Arapaho – Il porcospino colorato

All’inizio dell’autunno, alcuni Indiani erano accampati al margine di una foresta. L’annata era stata buona, e le donne si davano da fare per grattare, conciare, dipingere e ricamare le pelli. Purtroppo non avevano gli aculei di porcospino, indispensabili per i loro lavori di ricamo.bambina-nativa-americana

In particolare una donna, abilissima nel ricamo, non poteva finire un lavoro che essa considerava come un dovere religioso. Sua figlia, che era bella e saggia e amava teneramente i genitori, raccontò di aver sentito parlare di un porcospino colorato; essa voleva proporgli il matrimonio, benché non avesse alcun desiderio di farsi una famiglia. Ma un tale genero avrebbe rifornito la madre che, da allora in poi, non avrebbe avuto altro da fare che raccogliere quanti più aculei possibile per poi adoperarli.

La ragazza andò dal porcospino colorato.
«Io mi offro a te – disse – perché i tempi sono duri; la mia cara madre non ha più aculei per ricamare. Io sarò tua e tu aiuterai me e i miei genitori».
Dapprima il porcospino esitò, ma siccome la bella visitatrice l’aveva commosso, finì con l’accettare. Formarono così assieme una bella famiglia.

Un giorno, mentre prendevano il sole davanti alla tenda, il porcospino posò la testa sulle ginocchia della moglie e le disse che poteva spogliarlo, ossia che poteva strappargli gli aculei per darli alla madre: «In questo periodo dell’anno – spiegò – io sono ben fornito di aculei; invece ne ho pochissimi alla fine dell’estate. Ricordati che non posso darti granché durante i mesi caldi, ma che sono abbondantemente fornito d’autunno e d’inverno».

La donna si mise a strappargli gli aculei e riempì i sacchetti di vescica riservati a quest’uso.
La madre fu molto contenta: «Di’ a tuo marito che apprezzo molto la sua bontà e la sua generosità», esclamò raccogliendo i sacchetti pieni di aculei bianchi, gialli e verdi.
La giovane informò i genitori delle caratteristiche del marito, e se ne andò per raggiungerlo. Da quell’epoca le donne tingono gli aculei per i loro lavori di ricamo.

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Per interpretare la «redazione porcospino», dobbiamo cominciare con il chiederci qual è la posizione di quest’animale nella mitologia nordamericana. Che cosa significa il porcospino? O meglio, che cosa vuol significare attraverso di esso il pensiero mitico?

porcospino-ursoneIl porcospino americano o ursone è un roditore assai diverso dal suo omonimo dell’Europa. Ha il corpo ricoperto di peli compatti che si trasformano in setole rigide e in aculei di diversa lunghezza sul dorso, sulla coda, sul collo e sul ventre. La disposizione delle unghie delle zampe posteriori permette all’animale di arrampicarsi sui tronchi e di appollaiarsi sugli alberi. Infatti, esso si nutre principalmente di scorza, di cambio e di fronde; benché non vada in letargo, si istalla nella cavità di un tronco durante l’inverno, su alberi che non abbandona se non dopo averli spogliati di tutte le parti commestibili. Si dice che cominci dalla cima, e che poi attacchi i rami e il tronco.

L’immagine del suo corpo a palla, irto di aculei, ha talvolta indotto i mitografi a credere che l’animale simboleggiasse il sol levante e i suoi raggi. Ma, se si eccettuano una versione Arapaho e una Crow, tutti i miti sulla disputa degli astri identificano il porcospino con la luna. Tuttavia, questo è un problema secondario, rispetto a certe proprietà più importanti che la ricerca etnografica può mettere in rilievo e che presentano scarsi rapporti con le interpretazioni soggettive che i commentatori hanno voluto proporre.

Una prima funzione semantica del porcospino appare da certi miti degli Algonchini orientali, che mettono in correlazione questo animale con il rospo. I Micmac raccontano che un tempo le due bestie erano streghe malvagie e che, per punirle, il demiurgo le privò del naso. Da allora esse hanno il naso camuso.
Gli stessi Indiani vedono nei porcospini anche un popolo di stregoni ctoni che cercano di distruggere gli eroi umani col fuoco, ma questi rivolgono talvolta l’arma contro i loro nemici e sono allora i porcospini a soccombere.

