Rabelais – Pantagruele loda il consiglio dei muti

Terminate che furono queste chiacchiere, Pantagruele stette abbastanza a lungo in silenzio. Sembrava pensoso.
Poi disse a Panurge: «Lo spirito maligno vi seduce; ma ascoltate. Ho letto che in passato gli oracoli più veritieri e sicuri non erano quelli lasciati per iscritto o che si profferivano a parole: molte volte si sono ingannati, e proprio quelli stimati più fini e ingegnosi, sia a causa delle anfibologie, degli equivoci e delle oscurità delle parole, che per la brevità testa-di-basileadelle sentenze. E perciò Apollo, dio della vaticinazione fu soprannominato Loxías [l’Obliquo]. Quelli invece che erano esposti per mezzo di gesti e di segni furono stimati più veritieri e sicuri. Tale era l’opinione di Eraclito. E così vaticinava anche Giove Ammone; così profetizzava Apollo tra gli Assiri, e per questa ragione essi lo raffiguravano con una lunga barba, e nella veste di persona vecchia e di gran senno, e non nudo, giovane e senza barba, come invece facevano i Greci. Proviamo questo sistema e, con segni, senza parole, cercate consiglio da qualche muto».

«L’idea mi piace», rispose Panurge.
«Ma – soggiunse Pantagruele–, converrebbe che questo muto fosse sordo di nascita, e perciò muto di nascita. Poiché non c’è muto più schietto di quello che mai udì parola».
«Come l’intendete? – rispose Panurge. – Se fosse vero che l’uomo non parla se non ha udito parlare, vi condurrei per logica a inferire una proposizione ben strana e paradossale. Ma lasciamo perdere. Voi non credete dunque a ciò che scrive Erodoto di quei due fanciulli, tenuti separati dal mondo in una capanna per volontà di Psammetico, re d’Egitto, e allevati in perpetuo silenzio, i quali dopo un certo tempo pronunciarono la parola becus che in lingua frigia significa pane?».

«Affatto – rispose Pantagruele. – È un errore dire che esista un linguaggio naturale: le lingue si formano per istituzioni arbitrarie e per le convenzioni dei popoli: le parole, come dicono i Dialettici, non hanno un significato naturale, ma convenzionale, a piacere. E non ve lo dico senza ragione. Infatti Bartolo (lib. I, de Verbor. obligat.) racconta che, ai suoi tempi, fu in Gubbio un tale, chiamato messer Nello de Gabrielis, il quale era per accidente divenuto sordo; e ciò nonostante, solo alla vista dei gesti e al movimento delle labbra, intendeva qualunque italiano per quanto sommessamente parlasse. E ho letto inoltre, in un autore dotto ed elegante [Luciano, Dialogo della danza], che Tiridate, re d’Armenia, visitando Roma al tempo di Nerone, vi fu ricevuto con solennità, onori e pompe magnifiche, al fine di legarlo d’amicizia sempiterna al senato e al popolo romano; e non vi fu cosa memorabile della città che non gli fosse mostrata e spiegata.

roma-imperiale

«Quando fu per partire, l’imperatore lo colmò di doni grandi e senza misura; inoltre gli concesse facoltà di scegliere ciò che più gli piacesse di Roma, con promessa e giuramento di non negarglielo, qualunque cosa domandasse. E quello non domandò che un attore di farse che aveva visto recitare a teatro e, senza intendere le parole che diceva, lui aveva capito tutto egualmente, per mezzo dei suoi segni e gesti. Sotto il suo dominio, spiegava il re, vivevano popoli di lingue diverse, per parlare e rispondere ai quali gli erano necessari parecchi interpreti, ma che quell’attore lì sarebbe bastato da solo, poiché eccelleva talmente nell’arte di significare coi gesti, che sembrava che parlasse con le dita. Vi converrà pertanto scegliere un muto che sia sordo dalla nascita, affinché i suoi gesti e segni vi siano ingenuamente profetici, non finti, artificiosi o affettati. E resta infine da sapere se voi volete prendere tale responso da un uomo o da una donna».

