Il desiderio è un rapporto da essere a mancanza.
Questa mancanza è mancanza d’essere, nel senso proprio della parola. Non è mancanza di questo o di quello, ma mancanza di essere grazie a cui l’essere esiste.
Questa mancanza è al di là di tutto ciò che può farla presente [= è il suo Passato]. Non si presenta mai altrimenti che come un riflesso sul velo. La libido, non però nel suo impiego teorico come quantità quantitativa, è il nome di ciò che anima il conflitto di fondo che è al cuore dell’azione umana.
Noi crediamo necessariamente che le cose siano lì, al centro, solide, stabili, in attesa di essere riconosciute, e che il conflitto sia ai margini.
Ma che cosa insegna l’esperienza freudiana? Se non che ciò che accade nel cosiddetto campo della coscienza, cioè sul piano del riconoscimento degli oggetti, è altrettanto ingannevole rispetto a ciò che l’essere cerca?
Benché sia la libido a creare i diversi stadi dell’oggetto, gli oggetti non sono mai questo, grazie a una maturazione genitale della libido, la cui esperienza conserva in analisi un carattere, bisogna pur dirlo, ineffabile, visto che, non appena la si vuole articolare, si cade in ogni sorta di contraddizioni, ivi compreso l’impasse del narcisismo.
Il desiderio, funzione centrale in ogni esperienza umana, è desiderio di niente di nominabile. E questo desiderio è nel medesimo tempo fonte di ogni specie di animazione.
Se l’essere non fosse che ciò che è, non ci sarebbe neppure posto per parlarne. L’essere arriva a esistere [a esserci] in funzione proprio di questa mancanza.
È in funzione di questa mancanza, nell’esperienza di desiderio, che l’essere giunge a un senso di sé in rapporto all’essere. È perseguendo questo aldilà che non è nulla, che giunge all’idea di un essere conscio di sé, che altro non è che il suo proprio riflesso nel mondo delle cose. Poiché è il compagno degli esseri che sono lì davanti a lui, e che in effetti non sanno di essere. E, lui, si immagina, come un oggetto in più, perché non vede altra differenza. Dice – Io sono colui che sa che sono. Sfortunatamente, sa forse che è, ma non sa assolutamente nulla di ciò che è. Ecco ciò che manca in ogni essere.
Insomma, c’è confusione tra il potere di erezione di uno smarrimento fondamentale per cui l’essere si staglia come presenza su un fondo di assenza, e ciò che comunemente chiamiamo il potere della coscienza, la presa di coscienza, che altro non è che una forma neutra e astratta, e anche astrattificata, dell’insieme dei miraggi possibili.
Le relazioni tra gli esseri umani si stabiliscono di fatto al di qua del campo della coscienza. È il desiderio che compie la strutturazione primitiva del mondo umano, il desiderio in quanto inconscio. Bisogna cogliere a questo proposito l’importanza del passo di Freud.
Rivoluzione copernicana, dopo tutto, come ben vedete, è una metafora grossolana. È indubbio che Copernico ha fatto una rivoluzione, ma nel mondo delle cose che sono determinate e determinabili.
Il passo di Freud mi sembra che costituisca una rivoluzione in senso contrario, poiché la struttura del mondo di prima di Copernico dipendeva appunto dal fatto che in essa molto dell’uomo era in anticipo. A dire il vero, questa prospettiva non è mai stata pienamente decantata, benché lo sia stata abbastanza.
Il passo di Freud non lo si spiega con la semplice e caduca esperienza dell’aver da curare il tale o il talaltro, di fatto è da correlare a una rivoluzione che investe tutto il campo che l’uomo può pensare di sé e della propria esperienza, tutto il campo della filosofia – bisogna pur chiamarlo col suo nome.
Questa rivoluzione fa rientrare l’uomo nel mondo come creatore. Ma, della propria creazione, egli rischia di vedersi completamente spossessato grazie a una semplice astuzia, sempre messa in un angolo nella teoria classica, e che consiste nel dire – Dio non è ingannatore.