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Abbiamo detto che i porcospini si ritirano nelle loro tane durante l’inverno. Gli Tsimshian della costa nord-occidentale vietano di affumicarli nelle cavità degli alberi. Questi Indiani vivono certo lontano dai Micmac, ma quelle sul porcospino sono credenze comuni a tutta l’America settentrionale.
D’altra parte, è vero che l’animale possiede un profilo caratteristico in cui la fronte forma quasi una linea dritta col naso, e che numerosi miti descrivono così la faccia larga e piatta delle donne-rana o delle donne-rospo. Benché il porcospino non cada in un vero e proprio letargo, entrambi gli animali si ritirano nelle loro tane durante la stagione fredda: «Si addormentò per sei mesi come il rospo», dicono i Micmac a proposito del demiurgo.

Nei miti algonchini, il porcospino e il rospo formano dunque una coppia femminile e periodica. In quelli delle Pianure, se il porcospino incarna la luna nel suo aspetto maschile, aderendo all’astro la rana conferisce alla luna un aspetto periodico e femminile. Poco diverse nei due casi, le relazioni fra gli stessi termini ravvicinano in maniera analoga la luna, il porcospino e vari batraci […]

Nei miti che appartengono alla «redazione porcospino», le ragazze vanno in estasi per la bianchezza, la lunghezza e l’abbondanza degli aculei. Il porcospino colorato fa a sapere a noi, come all’eroina del racconto, che queste qualità si trovano riunite soltanto d’autunno ricamo-arapahoe d’inverno, e ciò conferma la nostra ipotesi circa l’epoca in cui comincia il racconto mitico.
Nello stesso tempo si capisce perché e in qual modo il porcospino è un animale periodico: la quantità e la qualità dei suoi aculei variano secondo le stagioni.

Ora, nelle tribù delle Pianure, queste particolarità assumono una straordinaria importanza per due ragioni.
I ricami con gli aculei del porcospino, di stile geometrico e di ispirazione in apparenza puramente decorativa, presentano in realtà un significato simbolico. Essi costituiscono dei messaggi, e la ricamatrice ne medita a lungo la forma ed il contenuto. La sua riflessione, sempre filosofica, la conduce talvolta a uno stato di grazia in cui l’artista riceve una rivelazione. Prima di mettersi al lavoro, essa digiuna, prega, celebra riti, rispetta alcune proibizioni.

Varie cerimonie segnano l’inizio e la fine dell’opera: «La veste fu disposta in modo che somigliasse a un bisonte, venne profumata d’incenso e toccata come per fare alzare l’animale. Poi venne spiegata e vi furono deposte sopra cinque piume, una per ogni angolo e una al centro. Le donne cucirono le piume al loro posto. Allora Dama-Gialla pronunziò il nome dell’uomo per il quale aveva ricamato la veste e lo fece chiamare. Era Uccello-nell’Albero. Egli arrivò, e si sedette con gli occhi rivolti verso l’entrata. Dama-Gialla sputò quattro volte sulla veste, la tese varie volte all’uomo e finalmente gliela consegnò. L’abito fu profumato d’incenso insieme al suo proprietario, il quale donò il suo miglior cavallo alla ricamatrice; per ringraziarlo essa lo abbracciò. Poi egli uscì con la sua veste nuova» (Kroeber).

L’arte del ricamo con gli aculei costituisce dunque l’espressione più raffinata e più alta della cultura materiale; perciò i Blackfoot la riservavano a un piccolo numero di iniziate.
In secondo luogo, questo lavoro, che spettava esclusivamente alle donne, esigeva da loro una notevole abilità. Vi sono quattro specie di aculei: quelli della coda, lunghi e grossolani; poi, in ordine di qualità, quelli del dorso e del collo; i più fini provengono dal ventre. Per appiattirli, ammorbidirli e tingerli si dovevano superare molteplici ostacoli, piegarli, annodarli, embricarli, cucirli, intrecciarli, tesserli o allacciarli. Una tale abilità non poteva essere acquisita senza sofferenza.

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I Menomini dicono che «l’arte del ricamo con gli aculei era al tempo stesso faticosa e pericolosa… le punte affilate… pungevano le dita… e quando venivano tagliate per pareggiarle, potevano saltare negli occhi e accecare» (Skinner).
Prima di mettersi al lavoro, le donne Blackfoot si ungevano il viso con una vernice magica per proteggersi contro questo pericolo (Dempsey).

