Quando Coyote, il demiurgo, viveva sulla terra, gli saltò in mente di andare a trovare il sole. Si recò a oriente, dove spunta il sole, e poté così assistere al sorgere dell’astro, che era un uomo magnificamente vestito.
La notte seguente, Coyote creò per magia un abito del tutto identico al suo, e precedette Sole sulla strada che gli aveva visto prendere il giorno prima. Arrivato allo zenit, dove Sole si riposa per fumare la pipa, Coyote si fermò ad aspettarlo.
Poco dopo sopraggiunse l’astro, incuriosito per le impronte che aveva notato lungo la strada. Alla vista del demiurgo si indignò, e gli chiese bruscamente cosa facesse lì.
Coyote spiegò che veniva dalle viscere della terra, dove anch’egli aveva la funzione di astro splendente di luce; aveva saputo che Sole era il suo collega del mondo superiore e voleva conoscerlo e chiacchierare con lui.
Sole rispose che era sempre stato per conto proprio e che poteva benissimo fare a meno di amici. Gettò Coyote giù dal cielo, dopo averlo bastonato ben bene.
Coyote fece una caduta vertiginosa e svenne. Quando riprese coscienza, era notte fonda. Chiese alla terra dove si trovava e la terra glielo disse.
Strisciando o trascinandosi a fatica, Coyote, tutto ammaccato, si diresse verso una fonte; per strada incontrò i carcajou, che celebravano una cerimonia. Il demiurgo li conosceva, cosicché quelli gli fecero buona accoglienza e gli prodigarono le cure necessarie.
Quando si fu ristabilito, Coyote sollecitò l’aiuto dei carcajou per vendicarsi. Essi gli consigliarono di armarsi di una clava di frassino, di un laccio di fibre vegetali e di un pioppo ridotto alle dimensioni di un filo d’erba.
Poi Coyote e un carcajou chiamato «Laccio Nero» si appostarono allo zenit, non senza aver attaccato il laccio al filo d’erba e sistemato la trappola nel punto in cui Sole sarebbe andato a riposarsi.
Questi arrivò tutto infuriato, perché aveva trovato di nuovo le impronte. Ma il laccio lo imprigionò, l’erba ridiventò un albero e Sole si trovò sospeso per aria. Coyote lo colpì con la clava, ma i suoi protettori avevano avuto l’accortezza di sceglierla di legno fragile, in modo che si rompesse senza causare troppo danno.
Allora Coyote legò le gambe e le braccia di Sole e se lo caricò sulle spalle per portarlo nella capanna dei carcajou. Qui Sole venne liberato, fu invitato a sedersi e gli venne rimproverato il suo cattivo comportamento verso un visitatore che voleva essergli amico. I canti e le danze dei carcajou piacquero a Sole, che decise di approfittare della loro ospitalità.
Luna intanto, preoccupato per la scomparsa del fratello, andò a cercarlo. Scoprì per caso la capanna nella quale si trovava l’astro, seduto vicino alla porta. Luna fu fatto entrare, gli fu offerto da mangiare e gli fu spiegato perché Sole si trovasse lì.
Egli rimproverò il colpevole, ma insistette presso il capo dei carcajou per cedere a Sole il posto d’onore, e per mettersi lui vicino alla porta, perché – spiegò – l’astro del giorno era orgoglioso e non bisognava umiliarlo.
Aggiunse poi che, prima di partire, entrambi avrebbero lasciato dei simboli che li avrebbero sostituiti. Questi simboli si trovano ancora nella capanna dei cacciatori d’aquile: due lacci attaccati alla parete, nel lato di fronte alla porta per il Sole, proprio sopra alla porta per la Luna. E, a ricordo di questa storia, talvolta i cacciatori assumono nell’accampamento le sembianze di Sole e di Luna.
I due fratelli se la passavano così bene nella dimora dei carcajou che si fecero sostituire in cielo alla fine della stagione della caccia. Promisero a Coyote di ritornare l’anno dopo, quando le foglie avessero cominciato a ingiallire. Poi la compagnia si sciolse; gli animali cacciatori di aquile tornarono a casa, Sole e Luna si rimisero al lavoro per illuminare il cielo, e Coyote continuò il suo girovagare.
Un giorno, mentre si riposava e pensava con nostalgia all’epoca felice della caccia alle aquile, notò su di una pianta rampicante una foglia che gli parve ingiallita.
Non comprendendo che quello era il colore naturale della foglia, saltò in piedi e corse, cantando di gioia, fino all’accampamento: non c’era nessuno.
Una pianta magica gli disse: «Il momento non è ancora venuto».
Deluso, Coyote partì.
