Narciso è il terminus ad quem di un viaggio

Due serie, dice Deleuze – due serie, complementari e distinte, di oggetti (di desiderio) reali e virtuali… il desiderio preleva un brandello di oggetto reale e ne fa un suo proprio oggetto virtualeAlice preleva di qua dallo specchio un pezzo degli scacchi, per farne la narciso-specchiatoRegina Rossa che regna nell’altro mondo, nel mondo che è dall’altra parte dello specchio – il Paese delle (sue) meraviglie…
Tutto questo, dice sempre Deleuze, è il preludio al narcisismo. Dice che Narciso è il terminus ad quem di un viaggio, andata e ritorno, dalla Realtà all’Immaginazione. Andata e ritorno – stacco e riattacco di quel frantumo di desiderio che è sempre così difficile da maneggiare: perché, ahimé, è sempre un «oggetto parziale», e ha sempre un piede di qua, e un altro di là nell’essere.
È assurdo? Eppure è così: «è» solo se «manca» di una metà di se stesso, e solo se è là dove non deve essere!

Stremato dal lungo viaggio, forse è così che dobbiamo immaginarlo – Narciso alla fine s’arrende. Narciso, frustrato da più e più fallimenti, si riduce a contemplare solo la sua immagine, solo cioè quel riflesso del velo che gli restituisce la sua stessa forma – quando, disperato, prende atto che l’«identità» dell’oggetto desiderato è andata dispersa nel «viaggio», anzi che quel suo oggetto è nato sdoppiato, è di natura doppio, e che al mondo non c’è altra «metà» che possa pareggiare la sua disparità, nessun’altra che… la sua stessa immagine (nubile) allo specchio!
Narciso si convince che, sì, ci sono in giro nel mondo frammenti che vanno a genio del suo desiderio – ma, insieme, che il solo puzzle che può unificarli è lui stesso. Narciso, dunque, è a un passo dal suo «io». Ancora un poco e, in mancanza di alternative, si darà tutto a lui.

Narciso che contempla la sua sola immagine – è perciò l’ultima stazione sulla via crucis della metamorfosi di un «animale contemplativo» nella forma «presente» di un uomo: l’unica che ha la potenza e il prestigio di stupirlo al punto da arrestare le peripezie (a vanvera) della sua macchina immaginale, e di farlo scendere dalle Nuvole del Passato – dell’Oblio e della Spensieratezza – per provare ad acciuffare quella «mezza idea» fatta di terra, e non di solo spirito contemplativo.

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Per amore della terra – poiché, come riconosce Zarathustra perfino dalle vette della sua profezia, egli è un «amante della terra», o forse perché lassù, come raccontano i Crow e gli Hidatsa, uno storno l’ha «stornato» dalla sua origine celeste, facendogli venire «nostalgia della terra» – quel certo animale là, quell’essere «contemplativo» finisce che si «umanizza». Quel Passato là – finisce per darsi a un Presente che, bene o male, lo rappresenti.

Anche il mito di Monmaneki è la storia di un analogo viaggio alla volta del narcisismo. Anche lui s’avventura dall’altra parte dello specchio – per celebrarvi le sue nozze «esogamiche»: ed eccolo, raccatta per strada (prende cioè dal Solito cammino che, per abitudine, fa tutti i giorni) un certo «che» d’insolito, una differenza, un minimo dettaglio che ha «sottratto» a una rana, un uccello, un verme, o un pappagallo, e se lo «sposa»: uno per uno, li «sposa» tutt’e quattro al suo desiderio – che poi è lo stesso desiderio di Alice, e cioè di avere un compagno di giochi, un Frufrù qualsiasi, in modo da essere l’uno macchina della macchina dei desideri dell’altro.

Non ci vuole un grande sforzo per incrociare i due racconti: prova a leggere «virtuali» o «immaginali» dove l’antropologo scrive «esogamiche», e vedrai che i conti tornano: il quinto e ultimo «matrimonio» di Monmaneki, quello «endogamico», non è che il sposa-immaginaleterminus ad quem d’un viaggio, andata e ritorno, nel Paese delle Meraviglie, nel Reame che è fuori di casa, al di là del Solito, là, dietro lo specchio quotidiano.