Gli Arapaho raccontano cose analoghe: «Quando una persona inesperta si cimenta per la prima volta nel ricamo, immancabilmente fallisce. Le punte degli aculei fuoriescono e il lavoro si disfa. Una donna afferma che una volta, quando era giovane, si mise in testa di aiutare le ricamatrici. Era il suo primo tentativo, e tutto il suo pezzo si sciupò: gli aculei non stavano a posto, sicché le altre donne le proibirono di continuare. Allora essa pregò per poter diventare un’abile lavoratrice, facendo voto di ricamare da sola una intera veste con lo stesso stile. Una vecchia la approvò. Da allora gli aculei restarono a posto ed essa fu capace di ricamare» (Kroeber).

Non c’è da stupirsi se le ricamatrici conservano una bacchetta segnata con tante tacche quante sono le vesti che hanno fatto; giunte in età avanzata, esse sanno descrivere nei minimi dettagli la decorazione di ogni veste e il suo particolare significato simbolico; così trovano più coraggio a vivere, quando rievocano il tempo passato e i grandi lavori che hanno compiuto.
In certe società come quella dei Menomini in cui «ricamato con gli aculei» si dice con una parola che significa «arricchito», il ricamo non rappresenta dunque soltanto una holt-ricamomodalità eccezionale della cultura, ma costituisce anche la qualità più raffinata che si possa augurare alle donne di possedere, e dimostra la loro perfetta educazione.

L’eroina che nel mito Arapaho va a sposare Luna, in estasi alla vista del porcospino [nelle cui sembianze Luna le era apparso], lo desidera ardentemente per alcuni lavori di ricamo, e riserva gli aculei alla madre.
Attraverso questo dettaglio rivelatore, si riconosce prima di tutto che la ragazza è ben educata; essa si mostra fin troppo zelante, dal momento che tenta da sola la cattura del porcospino, compito che, a quanto pare, spettava agli uomini.
Inoltre, sulle diciannove versioni della «redazione porcospino», dodici presentano le ragazze mentre raccolgono la legna. Le altre versioni sono meno esplicite, eccetto due, in cui l’eroina va ad attingere acqua o confeziona dei mocassini.

Ora, gli Arapaho affidavano il compito di raccogliere la legna alle ragazze giovanissime o alle vecchie: «Quando ero piccola – racconta nel 1932 una informatrice di settantasette anni – aiutavo mia madre a trasportare la legna a grandi distanze; ma quando diventai donna, non mi venne più permesso di portare la legna sulla schiena, perché quello era un lavoro da vecchie» (Michelson).
Una ragazza di buona famiglia, in età da marito, non fa più lavori domestici, ma impara quelle che noi chiamiamo arti di diletto, in primo luogo il ricamo, attività raffinata che le testimonianze oppongono agli «sporchi» lavori di casa. In questo periodo della loro vita, la virtù delle fanciulle veniva sorvegliata molto strettamente. La madre le accompagnava al fiume o anche quando si allontanavano per soddisfare dei bisogni naturali.

Per eccesso di prudenza, esse portavano una cintura di castità, fatta di corde arrotolate intorno al corpo della vita fino alle ginocchia, uso questo diffuso anche fra gli Assiniboine, i Cree e i Cheyenne. Le giovani spose conservavano questa protezione perfino una o due settimane dopo il matrimonio, mentre la luna di miele si esauriva in conversazioni (Grinnell).
Anche le signore Arapaho restavano pudiche fin nella vita coniugale. I rapporti con gli sposi erano strettamente proibiti durante il giorno, ma, anche di notte, l’oscurità non winborg-cosmesi-native-americanedispensava la donna dal piegare il braccio sul viso per nasconderlo durante il coito. Quelle che non rispettavano tali regole venivano considerate depravate.

Queste fanciulle così ben sorvegliate avevano un’appassionata cura della loro persona. Munite di un astuccio da toeletta contenente vari prodotti di bellezza, passavano ore intere a dipingersi i capelli e il viso, con un piumino fatto con la coda del porcospino privata degli aculei; erano coperte di gioielli e, non contente di profumare se stesse, profumavano anche i propri cavalli.
Rese così affascinanti, esse avevano un contegno modesto, tenevano gli occhi bassi in ogni circostanza, si imponevano di non ridere e di non parlare ad alta voce (Michelson).