***
Anzitutto va ricordato il punto di vista geografico: i Mandan e gli Hidatsa cacciavano le aquile soltanto lungo il corso superiore dei fiumi, nelle regioni accidentate che formavano una piccola parte del territorio tribale.
Nel pensiero e nella topografia indigeni, queste contrade occupavano un posto intermedio fra i villaggi semipermanenti, a breve distanza dai campi coltivati, e le pianure in cui, durante il periodo nomade, si svolgevano le grandi cacce al bisonte.
Ma il genere di vita che richiedeva la caccia alle aquile non era propriamente né nomade né sedentario. La spedizione si spingeva talvolta a più di cento chilometri dal villaggio, per giungere sempre in qualche luogo di caccia di cui era proprietario il capogruppo in virtù di un titolo che poteva essere trasmesso all’interno del clan.
D’altra parte, le donne e i bambini potevano accompagnare i cacciatori, a patto di avere un accampamento separato.
In terzo luogo, a differenza dell’agricoltura e della caccia nomade, la caccia alle aquile non presentava un interesse alimentare.
Soffocati in modo rituale o liberati dopo la cattura, gli uccelli fornivano soltanto le penne, destinate alla confezione dei copricapo o di altri articoli di vestiario, e agli scambi commerciali.
Si approfittava dell’occasione per cacciare ogni specie di selvaggina in quei terreni poco battuti. Ma l’intera popolazione di un villaggio non avrebbe potuto dedicarsi alla caccia collettiva, in una regione accidentata in cui i bisonti non penetravano in gran numero e dove sarebbe stato difficile accerchiarli; inoltre, si temeva sempre qualche imboscata. Così, soltanto i cacciatori d’aquile e i guerrieri si avventuravano fin laggiù.
Dato che la caccia si svolgeva in contrade deserte e inospitali, poteva capitare di incontrare all’improvviso i tradizionali nemici. Ma la caccia occupava un posto intermedio anche dal punto di vista politico: in questo caso, fra l’alleanza e la guerra.
Benché i Cheyenne e i Mandan fossero nemici, una tacita convenzione faceva sì che non si verificasse spargimento di sangue fra le due tribù durante tutta la stagione della caccia alle aquile; altrimenti, i cacciatori non avrebbero avuto fortuna… Ci si faceva visita da un accampamento all’altro, e i due gruppi si scambiavano bonari motteggi sulla potenza magica dei rispettivi altari.
Un patto dello stesso genere sarebbe esistito anche fra gli Arikara e i Sioux.
Infine, la caccia alle aquile occupava un posto intermedio nel calendario. Si svolgeva in autunno, cioè dopo le grandi cacce estive e la raccolta delle messi, ma prima dei rigori invernali che costringevano gli Indiani ad abbandonare il villaggio estivo, costruito sopra una terrazza sovrastante il fiume, e a stabilirsi per l’inverno in fondo a una valle boscosa.
Era assolutamente necessario interrompere la caccia alle aquile appena cominciava a formarsi il ghiaccio lungo le rive; infatti, prima dell’introduzione del cavallo, gli Indiani viaggiavano a piedi fino al luogo di caccia, e qui venivano fabbricate le imbarcazioni che servivano a discendere per via d’acqua fino al villaggio, con le provviste di carne e di pelli. Se il freddo si faceva troppo intenso, c’era il rischio d’essere sorpresi dalle gelate del fiume.
La caccia alle aquile, dunque, operava una mediazione in cinque modi diversi: nello spazio, nel tempo, e sotto il triplice aspetto del genere di vita, dell’attività economica e dei conflitti fra tribù.
Per la durata di alcune settimane, essa permetteva ai partecipanti di condurre un’esistenza a distanza ragionevole dal vicino e dal lontano, dall’estate e dall’inverno, dalla sedentarietà e dal nomadismo, dal conseguimento di fini materiali o spirituali, dalla pace e dalla guerra.
Viaggio dal ritmo periodico e con destinazione sicura, la spedizione di caccia, come la navigazione delle tribù fluviali, era adatta per codificare l’alternanza regolare dei giorni e delle stagioni.
In quanto ai carcajou, animali di terra, essi si oppongono alle aquile, uccelli del cielo empireo, allo stesso modo, seppure con minore ampiezza, in cui si oppongono fra loro il sole, astro celeste, e Coyote – chiamato anche «primo creatore» –, il quale sostiene di avere la funzione di astro del mondo sotterraneo.
All’inizio del nostro mito, la mediazione fra i due termini estremi si rivela impossibile: Coyote non può prendere il posto del sole né associarsi a lui.
