Raccolte le foglie, se ne tornarono Epistemone e Panurge alla corte di Pantagruele un po’ lieti e un po’ infastiditi. Lieti di fare ritorno, infastiditi per la fatica del cammino che trovarono scabroso, pietroso, tormentoso. Del loro viaggio fecero ampio resoconto a Pantagruele, e dello stato e del fatto della Sibilla; e infine gli presentarono le foglie di sicomoro e mostrarono la scritta in versetti.
Pantagruele, letto che ebbe il tutto, disse a Panurge sospirando: «Siete proprio conciato per le feste: la profezia della Sibilla dice apertamente quel che già ci era stato palesato, sia dalle sorti virgiliane, che dai vostri propri sogni, e cioè che da vostra moglie voi sarete disonorato; che vi farà becco concedendosi ad altri, e per opera d’altri, non vostra, restando pregna; che vi deruberà in buona parte, e che vi batterà, scorticandovi e ammaccandovi qualche membro del Corpo».
Ti spelerà,
la rinomanza.
«Fate il piacere – rispose Panurge. – Voi vi intendete dell’interpretazione di queste moderne profezie come un maiale di confetti. Non vi dispiaccia che ve lo dica perché mi sento un po’ irritato. È proprio vero il contrario. Seguite bene le mie parole. La vecchia dice: “Come la fava non si vede se non è spelata della buccia, così la mia virtù e perfezione non giungeranno mai a rinomanza se non sarò sposato”. Quante volte non v’ho sentito dire che la magistratura e gli uffici rivelano l’uomo e mettono in chiaro quello che aveva sotto la gabbana? Vale a dire che allora si viene a conoscere veramente il valore della persona, quando questa persona è messa alla prova in importanti uffici. Altrimenti, e cioè finché l’uomo resta chiuso nel suo giro privato, non si riesce mai a sapere di che razza è, tal quale come una fava finché è chiusa nella sua buccia. Ecco quanto, per ciò che concerne il primo articolo. Vorreste voi altrimenti sostenere che l’onore e il buon nome d’un galantuomo pendano dal culo d’una puttana?
S’impregnerà,
ma non di te.
Il secondo punto dice: “Mia moglie sarà pregna (ecco la prima felicità del matrimonio!) ma non di me”. Eh, lo credo, perdio! Sarà pregna non di me, ma d’un bel piccolo fantolino! L’amo già fin d’ora, e mi sento già rimminchionito al pensarci. Sarà il mio bel pistolino; e d’ora in poi il mondo non mi potrà più dare dolore o dispiacere così grande, che non mi passi solo al vederlo e udirlo balbettare nel suo cinguettio infantile. Benedetta sia quella vecchia! Voglio proprio, corpo di bisso, assegnarle, nel mio feudo di Guazzetto, una qualche buona rendita: non già corrente come quella delle teste vuote dei baccellieri, ma ferma e stabile, come quella dei bei professoroni della Sorbona. Non vorreste mica, altrimenti, che mia moglie dovesse portare me nella pancia? che concepisse e partorisse me? e che si dicesse che sono un secondo Bacco, nato due volte, o rinato come fu Ippolito, o come Proteo il quale nacque una volta da Teti e la seconda dalla madre del filosofo Apollonio, o come i due Palici presso il fiume Simeto in Sicilia? Direbbero: la moglie di Panurge era incinta di Panurge: in lui si rinnovella l’antica palintocia dei Megaresi, e la palingenesi di Democrito! Per carità! Non me ne parlate mai più.
Ti succhierà,
il buon boccone.
Il terzo punto dice: “Mia moglie mi succhierà il buon boccone”. Eccomi, son pronto. Non farete fatica a capire che si tratta di quel bel bastoncello che mi pende tra le gambe. E io vi giuro e prometto che lo manterrò sempre succulento e ben nutrito. Non me lo succhierà invano. Ci troverà sempre la sua biada, o anche di meglio. Voi interpretate allegoricamente questo passo, e l’intendete come ladrocinio e furto. Lodo la vostra interpretazione, l’allegoria mi piace, ma non nel senso vostro. Può darsi che l’affezione sincera che voi avete per me vi faccia inclinare a un partito avverso e refrattario, poiché, come dicono i sapienti, l’amore è cosa mirabilmente soggetta al timore, e mai un amore schietto è senza timore. Ma, secondo il mio giudizio, dovreste intendere anche voi che furto, in questo passo, come in tanti altri degli autori latini e antichi, significa il dolce frutto di Venere; che essa vuole sia colto in segreto e furtivamente. E perché, in fede vostra? Perché quella tal cosetta, fatta così di nascosto, fra due porte, a metà d’una scala, dietro una tenda, alla chetichella, sopra una fascina slegata, piace assai più alla dea di Cipro (io la penso così, senza pregiudizio di miglior avviso), che non fatta alla piena luce del Sole, alla cinica, o fra preziosi conopei, fra le cortine dorate, con tutta calma, a pancia in aria, con una zanzariera di seta cremisi e un pennacchio di piume indiane per cacciar via le mosche, mentre la femmina placida si stuzzica i denti con un filo di paglia spiccato via dal pagliericcio.