Come spiega col suo linguaggio un mito Arapaho, queste principessine sontuosamente ornate ed esentate da tutti quei lavori che non fossero i più raffinati, sembravano così lontane che soltanto un pene smisurato avrebbe potuto raggiungerle.
Erano dunque, in un duplice senso, creature lunari, secondo l’immagine che gli Irochesi si fanno delle macchie dell’astro: una donna seduta che ricama incessantemente con degli aculei, perché, se dovesse terminare il suo lavoro, sopraggiungerebbe la fine del mondo.

Nella «redazione porcospino» Luna sceglie come sposa una di loro: troppo giovane, però, per ricamare, dal momento che essa riserva gli aculei alla madre ed è ancora dedita alla raccolta della legna.
Bisogna dunque vedere nella nostra eroina una adolescente alle soglie della pubertà. Non soltanto per lei, ma per l’intera umanità, il suo matrimonio con la luna ha preceduto l’apparizione delle prime mestruazioni.

Questo particolare ha la sua importanza perché permette di avvicinare la piccola sposa della luna allo snidatore d’uccelli, che il mito Bororo descrive come un ragazzo impubere ma vicinissimo all’età dell’iniziazione.
Ora, in entrambi i casi, il personaggio centrale si trova disgiunto verticalmente in cima a un albero o a una roccia a picco, termine finale o tappa provvisoria di una discesa o di una ascensione.
Le versioni algonchine accentuano questa somiglianza: le eroine vanno a finire dentro un nido da cui un quadrupede feroce – il carcajou – le aiuta a scendere in cambio di una promessa sessuale; mentre lo snidatore d’uccelli dei miti gé, anch’egli prigioniero di un mills-ragazzo-su-alberonido, ottiene lo stesso aiuto dal giaguaro in cambio di un’offerta alimentare.

Il motivo del nido non compare nelle versioni Arapaho e, in generale, nelle Pianure; ma la liturgia della danza del sole lo attesta sotto forma di una fascina rappresentante il nido degli uccelli-tuono, che viene posta alla biforcazione del palo centrale del chiosco e nella quale viene conficcato un bastone da scavo che simboleggia l’eroina.
La stessa danza ha spesso lo scopo di ottenere la pioggia dagli uccelli-tuono, e quello dello «snidatore d’uccelli» è un mito sull’origine della stagione delle piogge. […]

Ma torniamo al porcospino. In quanto animale stagionale, esso possiede una duplice affinità col sesso femminile. Infatti, le ragazze sono esseri periodici che si ritiene indispensabile educare perché evitino sregolatezze sempre possibili.
Ora, sul piano della cultura, questa buona educazione si misura dalle qualità che esse dimostrano nelle arti di diletto, delle quali gli aculei del porcospino costituiscono per natura la materia prima.
Ma non basta: abbiamo visto che l’educazione delle fanciulle comporta un capitolo di fisiologia. Non si pretende solo che esse posseggano buone maniere e che sappiano ricamare, ma è altresì necessario che partoriscano entro il tempo prescritto e che siano perfettamente regolari nei loro cicli mestruali.

Il porcospino, possessore di aculei che ritmano con la loro crescita l’attività delle donne in quanto agenti culturali, previene anche, col suo carattere periodico, i ritardi o i disordini che minacciano i ritmi vitali.
Gli Indiani Ten’a, Athapaskan dell’estremo nord, dicono che il porcospino partorisce senza dolore: «Lascia cadere i piccoli e continua a camminare e a saltellare qua e là come se niente fosse… Per questo si consegna un feto di porcospino alla giovane donna incinta, ed essa se lo fa scivolare fra la camicia e il corpo nudo, perché cada a terra come un bambino».

I Ten’a vivono lontano dagli Arapaho, ma vicino ai Kaska, i quali conoscono la storia delle spose degli astri e trasformano l’episodio del porcospino dandogli un tono culturale: per sfuggire al carcajou, le eroine ottengono l’aiuto di un uccello acquatico che le aiuta ad attraversare un fiume, in cambio dell’offerta di giarrettiere ricamate con aculei di porcospino.

(Lévi-Strauss, Le origini delle buone maniere a tavola)