Nietzsche – Chiedere la parola

Il carattere demagogico e l’intenzione di influire sulle masse sono attualmente comuni a tutti i partiti politici: essi sono tutti costretti, per la detta intenzione, a trasformare in grandi stupidaggini-affresco i loro princìpi e a dipingerli così sulla parete.
A questo non c’è più rimedio, anzi è superfluo anche solo alzarvi un dito contro, giacché in questo campo vale ciò che dice Voltaire: quand la populace se mêle de raisonner, tout est perdu. Dal momento che questo è accaduto, bisogna adattarsi alle nuove condizioni, Magritte-meetingcome ci si adatta quando un terremoto ha sconvolto gli antichi confini e contorni della configurazione del suolo e ha cambiato il valore della proprietà.

Inoltre: se ormai ogni politica ha per scopo di rendere la vita tollerabile al maggior numero di uomini possibile, bisogna lasciare che essi determinino anche che cosa intendano per vita tollerabile; e se si attribuiscono l’intelligenza necessaria per trovare anche i mezzi adatti a questo scopo, a che gioverebbe dubitarne?
Essi vogliono una buona volta essere gli artefici della propria felicità e infelicità; e se questo sentimento dell’autodeterminazione, l’orgoglio per le cinque o sei idee che il loro cervello cova e porta alla luce, rende a essi effettivamente così piacevole la vita, da far loro sopportare di buon grado le fatali conseguenze della loro limitatezza; c’è poco da obiettare, a patto che questa limitatezza non giunga fino a pretendere che tutto debba in questo senso trasformarsi in politica, che ognuno debba vivere e operare in base a tale criterio.

Innanzitutto, cioè, deve essere più che mai permesso ad alcuni di astenersi dalla politica e di farsi un po’ in disparte: a ciò anch’essi sono spinti dal piacere dell’autodeterminazione; e un po’ di orgoglio può anche andar congiunto al fatto di tacere, quando troppi o in genere molti parlano.
Poi bisogna perdonare a questi pochi di non dare troppa importanza alla felicità dei molti, s’intendano con ciò popoli o strati di popolazione, e di permettersi qua e là un’espressione ironica; poiché la loro serietà risiede in altro, la loro felicità è un altro concetto, il loro fine non può essere abbracciato da ogni goffa mano che abbia appunto solo cinque dita.

Verrà infine – cosa che certo sarà loro difficilissimamente concessa, ma che comunque dovrà essere concessa – di tempo in tempo un momento in cui essi usciranno dal loro taciturno isolamento e riproveranno la forza dei loro polmoni: allora si chiameranno l’un l’altro come degli sperduti in un bosco, per farsi conoscere e per incoraggiarsi reciprocamente; nella quale occasione in verità si udranno molte cose che suoneranno male alle orecchie a cui non sono destinate.
Ma subito dopo il bosco ridiventerà silenzioso, così silenzioso che si percepirà di nuovo distintamente il ronzio, il brusio e lo svolazzare degli innumerevoli insetti che vivono dentro, sopra e sotto di esso.

(Nietzsche, Umano troppo umano, 1: 438)

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Dalì-cavallo

… quando sono in troppi, in molti a parlare – quando la Chiacchiera trionfa, e a darle voce sono le pance, gli intestini e i vermi solitari della Tribù – niente è più saggio che starsene un po’ in disparte, come consigliava la buonanima di Epicuro, e in disparte, dalla parte del proprio orgoglio, se è necessario, tacere: perché ogni parola detta a orecchie a cui non è destinata, immancabilmente si rivolgerà – come un serpente velenoso – contro quella invasata di Cassandra.
Cosa vuole? Troia è già caduta. E da un bel pezzo – visto che centotrenta anni fa, o giù di lì, l’inattuale Nietzsche già poteva descriverne, e con che precisione, le rovine.

Cos’è che vedeva, l’inattuale Veggente?
Vedeva i «nostri» partiti politici, anticipava i loro slogan, profetizzava le loro due o tre «cosucce» da cinguettare al mondo per la sua… salvezza!
Ma quale salvezza, se Troia era già caduta quando in extremis Cassandra provò invano a risparmiare ai suoi almeno la dabbenaggine di farsi male con le loro stesse mani?
Troppo tardi.

Anche Nietzsche è «in ritardo» sulla questione che pone. Tant’è che lui stesso non vede più una via d’uscita, se non nell’illusione di quel «momento» in cui – che so? dopo una guerra mondiale, per es. – i molti, i troppi ammutoliscono: alcuni per la vergogna, altri Wilson-vecchisolo per prendere tempo e rifarsi una maschera d’innocenza.
La questione è antica. Forse più antica del Neolitico. Essa irrompe nella storia con l’avvento dei Popoli, dei Grandi Clan, delle Nazioni e degli Imperi. La questione sorge con l’avvento della Moltitudine.

La Moltitudine da allora «parla» la lingua che la tiene assieme. Sapessi quante «differenze» deve sacrificare sull’altare di un unico e solo Nome Santo per tutta la Tribù!
La Parola della Moltitudine è… il nostro inconscio – è l’«ineffabile» che parla sotto la nostra lingua. Dice e non dice. Dice e proibisce. Mostra e occulta. Ammicca e interdice.
Altro che centotrenta anni fa – questa Parola, è da un bel po’ di millenni che è diventata una Macchina. È la Macchina che «parla» e «ripete» sempre quelle due o tre «cosucce» salvifiche. Lei ha, Lei sa – la Ricetta. E aggiusta a modo suo i guasti che provoca. Li aggiusta per le feste prossime venture che Lei sola, la Parola, promette spera e giura.

Così, la Parola dell’Es – la Chiacchiera della Moltitudine ci trascina, volenti o nolenti, nel destino impersonale dei suoi «si dice» e dei soliti «si fa così».
Come? non si vede che sono le Abitudini della Tribù? non si capisce che fu nella Terra di queste Abitudini che caddero le nostre celesti contemplazioni infantili?
E come ritrovarle quelle vecchie «idee», le nostre «vecchie armi», se il Fiume della Chiacchiera le ha coperte della ruggine dei suoi rumori?

C’è solo amaramente /ma anche: umanamente/ da compatirci e prendere atto che quella che parliamo è una Parola terremotata migliaia e migliaia d’anni fa.
Non abbiamo ereditato che qualche oscuro lemma del Verbo dei nostri remoti progenitori. Solo quei due o tre «geroglifici», di cui continuiamo a ignorare il senso. Eppure essi ci intrigano e ci eccitano a tal punto che non ci tratteniamo dal far parlare la nostra ignoranza.
È la Macchina che è fatta così. Accetta volentieri di non sapere di chi o di cosa parla, è fatta per macchinare i suoi «spero prometto e giuro» sulla bocca dei molti, dei troppi. E coi pochi, se è il caso, sa essere crudele.

Su, tirate via da parte – questa cretina di Cassandra. Chiudetele la bocca!
E appena la via è sgombra, diamoci da fare: prima del tramonto, il Cavallo dev’essere in città!