E ciò è a tal punto essenziale che a questo proposito Einstein non va oltre Cartesio. Il Signore, diceva, è certamente un furbacchione, ma non è disonesto. Che Dio non fosse ingannatore era essenziale alla sua organizzazione del mondo. Ora, proprio di ciò, non se ne sa nulla.
Si potrebbe riassumere il punto decisivo dell’esperienza freudiana così – ricordiamoci che la coscienza non è universale. [È generale, popolare, tribale, nazionale, ma non universale].
L’esperienza moderna si è liberata dal fascino a lungo esercitato dalla proprietà della coscienza, e considera l’esistenza dell’uomo nella sua propria struttura, che è la struttura del desiderio.
Ecco l’unico punto a partire dal quale si può spiegare che ci siano degli uomini [= gli uomini «avvengono» per dare avvenire al loro essere erotico]. Non uomini come gregge, ma uomini che parlano quella parola che introduce nel mondo qualcosa che pesa come tutto il reale.
Vi è un’ambiguità di fondo nell’uso che facciamo del termine desiderio. A volte lo oggettiviamo – e bisogna pur farlo, non fosse che per parlarne. A volte, al contrario, lo situiamo come primitivo rispetto a ogni oggettivazione.
Di fatto, il desiderio sessuale non ha nulla di oggettivato nella nostra esperienza. Non è un’astrazione, né un x depurato, come ha finito per diventare la nozione di forza in fisica. Senza dubbio ci serve e ci facilita molto a descrivere un certo ciclo biologico, o più esattamente un certo numero di cicli più o meno legati ad apparati biologici. Ma ciò con cui noi abbiamo a che fare, è un soggetto che è lì, che è effettivamente desiderante, e il desiderio di cui si tratta viene prima di ogni specie di concettualizzazione – ogni concettualizzazione deriva da esso.
La prova che l’analisi ci guida a prendere le cose in questo modo, è che la maggior parte di ciò di cui il soggetto crede di avere una certezza riflessa non è per noi che sistemazione superficiale, razionalizzata e giustificata in un secondo momento, di ciò che fomenta il suo desiderio, che dà la curvatura essenziale al suo mondo e alla sua azione.
Se operassimo nel mondo della scienza, se fosse sufficiente cambiare le condizioni oggettive per ottenere effetti differenti, se il desiderio sessuale seguisse cicli oggettivati, non ci resterebbe che abbandonare l’analisi. Come potrebbe il desiderio sessuale così definito essere influenzato da un’esperienza di parola – a meno di entrare nel pensiero magico?
Non è stato Freud a scoprire che la libido è determinante nel comportamento umano. Aristotele aveva già formulato una teoria dell’isteria fondata sul fatto che l’utero era un animaletto che viveva all’interno del corpo della donna, e che si agitava maledettamente quando non gli si dava da abbuffarsi.
Se Aristotele ha preso questo esempio, è perché non ha voluto prenderne uno molto più chiaro, l’organo sessuale maschile, che non ha bisogno di ausili di nessun teorico per richiamare l’attenzione sui suoi soprassalti.
Solo che Aristotele non ha mai pensato che si potrebbero aggiustare le cose parlando all’animaletto che è nel ventre della donna. In altri termini, per parlare come uno chansonnier che, nella sua oscenità, di tanto in tanto era preso da una specie di sacro furore che sconfinava nel profetismo – non mangia pane, non parla neanche e poi non capisce niente. Non sente ragione.
Se dunque un’esperienza di parola può entrare in un campo come questo è che rispetto ad Aristotele noi siamo proprio da un’altra parte.
(Lacan, Il Seminario: 2)
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Se – come dice Lacan – la libido «è il nome di ciò che anima il conflitto di fondo che è al cuore dell’azione umana», se è essa ad «accusare» la mancanza d’essere e a spingerla a prendere forma e a riconoscersi in un «riflesso del velo» (di Mâyâ): in un fantasma cioè della Coscienza Popolare – allora non c’è da meravigliarsi se «l’azione umana», gira e rigira, verte sempre e solo intorno al Corpo della Donna, intorno al Corpo che domina il campo delle attrazioni e distrazioni sociali. Delle suggestioni e delle frustrazioni più popolari.