«Lo prenderei volentieri da una donna, – rispose Panurge –, se non temessi due cose. La prima è questa: che le donne, qualunque cosa vedano, si figurano nello spirito, pensano, immaginano che sia l’entrata del sacro Itifallo. Qualunque segno o gesto che si faccia, o contegno che si assuma alla loro vista o presenza, esse li interpretano e riferiscono all’atto movente di quel tale giochetto. E quindi ci svieremmo in un equivoco, riccardi-sirenapoiché la donna penserebbe che tutti i nostri segni siano segni venerei. Ricordatevi di ciò che avvenne a Roma duecentosettant’anni dopo la fondazione della città: un giovane nobile romano, incontrando sul monte Celio una dama latina, di nome Verona, muta e sorda di nascita, le domandò, con gesticolazioni italiche, ignorandone la sordità, se avesse incontrato dei senatori lungo la salita. Non intendendo ella ciò che egli diceva, immaginò si trattasse di ciò che lei pensava, che fosse insomma ciò che un giovane naturalmente domanda a una donna. E così, con segni (i quali in amore sono incomparabilmente più attrattivi, efficaci e validi delle parole), lo trasse in disparte a casa sua e gli fece segno che il giochetto le andava a genio, e insomma senza dire una sola parola, fecero un bel fracasso de culletis.

«La seconda cosa che temo è questa: che esse non diano ai segni nostri risposta alcuna, ma subito si lascerebbero cadere all’indietro, come realmente consenzienti alle nostre tacite domande. O che, se pur facessero segni in risposta alle nostre proposizioni, sarebbero così pazzi e strambi e ridicoli, che noi stessi stimeremmo i loro pensieri essere venerei. Voi ben sapete la storia della monaca suor Naticuta quando, a Brignoles, fu ingravidata dal giovine questuante don Durolometro. Appena si palesò la gravidanza, chiamata dalla madre badessa in capitolo e accusata d’incesto, lei si scusava allegando che il fatto non era avvenuto col suo consenso, bensì per violenza e forza subita da suddetto frate.

«E la badessa, replicando, e dicendole: “Cattiva! eri nel dormitorio, e perché non gridasti aiuto? Saremmo tutte corse a difenderti”, lei rispose che non aveva osato gridare in dormitorio, perché nel dormitorio è obbligo serbare silenzio perpetuo. “Ma, ribatté la badessa, cattivaccia che sei, perché non facesti segno alle tue vicine di camera?”. Al che suor Naticuta rispose: “Sì, io facevo loro segno col culo più che potevo, ma nessuno mi venne in soccorso”. “Ma, cattivaccia, replicò la badessa, perché non sei venuta subito a monaco-suora-libidodirmelo e ad accusarlo secondo la regola? Così avrei fatto io per dimostrare la mia innocenza, se simile caso fosse accaduto a me”. “Perché, rispose la Naticuta, temendo di restare in peccato e stato di dannazione, per paura d’esser colta da subita morte, mi confessai subito al frate prima che lasciasse la camera, e lui mi diede in penitenza di non dirlo né svelarlo ad alcuno. E sarebbe stato un peccato troppo enorme rivelare il segreto della confessione e troppo esecrabile davanti a Dio e agli angeli. Poteva forse esser causa che il fuoco del cielo ardesse tutta l’abbazia e che noi tutte cadessimo nell’abisso insieme con Dathan e Abiron”».

«Non mi fate mica ridere con questa storia – disse Pantagruele. – So anche troppo bene che tutta la monacheria ha meno paura di trasgredire i comandamenti di Dio che non i loro statuti provinciali. Prendete dunque un uomo. Nasodicapra mi sembra idoneo. È muto e sordo dalla nascita».

(Rabelais, Gargantua e Pantagruele, 3: 19)

***

Il nostro caro Dottor Sottile, al secolo Rabelais, ha da dire, a modo suo s’intende, qualcosa anche lui a proposito dei tre tempi della Ripetizione. Forse non ci pensava nemmeno a questa «roba» da sapienti. Forse aveva in mente tutt’altro, ma chi lo può dire?