O non vorreste mica sostenere che lei mi derubi succhiando, come si sorbono le ostriche nel guscio, o come le donne di Cilicia (a quanto dice Dioscoride) colgono i semi dell’alchermes? Errore! Chi ruba non succhia, ma prosciuga; non inghiotte, ma arraffa, porta via, e fa sparire con un gioco di prestigio.
Ti scorticherà,
ma in porzione.
Il quarto punto dice: “Mia moglie mi spellerà, ma non del tutto”. Oh, che bella parola! E voi l’interpretate nel senso di botte e pestoni. È come chi portasse in tavola la cazzuola in luogo del mestolo, che Dio ci guardi da un tal muratore! Ma, ve ne supplico, se solo sollevate un po’ il vostro spirito dai pensieri terreni alla sublime contemplazione delle meraviglie di natura, arriverete a condannarvi da voi stesso per gli errori commessi interpretando perversamente i profetici detti della divina Sibilla.
Posto, ma non ammesso né concesso, il caso che mia moglie, per istigazione del demonio, volesse e intraprendesse a farmi un brutto tiro, a diffamarmi, a farmi becco dalla cima dei capelli fino al culo, a derubarmi e oltraggiarmi: ciò non vuol dire che essa debba riuscire nella sua intenzione e impresa. E la ragione che a ciò mi persuade, sta proprio in quest’ultimo punto, e io la deduco dal fondo della Panteologia monastica. Me l’ha raccontato una volta Frate Arturo Cullettante. Era un lunedì mattina, mentre pappavamo insieme un moggio di trippe e, ben mi ricordo, pioveva: che Iddio gli conceda lunga vita!
Le donne, al principio del mondo, o poco dopo, così mi disse frate Arturo, le donne cospirarono insieme di scorticare vivi gli uomini, per via che essi volevano dominarle in ogni cosa. E quest’accordo fu promesso, confermato e giurato fra loro sul santissimo sangue braghettino. Ma, oh vani progetti di donne! Oh, grande fragilità del sesso femminile! Esse cominciarono a scorticare l’uomo, a gluberlo, per usare il termine di Catullo, dalla parte che più stava loro a cuore, vale a dire il membro nervoso e cavernoso.
E, vedi, sono più di seimila anni ormai, eppure fino ad oggi non sono arrivate a scuoiarne che la testa. E questa è la ragione per cui, per malizioso dispetto, gli Ebrei da sé in circoncisione se lo tagliano e incidono, preferendo esser detti corti e tagliatelli marrani piuttosto che essere scorticati dalle donne come le altre genti. Mia moglie, dunque, per non degenerare da quell’antica comune impresa, me lo scorticherà, se ce n’è bisogno. E io vi acconsento, francamente, ma non tutto lo spellerà, ve lo posso assicurare, mio buon re».
«Sì – disse Epistemone – ma voi non spiegate come mai il rametto d’alloro, alla nostra vista, e mentre la vecchia lo considerava gridando con voce furiosa e spaventevole, bruciava senza rumore né scoppiettio alcuno. Voi ben sapete che ciò è di triste augurio e un segno molto brutto, come attestano Properzio, Tibullo, Porfirio, l’arguto filosofo, ed Eustazio nel suo commento all’Iliade omerica, e altri ancora».
«Veramente – rispose Panurge – voi mi citate un bel branco di gentili vitelli: furono matti in quanto a poeti, e farneticanti in quanto a filosofi; tanto pieni di follia sopraffina, quanto lo era la loro filosofia».
(Rabelais, Gargantua e Pantagruele, 3: 18)
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La Sibilla dà un responso, ma non finisce lì – perché poi, questo responso, bisogna darsi da fare a interpretarlo. Né basta fare un sogno, perché anche il sogno – per significare qualcosa – ha bisogno d’essere «ripassato» a memoria, più e più volte si devono re-citare le sue «citazioni» per estrarne un senso. Il sogno, in sé, come qualsiasi annunzio oracolare, non significa niente. Anzi, non vuole significare niente, e questa sua «nolontà» lo affranca dal dover significare per aver «diritto» a essere.
Condizione a cui, invece, è obbligata la Coscienza.