Chi ci «anima» tutti assieme, tutto un Popolo, tutta una Tribù, è l’Innominabile (il Sacro, il Tabù, l’Intoccabile). Non facciamo altro che parlare di Lui, fingendo di parlare d’altro. Per la qual cosa non ci è richiesto un grande sforzo, poiché il desiderio è quel che vi è di più sfuggente al Nome, e «si apposta» e sta in agguato notte e giorno, là dove la Parola alza le mani in segno di resa. Il desiderio è là dove, in segreto, batte le sue ore «il cuore della realtà umana», ma di questo suo battito «nudo e crudo» la Parola può solo devotamente tacere o trivialmente bestemmiare, quando non osi addirittura imporre a chi la parla un crudele «non desiderare».
È come dire all’Uomo: non respirare!
Ma se lo dice, è proprio perché il desiderio è l’Ineffabile, l’Impronunciabile, da cui è quasi un dovere della Parola sociale stare in guardia.
Il desiderio è la leva senza parole su cui si regge «la strutturazione primitiva del mondo umano», è Lui a fondare l’abbiccì della Parola dell’Uomo – compresa quella le cui lettere, chissà dopo quanti tormenti e conflitti, si sono rassegnate a promulgare il Comandamento Morale che, il desiderio, lo mette al bando, lo rinnega e ne fa il peccato.
La Parola, in ogni caso, si «organizza» per dare un regolamento al desiderio. E se il Tabù ha buon gioco, è proprio perché, se la Regola è «nominata», ciò che è realmente «desiderato» rimane ineffabile: se gli dai un’«identità nominale», non fai che renderti ancora più «inconscio» l’essere di cui esso patisce la mancanza.
Ora, che il desiderio sessuale possa seguire cicli oggettivati… e le sue variazioni «fisiologiche» essere ordinate in un numero periodico, in sintonia con le lunazioni e il ritmo delle stagioni – questo, forse, lo credevano gli Indiani delle Pianure, mentre la lingua di Aristotele da tempo s’era svezzata da questa «barbarica» illusione.
Illusione, non c’è dubbio. Né si può dubitare che gli Indiani delle Pianure nei loro miti la spingessero fino all’eccesso – fino cioè a presumere di poter educare il corpo della donna ad avere «cicli regolari».
Che la Parola potesse giungere fino a tanto, fino a illudersi di poter dettare il tempo alla Natura – era questa la «barbarica» illusione. Che il simbolico fosse capace di forzare l’essere a esserci, capace di costringerlo a essere puntuale all’appuntamento con la Luna – era questa la «magia» in cui si attardarono gli Indiani delle Pianure. Magia crudele – esercitata sul corpo della Donna.
E invece: altra Tribù (quella greca), altra Parola. La Parola di Aristotele, per es., non è più così ingenua da illudersi di poter parlare all’Utero della Donna. Essa ha abdicato alla «magia». E perciò, alla «bestia» vorace che secondo Aristotele s’annida nel Corpo della Donna, altro che chiacchiere! – è ben altro che bisogna, dice lui, [trivialmente] darle da mangiare!
La Parola di Aristotele è dunque «disillusa» riguardo ai poteri «magici» che le attribuivano i Selvaggi. E perciò, educata com’è a non illudersi più, ecco che non vuole intromettersi più di tanto nella questione del desiderio, si tira indietro, se ne lava le mani.
Ma, al fondo, non è difficile vedere che anche nella lingua del civilissimo Aristotele ancora insiste la nozione «biologica» del desiderio che all’incirca avevano gli Indiani delle Pianure. La libido, per Aristotele, è infatti restia a ogni verbalizzazione. Irriducibile a un numero periodico (ormai si fa all’amore tutti i santi giorni!), e dunque fuori – secondo lui – dal campo della Parola.
La Parola si è dunque «liberata» dalle antiche superstizioni?
Macché, essa insiste a trattare il desiderio come un «animale», ancora lo nomina come un che di assolutamente «biologico».
