbolico, a parlare le parole della Tribù, ci trovammo – uno per uno, ciascuno col suo io – a essere dislocati, spostati, spiazzati – tagliati in due, distanti dal nostro Passato. E, di colpo, scaraventati in un Territorio Linguistico per giunta sconvolto e devastato da un certo Terremoto che ci fu in illo tempore.
Ma, obietta Lacan a Durandin, se questa Realtà [questa Natura] è al di là delle parole [della nostra Cultura] – non per questo è il caso di illudersi che basti «saltare» il Discorso e tutti i suoi «falsi» miti, tutti i pesi e tutte le misure delle sue scienze «equinoziali», per ritornare alla nostra vecchia casa «al solstizio» del mondo di Afrodite.

Se mai c’è una via d’uscita /ammesso e non concesso, perché qui è il punto/ essa ci chiede di percorrere, dice Lacan, fino in fondo i meandri della dialettica.
La dialettica, lo dice la parola, non è altro che il dialogare, il macchinare reciproco tra i partner di una relazione erotica. È Nessuno il signor Narciso, che macchina il suo mito in ogni congiunzione, in ogni sposalizio tra chi si dona e chi si riceve. È questo suo mito, è il mito e voglio aggiungere, perfino la libido, di questo Falsario che stampa le monete della dialettica dell’amor proprio, e che dalla sua zecca dirige il traffico dei nostri autentici desideri.

Muirgheilt-Pinocchio-pescecane

Falsi problemi per autentici desideri, è questo l’inghippo. È questo il nodo, e la soluzione più intelligente non è «rifiutarsi alla Parola» che li «falsifica», a gusto e secondo le paure e le angosce della Moltitudine – ma, come suggerisce Nietzsche ai «pochi» che ancora si aggirano tra le rovine dei propri desideri, la soluzione è semmai «chiedere la parola».
La soluzione è chiamare in causa la Parola, e il suo prestigio dialettico: è scendere nelle budella della sua dialettica, nelle viscere di Antero Vipunen, e laggiù trovare la forza di fare lo spiritoso. Mio caro Pinocchio, sei – come me – nella pancia del Pescecane. Non fare il bambino: non piangere, non rimpiangere. Su, facciamogli il solletico!