Il «fondamento» esistenziale – la pietra d’angolo della nostra costituzione «umana», lo dice espressamente il Mito antico e lo ripete modernamente il filosofo Deleuze, cade dall’alto, piove «provvidenziale» da quell’enigmatico «lassù» contemplativo, in cui Platone non avrebbe esitato a riconoscere il suo «Mondo delle Idee».
Cade dai cieli di Madonna Intelligenza, dai cieli cioè di Afrodite, sulla Terra delle Abitudini, degli Usi e dei Costumi, dei Riti e dei Miti – di una Tribù. La Testa del Veggente «paralitico», eccola allora che rotola per terra, e deambula alla maniera d’un «ubriaco» sulla via di Polifemo – di molte «chiacchiere» lastricata, postilla Parmenide.
Là dove cade l’Occhio del Contemplante, là dove «atterra», là dove la prima eccitazione lo «lega» a un «oggetto» reale – a un oggetto, cioè, abitualmente riconosciuto come cosa reale dalla Parola della sua Tribù – là inizia a scavarsi il primo «solco» nella sua Memoria. Habitus e Mnemosine «si sposano» là – in quel «posto del Racconto», in quel «dove» dell’Es, in quel «riflesso del Velo» che l’ha «eccitato» ad assumere una posizione «eretta» per andare a «svelare» ciò che esso non lascia (ancora) trasparire.
Si dice topica dell’Es, perché l’«io» (già nella sua originaria forma di io passivo) non è che una «posizione» assegnata a un mobile nel Discorso della Tribù.
E si dice caccia al tesoro, il suo movente pazzesco: quello che lo spinge a deambulare nella disperazione di non sapere dov’è tuttora quel «là» dove il suo Occhio «cadde» allora – e dunque: di non poter rivedere che ciò che ha perduto di vista. Di non poter ritrovare, dice Deleuze, altro che il (paradiso) perduto. Di non poter riconoscere nelle cose reali, aveva detto Platone, altro che l’Idea (virtuale) dimenticata.
E si dice narcisismo, questo suo essersi fissato d’un tratto a contemplare una di queste cose reali, la perla del tesoro, ossia l’oggetto che gli è sembrato riempire il Vuoto aperto dall’assenza dell’altra metà – la sua matrice ideale.
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Una volta si interpretava il narcisismo infantile come un modo di escludere la contemplazione di altra cosa [per contemplare solo se stesso, per avere se stesso come unico «oggetto» di contemplazione].
In verità, […] il bambino si costruisce su una doppia serie di «oggetti»: quella degli oggetti reali come correlati della sintesi attiva [Eros, il «figlioccio» di Afrodite che «cade dalle nuvole»], e quella degli oggetti virtuali [immaginali] come correlati di un approfondimento della sintesi passiva [ovvero come un approfondimento del solco «inciso» da Mnemosine]. È contemplando i fuochi virtuali che l’io passivo approfondito giunge a riempirsi poi di un’immagine narcisistica.
Una serie non esisterebbe senza l’altra, e tuttavia esse non si somigliano. Per questo Henri Maldiney (Le Moi), analizzando ad esempio la deambulazione del bambino, ha ragione di dire che il mondo infantile non è affatto circolare o egocentrico, ma ellittico, a due fuochi di natura differente, entrambi tuttavia oggettivi o oggettuali.
Forse anche, da un fuoco all’altro, in virtù della dissomiglianza, si formano un incrociarsi, una torsione, un’elica, una forma ad 8. E l’io che cos’è, dove è, nella sua distinzione topica con l’Es, se non all’incrociarsi dell’8, al punto di congiunzione dei due cerchi dissimmetrici che si intersecano, il cerchio degli oggetti reali e quello degli oggetti o fuochi virtuali? […]
Che le due serie non esistano l’una senza l’altra, sta a significare che non sono soltanto complementari, ma che si scambiano e si alimentano reciprocamente in virtù della loro dissomiglianza o differenza di natura. Si constata così che i virtuali sono prelevati sulla serie dei reali, e che sono incorporati nella serie dei reali.
Questo prelievo implica prima di tutto un isolamento o una sospensione, che paralizza il reale al fine di estrarne un atteggiamento, un aspetto o una parte. Ma tale isolamento è qualitativo, non consiste semplicemente nel sottrarre una parte dell’oggetto reale, in quanto la parte sottratta acquista una nuova natura funzionante come oggetto virtuale.
Questo oggetto virtuale è un oggetto parziale, non solo perché manca di una parte rimasta nel reale [nel mondo di Afrodite, del Desiderio Innominabile], ma in sé e per sé, in quanto si sfalda, si sdoppia in due parti virtuali di cui l’una manca sempre all’altra. In altre parole, il virtuale non è subordinato al carattere globale che involge gli oggetti reali, dato che non solo per la sua origine, ma nella sua propria natura, il virtuale è brandello, frammento, spoglia, e non rispetta la propria identità.