In un secondo momento riesce a rimanere sulla terra grazie all’aiuto dei carcajou, signori delle trappole scavate proprio sotto il livello del terreno.
Infine, in un terzo momento, Coyote e i carcajou riescono insieme a strappare il sole dallo zenit e ad avvicinarlo al basso. Ma, per riuscirci, lo devono trattare come se fosse un’aquila, mentre lo stesso Coyote si comporta come un cacciatore di aquile, ossia come se fosse un carcajou.
All’interno di questa problematica, il laccio acquista una duplice funzione. Da una parte, esso serve da termine mediatore fra l’alto e il basso; dall’altra supera una contraddizione cosmologica.
L’antitesi rappresentata all’inizio dai personaggi Coyote e Sole si trasforma in rapporto di compatibilità sul piano tecnico-economico e su quello temporale: finché dura la caccia alle aquile, e grazie a essa, non c’è più niente di impossibile, i contrari possono coesistere.
Ma questa prima affermazione non è lo scopo principale del mito.
Fissando a titolo di assioma che la caccia alle aquile ha il potere di eliminare tutte le contraddizioni, anche la più profonda che la mente arrivi a concepire, essa prepara il terreno per l’espletamento di un compito più importante, che si situa sull’asse temporale.

Come nella danza del sole il legame tra alto e basso si stabiliva tramite il palo centrale del chiosco, simbolo dell’ascensione in cielo della femmina umana – così, anche i riti della caccia alle aquile fanno uso di tronchi, ma orizzontali e stesi per terra anziché eretti e verticali.
Nel rifugio di frasche costruito dai cacciatori, si notavano due tronchi, disposti parallelamente ai due lati del focolare, che servivano da capezzale ai cacciatori stessi quando si stendevano per dormire, coi piedi rivolti verso la parete.
Al momento di disporre questi tronchi, si invocavano i serpenti, dei quali essi costituivano un simbolo, a meno che rappresentassero il capezzale di quei serpenti cacciatori di aquile contro i quali combatté il figlio dell’astro nel corso delle sue peregrinazioni.
Come si vede, la liturgia della caccia alle aquile evoca una scena terrestre del mito, e non una scena celeste, e la raffigura per mezzo di tronchi stesi [in orizzontale] al posto del tronco eretto [in verticale].
L’analogia risalta ancora meglio quando si consideri che il focolare della capanna di caccia, scavato nel suolo, rappresenta la fossa-trappola. Infatti, l’altare della danza del sole comprende anche una fossa che raffigura, secondo certe testimonianze, la buca prodotta dalla sposa dell’astro nel cadere; cioè, in questo caso, il mezzo di una disgiunzione cielo/terra, e, nell’altro caso, di una congiunzione terra/cielo.
La sistemazione dei due lacci di fibre, di cui parla il mito, rispetta anch’essa l’asse orizzontale; uno, associato alla verga d’oro e attaccato dalla parte opposta alla porta, simboleggiava il sole; l’altro, associato all’artemisia e attaccato vicino alla porta, simboleggiava la luna.
Un bastoncino dipinto di rosso reggeva ciascun laccio e raffigurava l’astro corrispondente, di modo che il sole e la luna si trovavano fisicamente presenti nella capanna di caccia, rotonda come un’imbarcazione di cuoio, ma nella quale essi stavano in posizione opposta, come nella piroga.
Abbiamo detto che la stagione della caccia alle aquile durava dall’inizio dell’autunno fino al primo gelo. Essa comprendeva dunque l’equinozio, che il mito richiama in due diversi modi, cioè mettendo il sole e la luna in opposizione diametrale e scambiando i loro rispettivi posti.
Si ricorderà che i carcajou dapprima fanno sedere Sole vicino alla porta, in quello che è il posto meno degno, e che egli rimane lì finché Luna, invitato a sedersi al posto d’onore, vi rinunzia a favore del fratello.
Per far sì che i posti sino intercambiabili, è dunque necessario che, nel momento in cui si svolge l’azione, la notte sia «uguale» al giorno.
Così, il mito aggiunge un nuovo tipo di mediazione a quelli che abbiamo enumerato per situare la caccia alle aquile nella filosofia indigena:
1) | pianure, nomadismo | «terre cattive» | terre abitate |
2) | caccia alimentare | caccia rituale | agricoltura |
3) | cibo animale | ornamenti | cibo vegetale |
4) | pace | tregua | guerra |
5) | villaggio estivo | rifugio per la caccia | accampamenti invernali |
Ora, il mito propone:
6) | solstizio d’estate | equinozio d’autunno | solstizio d’inverno |
cioè tre termini che connotano il prevalere del giorno, la notte uguale al giorno e il prevalere della notte.