Quando Monmaneki dall’Insolito rientra nel Solito – quando dal virtuale fa ritorno al reale, per «incorporarvi» il suo oggetto immaginale –, eccolo alle prese con lo stesso dilemma che affligge il nostro Narciso. L’epilogo della storia Tukuna non è meno tormentoso di quello che ci narra Ovidio. Se da un lato, infatti, Narciso s’imbatte nell’impotenza a «incorporare» nella sua carne il doppio immaginale che lo riguarda dallo specchio delle sue brame, dall’altro è la quinta e ultima «sposa» di Monmaneki a sdoppiarsi, e così divisa all’altezza della vita, ad attaccarsi al corpo dell’eroe Tukuna solo con la metà superiore. Come a dire che solo la sua metà immaginale gli resta «fedele», se è lecito parlare di «fedeltà» a proposito di un’ossessione. E solo se si affranca da questa Immagine che gli si è appiccicata addosso, solo a questa condizione Monmaneki «guarisce» e torna alla… realtà – al Solito, al trantran domestico, agli usi e ai costumi, al Linguaggio Simbolico e alla Morale della Tribù.

Lo so. Alice non è Narciso, e Narciso non è Monmaneki. Il loro racconto non è lo stesso… e tuttavia tutt’e tre raccontano di uno stesso (lungo) viaggio – di una più o meno gaia peregrinazione tra due «mondi» /l’uno dentro, e l’altro fuori dal Mondo/ ciascuno dei quali è mancante dell’altro.
Lo stesso Racconto è destinato per sempre a mancare di quella realtà a cui pure continuamente attinge le sue rappresentazioni. Non può mai realizzarsi, se non a frammenti di miraggio e a momenti di stupore. La sua «identità», la sua Forma Compiuta e Perfetta, se mai è stata, è andata dispersa nel corso del viaggio.

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Capisci? Il Racconto, non puoi ritrovarlo se non a brandelli. Ti dice niente il corpo di Orfeo? un pezzo andò di qua, un altro di là…
Il Racconto è nato «doppio»: un solo Passato senza racconto ha preso due vie. Che strano! – dice Alice. – Vanno tutt’e due nella stessa direzione, ma una si chiama Presente e l’altra Futuro. È strano davvero!
Il Racconto «preleva» il suo materiale dal «reale», il Presente e il Futuro si nutrono di uno stesso Passato, di un «innominabile» Reale Primitivo, a cui non potranno mai restituirsi se non parzialmente, e in via del tutto eccezionale, là dove se e quando vengono a mancare a stessi.

Là dove, per es., il Racconto si tradisce e ogni sua rappresentazione presente e futura non fa che «spiegare» quello che cerca di «nascondere»: la propria nullità, la propria vacanza d’essere, la propria domanda d’essere, destinata a rimanere sempre inevasa a metà.
Non c’è una forma originale, piena, unica e universale, del Racconto. All’origine di ogni sua narrazione c’è una relazione tra due «serie di oggetti», che si mancano a vicenda, e c’è il Nome di quella relazione, c’è il geroglifico di quella «coppia» eternamente divisa – brown-vanità-narcisoreale e immaginale – i cui partner o antagonisti non fanno che amarsi e odiarsi senza nessuna ragione.

Quel che le varianti del Racconto di volta in volta narrano, è questo o quel «virtuale», questo o quel frammento «possibile» che era solo latente, ma già all’opera, nel geroglifico antico di quella Relazione… tra due metà insignificanti, Tuidledum e Tuidledì… ninnananna ninnaooooohhh.
In Cina dicono che il Mondo da sempre è diviso e per sempre lo sarà tra il Mandriano e la Tessitrice. Dicono che si sono bisticciati in un Remoto Passato. Le loro vie essendosi da allora disgiunte, costringono il Racconto a ricorrere, anche in Cina, al trucco che gli insetti consigliano ad Alice: su, prova a fare un «bisticcio di parole», se vuoi venire a capo non del Mandriano, né della Tessitrice, ma del «tra», che è il Significante realmente all’opera tra Narciso e la sua Sposa Immaginale.