La madre buona e cattiva, o il padre severo e compagno di giochi secondo la dualità paterna, non sono due oggetti parziali, ma lo stesso oggetto che ha perduto la propria identità nel doppio. […]
Per contro, gli oggetti virtuali sono incorporati negli oggetti reali, e possono in tal senso corrispondere a parti del corpo del soggetto, o di un’altra persona, o anche a oggetti molto speciali del tipo giocattolo, feticcio. L’incorporazione non è affatto un’identificazione e neppure un’introiezione, giacché trascende i limiti del soggetto, e anziché opporsi all’isolamento, ne è complementare. Quale che sia la realtà in cui s’incorpora, l’oggetto virtuale non vi si integra: anzi è come piantato, conficcato, e non trova nell’oggetto reale una metà che lo completi, ma al contrario rende manifesta in questo oggetto l’altra metà virtuale che continua a mancargli. […]
L’oggetto virtuale è essenzialmente passato.
In Matière et mémoire, Bergson propone lo schema di un mondo a due fuochi, l’uno reale e l’altro virtuale, da cui promanano da una parte la serie delle «immagini-percezioni», e dall’altra la serie delle «immagini-ricordi», che si organizzano entrambe in un circuito senza fine.
L’oggetto virtuale non è un antico presente [un «presente che fu e non è più], dato che la qualità del presente, e la modalità di passare, riguardano ora in modo esclusivo la serie del reale in quanto costituita dalla sintesi attiva. Ma a qualificare l’oggetto virtuale è il passato puro, da Bergson stesso prima definito come contemporaneo del proprio presente, preesistente al presente che passa e tale da far passare ogni presente. L’oggetto virtuale non è che un lembo di passato puro.
Dall’alto della mia contemplazione dei fuochi virtuali io assisto e presiedo al mio presente che passa, e alla successione degli oggetti reali in cui essi si incorporano. La ragione di ciò va trovata nella natura di codesti fuochi. Prelevato sull’oggetto reale presente, l’oggetto virtuale differisce sostanzialmente da esso; non manca soltanto di qualcosa in rapporto all’oggetto reale da cui si sottrae, manca di qualcosa in sé, essendo sempre una metà di sé, di cui suppone l’altra metà come differente e assente.
Ora codesta assenza è il contrario di un negativo: eterna metà di sé, essa è là dove è solo a patto di non essere dove deve essere. Non è là dove la si trova se non a condizione di essere cercata dove non è. Nello stesso tempo, non è posseduta da coloro che l’hanno, ma è avuta da chi non la possiede: insomma, è sempre un «era».
In tal senso appaiono esemplari le pagine di Lacan, ove l’oggetto virtuale viene assimilato alla lettera rubata di Edgar Poe. Lacan mostra che gli oggetti reali in virtù del principio di realtà sono sottoposti alla legge di essere o di non essere da qualche parte, ma che invece l’oggetto virtuale ha come proprietà di essere e di non essere là dove è, ovunque vada: «Ciò che è nascosto altro non è mai che ciò che manca al suo posto, come si esprime la scheda di ricerca di un volume quando è smarrito nella biblioteca… Il fatto è che non si può dire, alla lettera, che esso manchi al suo posto, se non in forza di ciò che può apportare un cambiamento, cioè del simbolico. Giacché per il reale, qualsiasi sconvolgimento vi si possa apportare, il libro c’è sempre, e in ogni caso al suo posto, lo porta incollato alle proprie suole, senza conoscere nulla che lo possa esiliare».
Mai, in modo così profondo, è stato contrapposto il presente che passa, e che porta via con sé, al passato puro la cui universale mobilità, l’universale ubiquità, fa passare il presente, e costantemente differisce da sé.
L’oggetto virtuale non è mai passato in rapporto a un nuovo presente, né è passato in rapporto a un presente che è stato. È passato come contemporaneo del presente che è, in un presente irrigidito, come mancante, da un lato, della parte che è, e dall’altro lato nello stesso tempo, come spostato quando è al suo posto. Così l’oggetto virtuale non esiste se non come frammento di sé: non è trovato se non come perduto, non esiste se non come ritrovato.
Qui la perdita e l’oblio non sono determinazioni che vanno superate, ma designano viceversa la natura oggettiva di ciò che si ritrova in seno all’oblio, e in quanto perduto. Contemporaneo di sé come presente, essendo a se stesso il proprio passato, preesistendo ad ogni presente che passa nella serie reale, l’oggetto virtuale è puro passato, puro frammento, e frammento di sé. Ma, come nell’esperienza fisica, è l’incorporazione del puro frammento a far mutare la qualità, e a far passare il presente nella serie degli oggetti reali.
È questo il legame tra Eros e Mnemosine. Eros strappa al passato puro oggetti virtuali, e ce li dà da vivere.
Sotto tutti gli oggetti virtuali o parziali, Lacan scopre il «fallo» come organo simbolico. Se egli può dare questa estensione al concetto di fallo (sussumere tutti gli oggetti virtuali), ciò è possibile perché tale concetto comprende effettivamente i caratteri precedenti: testimoniare della propria assenza, e di sé come passato, essere essenzialmente spostato in rapporto a se stesso, non essere trovato se non come perduto, esistenza sempre frammentaria che perde l’identità nel doppio, in quanto non può essere cercato e scoperto se non dal lato materno, e ha la paradossale proprietà di mutare di posto, non essendo posseduto da coloro che hanno un «pene», mentre è avuto da chi non l’ha, come dimostra il tema della castrazione.
Il fallo simbolico significa tanto il modo erotico del passato puro quanto l’immemoriale della sessualità [Afrodite]. Il simbolo è il frammento sempre spostato per un passato che non fu mai presente: l’oggetto = x.
(Deleuze, Differenza e ripetizione)