Ricapitoliamo la sua messinscena.
Primo tempo: si va a consultare la Sibilla (si raccoglie un messaggio «gettato al vento» del Discorso, una frase che dice e non dice, una «mezza parola», una «parola tronca», direbbe Freud).
Secondo tempo: si prende quella «mezza parola», si pesa, s’incarta e si porta a casa (nella Casa dei Sogni che è il luogo ermeneutico per eccellenza, e là si prova a interpretarla, a estrarne un «senso», qualcosa come un sì o un no con cui nutrire le aspirazioni «nuziali» del proprio desiderio).
Terzo tempo: (preso atto che le parole dell’interpretazione, le «parole del Sogno», sono altrettanto e forse più ambigue ancora di quelle dello spezzone di «messaggio» raccolto, e Sicioldr-sibillache un sì o un no detto a «parole» è di natura fatto in modo che può sempre essere letto anche all’incontrario, un Tutto per es. come il Nulla della trimetilamina) ci si rivolge allora al linguaggio muto, si regredisce (Freud ne sa qualcosa) alla lingua dei segni, alla lingua di chi non ha mai udito né proferito parola.

E così, non si fa che ritornare… all’«antico». Passando per le parole, gira e rigira, non si fa che ripetere più o meno comicamente il proprio «balbettio d’infante». Fine della terza cantica. Linguaggio muto, lingua di paradiso. Riconciliazione con la propria imago narcisistica eterna – come dicono alcuni? o rassegnato abbandono all’evidenza della propria nullità originaria – come credono altri?
Ripetizione dell’«antico» stupore, in ogni caso.

Magari, Rabelais era ben lungi dal pensare a tutto questo. Ma in quanto a stupore, se pure la sua via per ripeterlo è, a prima vista, orientata a un banale matrimonio popolare, e non come nel caso di un Dante a riconquistare le posizioni perdute nell’empireo della propria mente infantile, rimane comunque il fatto che, come tutte le vie del Racconto – come tutti i sentieri che il Racconto ha battuto e ribattuto mille volte –, è pur essa necessariamente scandita in tre tempi. C’è poco da fare. È la Macchina della Ripetizione che lo pretende.

Prelievo. Stacco. Riattacco.
Prelievo di un pezzo di «realtà». Rifugio nella propria tana, nel distacco dalla «realtà», nel mondo del Possibile – dell’Immaginale più «esogamico», quello più «proibito» alla Tribù. E (tentato) reinserimento di questo «surreale» in un «corpo» di quel Reale – che è il Solito, l’«endogamico» riconosciuto dalla Tribù.

Anche Panurge deve passare per queste tre strade, se vuole giungere a celebrare le sue (agognate) «nozze».
Ci riuscirà, non ci riuscirà… a stupirsi? a ricomporre portando insieme all’altare le due «metà» del suo desiderio: mezzo reale, e mezzo immaginale?
Questo è ancora da vedere. Ma per l’intanto è fin troppo evidente su quale via lo stia incamminando il nostro amato Dottor Sottile – sulla via che va al di là delle parole. Sulla via che lo riconduca al di là delle Simplegadi, al di là della soglia del «dire» simbolico.

Rabelais-Pantagruele

Ed è qui, proprio su questo punto, che Rabelais ci stupisce per la «profondità» che dimostra in materia di «linguistica»!
Al di là della parola, dice, ci sono due mondi gestuali, due paesi mimici: uno è quello «femminile», ovvero il mondo i cui segni sono tutti «venerei», o in ogni caso tutti univocamente orientati ai «solstizi» di Afrodite. Tutti dunque interpretabili unicamente come rimandi che preludono al consumo diretto e immediato di quel certo non so quale «giochetto» Innominabile. Nella donna, il gesto, il segno «s’è fatto carne», è natura.

E c’è poi quest’altro mondo di segni e di gesti – il mondo mimico «maschile», il mondo fiutato da un qualunque Nasodicapra, che, a differenza di quello «femminile», è ambiguamente orientato all’«equinozio», allo sposalizio del Giorno e della Notte, alle «congiunzioni» di reale e immaginale, e dunque: a quel nuovo «orizzonte» che non la Notte apre, ma il Figlio della Notte – né Afrodite, ma il Figlio di Afrodite (in entrambi i casi: Eros-Cupido). Nel maschio, il gesto, il segno «s’è fatto simbolo», è cultura.