E così, a essere messo fuori gioco è proprio il Fondatore della Parola, il Desiderio, ossia proprio quello che per primo accusa la «mancanza d’essere grazie a cui l’essere esiste», quello che sul fondo del nostro essere patisce l’«assenza» che ci necessita per esistere, insomma: quello che della nostra Parola è il «movente» primo della sua creatività, della sua missione a riempire il Vuoto d’essere. A darci quell’essere che ci manca, per poter essere fino in fondo. E percorrere anche quel metro che ci separa dall’impossibile.
L’uomo «si struttura» intorno al suo proprio desiderio prima di entrare nel mondo della Parola. Il desiderio è più arcaico del Simbolo in cui, a posteriori, va a rifugiarsi. O forse meglio: dinanzi al quale va a «mortificarsi».
Il Nome, il Simbolo, la Parola viene dopo – a dargli una sopravvivenza, un aldilà alla sua «morte naturale».
Di più: essa è già là, che attende solo che il «desiderante» afflitto dalla «mancanza d’essere» passi la soglia del Mondo Umano, che venga a cercare rimedio al suo «male» qui, tra le Dicerie della Coscienza Umana.
È dunque alla Coscienza, alla Lingua popolare, tribale, nazionale che si rimette ogni singolo «innominabile» desiderio, dopo la sua terribile notte d’insonnia. È morto di mancanza, il signor Nessuno, e se sopravvive – se nasce una seconda volta – è solo per grazia e divina concessione della Parola che gli dà un nome, e con esso una posizione nel Racconto della Tribù.
Ecco perché il desiderio ha questa ambigua dislocazione che lo vuole, insieme, dentro e fuori il campo della Parola.
Se è dentro, è però solo dentro la seconda Parola, quella simbolica, sociale, di popolo, a cui si rimette per dare una posterità al suo narcisismo.
Se è fuori, è perché – malgrado il trasporto nel Paese dei Nomi – esso rimane comunque Innominabile, irriducibile a un Concetto – sebbene esso sia, di tutti i concetti, il «movente» primo.
Il desiderio è più arcaico, più primitivo della Parola: il che non significa che esso non abbia, anzi – che addirittura non sia, in sé, un linguaggio: esso è il linguaggio della Natura che «desidera» senza parole. È proprio quello che pensa Aristotele: il desiderio non capisce le nostre parole!
Solo che ad Aristotele sfugge che il Desiderio «naturale», esso da sé, si traduce, e si tradisce, nelle parole dell’Uomo. È quel che gli antichi orfici chiamavano Eros (da *er, «dire»), figlio, compagno o erede di Afrodite – tanto Lei è indicibile, quanto però lui è chiacchierone.
Viceversa, gli Indiani d’America semplificavano il problema: non coglievano la differenza, e la distanza, tra il loro linguaggio simbolico e il linguaggio della Natura: al contrario di Aristotele, essi erano convinti che il desiderio capisce le parole, e perciò si davano da fare ad «educarlo».
Pensavano però di «ammaestrare» il fisiologico, di poter raggiungere coi loro calcoli periodici il desiderio senza parole, insomma di parlare ad Afrodite in persona, e non col suo vicario simbolico.
Il desiderio è la pietra d’angolo del Tempio della Parola. L’innominabile «nulla d’essere» che diffonde il suo default all’intera Struttura della Parola Umana.
Il fondo di questa Struttura, è il Passato del Desiderio «naturale», da cui e su cui sorge il suo nuovo Presente «simbolico»: ovvero la rappresentazione che esso di se stesso si fa per mezzo delle parole e dei concetti.
È questa sua «rappresentazione» che è nel campo della Parola – è a Eros che si può e si deve parlare, quando la messinscena fa acqua da tutte le parti.
L’imputato, il signor K., non è mai il Desiderio, ma quello «scarafaggio» che esso è divenuto attraverso la metamorfosi che l’ha consegnato al Tribunale delle parole. Perciò, se ne può e se ne deve parlare – per strapparlo alle grinfie del Giudice.