In questa funzione «equinoziale» la capanna di caccia svolge la funzione di variante terrestre della piroga acquatica: ciò risulta evidente anche dall’affinità fra i grandi temi mitici dei Mandan e quelli dei loro vicini Algonchini e di altre popolazioni stanziate più a oriente.
Fra queste ultime ritroviamo il tema dell’invenzione delle incisioni rupestri da parte degli eroi culturali, tema che è apparso in un mito dei Tamanac dell’Orinoco, e che abbiamo interpretato nel senso di un duplice trasferimento (dall’acqua alla terra e dall’ordine diacronico all’ordine sincronico) del campione scelto per fissare una distanza ragionevole fra il sole e la luna, e perciò fra il giorno e la notte.
Ma quando i dioscuri Tamanac si sforzano di dare ai fiumi una duplice direzione (tema, questo, documentato anche in Nordamerica), non cercano forse di sostituire a una situazione di tipo solstiziale, in cui il viaggio di andata e quello di ritorno sono di diversa durata come il giorno e la notte, un’altra situazione, di tipo equinoziale, in cui i due tragitti abbiano esattamente la stessa durata?
Se l’equinozio rappresenta per gli eroi culturali una formula ideale che essi si sforzano invano di generalizzare, possiamo scrivere a titolo di ipotesi:
solstizio : equinozio : : natura : cultura
Questa equivalenza getta una nuova luce sul problema che riguarda l’instabilità del sesso degli astri, non solo da una popolazione all’altra, ma anche nei riti e nei miti di una stessa popolazione.
Secondo il mito Arapaho che fonda la danza del sole, l’educazione delle fanciulle si basa su un apprendimento della periodicità fisiologica. Questa periodicità può essere irregolare: troppo lunga o troppo breve, come il solstizio; oppure regolare, e dunque perfetta, cioè di tipo equinoziale.
Secondo l’equivalenza precedente, la prima rimanda alla natura, la seconda alla cultura; il mito dice la stessa cosa a suo modo.
D’altra parte, se questa educazione riguarda donne terrestri, alle quali essa viene impartita da uomini celesti, ne risulta che il mito afferma in maniera implicita una triplice equivalenza fra: terra, natura, femminilità, e: cielo, cultura, mascolinità. Fin qui tutto procede bene.
Ci aspetta però una difficoltà: il compito di incarnare questa periodicità perfetta e regolare, che alcune divinità maschili debbono inculcare a donne mortali, spetta in definitiva proprio a queste donne.
Come la radice magica, che si trasferisce dalla bocca del nonno a quella della nipote durante il coito rituale, la cultura passa, nel corso del mito, dal suocero alla nuora; inoltre, questa trasmissione riguarda il modo in cui d’ora in poi si manifesterà la cultura. Quello che l’uomo le ha insegnato come una lezione, la donna lo vivrà nel dispiegamento delle sue funzioni fisiologiche. Il primo culturalizza, se così possiamo dire, ciò che prima era soltanto natura: la seconda naturalizza ciò che era soltanto cultura.
Passando dall’uomo alla donna il verbo si è fatto carne: dimostrazione, questa, che la rana del mito introduce a contrario, perché, essendo lei stessa natura nel modo più ributtante, essa femminilizza Luna quando gli rimane attaccata.
Ma, dall’unione di un essere maschile ed equinoziale (non dimentichiamo, infatti, che il matrimonio degli astri viene celebrato durante l’equinozio) e di un essere femminile totalmente aperiodico (a causa dell’incontinenza di orina da cui è afflitta la rana), risulteranno le mestruazioni, modalità biologica della periodicità.
Di conseguenza, secondo la prospettiva in cui ci si pone e il momento del mito che si considera, i poli natura/cultura si ribaltano, acquistando cariche semantiche opposte.
Dal punto di vista biologico, l’uomo è aperiodico e la donna periodica, ma, dal punto di vista cosmologico, avviene il contrario, dal momento che dei demiurghi maschili detengono in questo le regole – in tutti i sensi del termine – che essi imprimeranno nel corpo e nella mente delle loro graziose discepole.
Il pensiero mitico è un po’ come la fisica, che ha utilizzato a lungo, per spiegare la natura della luce, due teorie distinte, entrambe soddisfacenti purché non fossero adottate contemporaneamente; esso si serve infatti di una struttura che è possibile leggere in due modi diversi.
Da un mito all’altro, e talvolta da un passo all’altro dello stesso mito, questo pensiero si riserva il diritto di capovolgerne il senso.
(Lévi-Strauss, Le origini delle buone maniere a tavola)