La Sibilla (perfino quella «triviale» di Rabelais), in tanto è «poetica», in quanto parla al vento, e solo al vento sparge le sue foglie. Bada bene: non i semi di chissà quale ulteriore «realtà» invisibile agli occhi dei comuni mortali, ma le foglie secche, i resti sterili, di una pianta – il Sicomoro, che per gli antichi Egizi, e non solo, era press’a poco qualcosa come il nostro Cipresso – ossia l’albero dei cimiteri, dei giardini della Morte.
La Sibilla, finanche la più «maccheronica» /Cuma, tutto sommato, non dista molto da Napoli/ a chi la consulta, a conti fatti, in cambio di due trippe e tre pagnotte, non rilascia che disordinati e frammentari ideogrammi di una «lingua morta», di una lingua che si parlava all’epoca dell’Oblio, in un Remoto Tarocco.
La Sibilla, come il Sogno, non ha nessun interesse a dire cose sensate. Non è il suo mestiere. Anzi, se proprio ce l’ha un interesse, è a rigettare ogni senso nell’insensatezza di una tal quale «trimetilamina».
Lo stesso vale per il Desiderio: il Desiderio è «desiderio di nulla di nominabile», dice Lacan. Il «nulla» del Desiderio, non ha niente a che vedere con «nulla» di tutto ciò che «nominiamo». Non trova asilo in nessun termine della «voce di Coscienza». Non è rappresentabile. È nemico giurato del linguaggio simbolico. Si compiace a dissacrarlo, a devastarne, metterne a nudo e scoperchiarne l’evidente «nullità».
Ma solo per dire che il pur «triviale» (e tuttavia dotto) Rabelais non è estraneo a tutto questo (è Ovidio il suo maestro), basterà quel piccolo dettaglio su cui Panurge richiama l’attenzione di quel cattivo interprete dei sogni che è stato Pantagruele, per averlo trascurato.
Un piccolissimo dettaglio, un minimo numero, lo scarto di un pelo – sempre quello: tra Afrodite ed Eros, tra il Desiderio al di là dei nomi, e il suo figlioccio, l’erotismo, a spasso nei vicoli del nostro «dire», o sulla scena, ora comica ora tragica, del nostro quotidiano «rappresentare».
Noi parliamo di desideri, noi nominiamo i nostri desideri – ma il guaio è che essi c’entrano poco o niente col Desiderio – l’Innominabile.
Di più: quel che «diciamo» dei nostri desideri, quel che alla luce del sole «rappresentiamo» dei nostri desideri, non piace a Desiderio – proprio non va giù ad Afrodite.
Alla dea di Cipro, di farsi vedere mentre fa all’amore, proprio non le va. E non è solo per una «questione di pudore» che disdegna di mostrarsi alla luce del Sole. Ma perché il suo mondo, il mondo dell’Afrodite Urania, l’Antica, l’Innominabile, non la Volgare alla portata delle nostre lingue – è se stesso solo tenuto all’oscuro della Notte, e a stento gradisce la penombra lunare.
Ecco, Ovidio è il Maestro, e Rabelais l’Allievo – Venere «odia» la luce del Sole. Ascolta bene ciò che dicono: Venere è tutto fuorché esibizionista.
Tutto ciò che, al più, ha da «esibire» nel Paese dei Nomi – è quella sete di vendetta che l’avvelena e che schiuma di rabbia, e di rancore, per quello che il Sole è andato (volgarmente) a «dire» d’aver visto.
Afrodite, come la Figlia del Serpente del mito Toba, ama il buio, l’oscuro, l’occulto, il latente. Perciò, al suo amante segreto si raccomanda: manda qualcuno a prendere la Notte – perché, alla luce del Giorno e della sua Coscienza, tu non potrai mai incontrarmi.
Io sono al di là dei nomi che mi dai, oscena – sempre dal lato opposto alla Scena delle «apparenze»: non là, sulla parete della caverna dove sfilano le ombre e i fantasmi di un Teatro che farà sempre di me la Vergine o la Puttana, ma da quest’altra parte, dalla parte antica, dal polo nord della tua mente.
Non amo, non voglio e non posso mettermi in mostra. Tutto ciò che di me dirai, e del nostro incontro, lo prenderò per un tradimento.
Ora, però, dimentica quel che ti ho detto. Io sono Afrodite, e amo dimenticare ed essere dimenticata. Lo sai già com’è andata: la corda che usai per venir giù dalla Luna dopo averci fatto all’amore, era troppo corta. Sicché, nel tuo Paese dei nomi e dei segni di memoria, nel Reame del Sole e della Coscienza che vuole a ogni costo farmi significare qualcosa, io non ci sono mai realmente discesa.
Sono rimasta appesa, tra il cielo e la terra – senza parole.
In terra ci ha messo piede solo mio figlio, solo il piccolo Eros è sfuggito alla Notte.